000charlesmorerodopGiugno 2013

L’Irlanda va controcorrente 

(Anche) l’abito fa il monaco

Non è certo usuale come prima pagina dell’International Herald Tribune, l’edizione internazionale di uno dei quotidiani più prestigiosi e laici del mondo, il New York Times: una grande foto del convento dei domenicani di Cork, in Irlanda, con un religioso vestito di bianco sullo sfondo e il titolo «Per i frati irlandesi, un abito che vale la pena tenere».

Un’apertura, quindi, non su qualche scandalo che colpisce la Chiesa, o sul Papa – come pure ogni tanto capita – ma sulla vitalità vocazionale dell’ordine dei frati predicatori in un Paese in cui la secolarizzazione e la piaga degli abusi sessuali fra il clero hanno colpito in modo durissimo. Il servizio in particolare riguardava il recupero vincente da parte dei domenicani della propria identità tradizionale, incluso il recupero dell’abito religioso diventato spesso nel post-Concilio, come per altri ordini nell’Isola, un optional.

«Abbiamo pensato: se non ci presentiamo in modo autentico, chi vorrà unirsi a noi?»: così padre Gerard Dunne, quarantasei anni, responsabile per le vocazioni, ha spiegato la scelta di tornare a presentarsi rigorosamente in saio bianco e cappa nera. Padre Dunne negli ultimi anni si è anche messo a viaggiare su e giù per l’Irlanda, a tenere conferenze, a incontrare persone, a fare insomma quell’opera di sana pubblicità che una volta si chiamava reclutamento vocazionale. I risultati pian piano sono arrivati: se su 26 diocesi l’anno scorso sono stati 12 i nuovi seminaristi, i domenicani hanno potuto accogliere in autunno 5 nuovi novizi. E in una Chiesa che conta circa 4 milioni e 500mila fedeli, i domenicani mantengono una presenza di 175 religiosi, con una trentina di studenti di teologia che vanno verso l’ordinazione sacerdotale.

L’attenzione all’abito è ovviamente solo un aspetto di un ricentramento più ampio, ma un aspetto che ha avuto il suo peso, simbolico e pratico, come l’Herald Tribune ha voluto sottolineare. Esempi in tal senso non mancano del resto anche fra altri ordini e anche in Italia. Uno è quello dei benedettini di Norcia, una nuova comunità in crescita vocazionale che nel 2000 ha riportato la presenza dei figli di san Benedetto nel loro paese umbro di origine, da cui mancavano dal lontano 1810.

Una realtà fondata da dom Cassian Folsom – americano, classe 1955, consultore della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti – tesa a ricuperare l’identità originaria benedettina, anche nei segni esteriori. «Lo scopo dell’abito religioso è di testimoniare a tutti che il monaco è consacrato al Signore» spiega dom Folsom, «allo stesso tempo l’abito è un aiuto per il monaco a ricordarsi del fatto che appartiene al Signore e che si deve comportare come una persona consacrata. Un terzo motivo è la semplicità: non è più necessario preoccuparsi di cosa indossare ogni giorno…».

All’obiezione per cui l’«abito non fa il monaco» e quindi, come altri segni della vita religiosa, che ci sia o no non fa differenza, dom Folsom risponde così: «È vero che l’abito non fa il monaco, ma è il segno esteriore di una realtà interiore. Siamo uomini, non angeli, e abbiamo bisogno anche di segni visibili». Anche sulla distanza che, secondo alcuni, l’abito creerebbe tra la gente comune e i religiosi, dom Folsom non è d’accordo: «Nella mia esperienza l’abito religioso non crea una distanza, piuttosto la supera e favorisce l’instaurarsi di un rapporto di tipo spirituale.

La gente cerca un contatto con Dio e l’abito è un segno della presenza divina. Quante volte – per strada, in città, in aeroporto – si avvicinano persone per chiedermi di pregare per loro, per parlare dei loro problemi, per confessarsi. E quanti mi hanno ringraziato per il fatto che porto l’abito! Ogni tanto l’abito può essere motivo di incomprensione, è vero, ma anche questo è un’occasione per conversare».

(Andrea Galli su www.avvenire.it)