E_io_vivro_per_luiUna bella testimonianza vocazionale

E io vivrò per Lui

Sono passati trentadue anni dalla notte in cui per la prima volta ho sentito il Signore chiamarmi e chiedermi tutta la vita. Lo so, perché ricordo molto bene che era la notte dopo la festa della Madonna del Rosario. A quel tempo frequentavo CL alla facoltà di Giurisprudenza in v. Balbi, a Genova. Non mi ero avvicinato alla fede da molto, ed ero ancora pieno di stupore per ciò che vedevo accadere dentro e fuori di me.

Prima di essere stupito di Dio ero stupito dei cristiani che andavo conoscendo: gente bella. Mai vista gente così bella. Gente che ti faceva desiderare di essere dei loro: sempre sorridenti, innamorati di tutto, attenti a tutto. Gente con una gran voglia di vivere, che ti faceva pensare: “ma come diavolo fanno?”. E poi, diciamocelo, in CL c’erano delle ragazze stupende (almeno a Giurisprudenza -ma anche Magistero era messa molto bene- almeno a Genova). Sarà che la Verità e la Bellezza convergono, sarà che la fede rende belli, come diceva il Gius, ma a quel tempo CL era un giardino in fiore (non che adesso non lo sia, è che non ci faccio più caso).

Erano i giorni di Solidarnosc e del colpo di stato di Jaruzelski, erano i giorni del referendum sull’aborto (che perdemmo, ma fu una battaglia epica, almeno nella mia memoria), c’era un entusiasmo pazzesco, c’era la consapevolezza di appartenere a qualcosa di grande, che non era il movimento ovviamente, anche se io a quel tempo non lo sapevo e CL occupava tutto il mio limitato orizzonte, ma Qualcosa di molto più grande, che affonda le sue radici nello spazio e nel tempo: la Chiesa, in tutta la sua presenza e la sua gloria. Erano giorni in cui essere un ciellino era bello davvero.

Per usare il loro linguaggio avevo scoperto il fascino di una compagnia, che però ancora non era diventata per me La Compagnia, cioè l’incontro con Cristo. Certo, avevo sentito parlare di Lui, andavo a Messa, pregavo, ma mancava ancora per così dire l’incontro personale, il “cuore a cuore”. Ma c’era un appuntamento pronto per me, un appuntamento fuori da CL, curiosamente.

Il  seminario diocesano di Sarzana, non quello di Genova, aveva organizzato un ritiro in quei giorni di Ottobre, in un posto sperduto tra i monti nell’entroterra spezzino, dalle parti di Brugnato. Volli partecipare, soprattutto per due motivi: non avevo niente da fare perché quell’anno l’Università iniziava in ritardo e, diciamola tutta, avrebbe dovuto partecipare anche una fanciulla che all’epoca mi interessava assai.

Il tema del ritiro erano i Salmi, ogni giorno ne avremmo letto e approfondito uno, finché non arrivammo al 7 Ottobre, festa della Madonna del Rosario, appunto, in cui leggemmo insieme il Salmo 22, quello che inizia “Mio Dio, Mio Dio, perché mi hai abbandonato…”. Meditazioni, preghiera, silenzio… il solito armamentario dei ritiri. Chi ha partecipato a queste cose sa che la sera dopo cena di solito si fa baldoria, ma quella sera non stavo bene, avevo un po’ di mal di testa, così invece di stare nel salone comune con tutti gli altri andai a cercare un po’ di quiete nella cappella, davanti al tabernacolo. E lì ebbi il mio roveto ardente.

Verso le 10 iniziai a pregare, ripresi in mano il salmo 22 che avevamo meditato durante il giorno e notai come il salmo, che inizia con parole di vera disperazione, forse le più disperate della Bibbia, si conclude però con un inno di gioia meraviglioso, una proclamazione di forza e certezza che è quasi destabilizzante se paragonata all’angoscia che precede.

Tra quelle frasi una mi colpì, semplice: “Io vivrò per Lui”, sentii che era tutto quello che volevo, che quelle quattro parole mi definivano, mi contenevano tutto intero. Sentii che in quella frase era descritta tutta la mia vita futura. Alle quattro del mattino rientrai in me stesso e mi resi conto di ciò che era accaduto: non ero più lo stesso uomo.

Dopo trentadue anni ieri sera mi sono lasciato andare alla nostalgia, ricordando quei giorni. Non con tristezza, non con la sensazione di essere vicino alla fine, ma con la consapevolezza del tempo passato, della strada fatta. E quindi mi sono lasciato andare a qualche bilancio, con quel gusto agrodolce e un po’ perverso che ha l’introspezione.

Sono un uomo molto diverso da allora, certo. L’entusiasmo giovanile ha ceduto il passo alla consapevolezza della maturità, ma l’amore è rimasto lo stesso mi sembra: ancora rido e piango come un ragazzino, ancora mi sorprendo e mi stupisco della vita e della sua maestà.

Non so se sono diventato un buon prete.

Ricordo che nei giorni del terremoto spirituale che seguì quella notte entrai in una chiesa di Genova, detta “dei cento crocefissi”, e feci questa preghiera: “Signore, io non riesco a decidermi, ho troppa paura di tradirti, quindi non ascolterò più le mie paure e andrò avanti a testa bassa, senza guardare né a destra né a sinistra. Ma tu sai tutto, tu sai se sarò un buon prete o no, quindi ti prego, se non sarò come Tu mi vuoi, se ti dovessi tradire, allora fammi morire, qui, ora, perché non potrei sopportare il pensiero di deluderti”. Uscii dalla chiesa finalmente in pace, la decisione era presa, mi ero affidato tutto intero e sapevo che la mia preghiera era stata ascoltata, sapevo che non essendo morto allora tutto sarebbe andato bene.

Non so se sono diventato un buon prete.

Questo lo deve dire il mio vescovo, il mio padre spirituale e la mia gente. Però so di essere un prete buono. Lo so perché so di essere un uomo buono. So che tutto quello che ho vissuto mi ha reso più buono, e alla fine dei conti, al tramonto della vita, come dice S. Giovanni della Croce, non è questa la sola cosa che conti, essere buoni? Certo, ho tradito, questo sì, decine di volte, con tradimenti di ogni specie, piccoli e grandi. Ma dopotutto sono ancora qui, dopo ogni tradimento sono tornato, anzi, non sono mai uscito, perché tutto sta a restare in gioco, anche se hai fatto delle bestialità colossali.

Per quanto uno sia una schiappa, per quanto non sappia nemmeno “strusciare un pallone”, come si dice a Roma, se rimane dentro al campo prima o poi la palla gli arriva, e così qualche bella giocata l’ho fatta anche io, qualche goal l’ho segnato. Non sarò Totti, d’accordo, ma per qualcuno ho fatto la differenza o almeno così mi dicono.

Sì, alla fine dei conti la cosa più bella e vera che si possa dire dopo trentadue anni è questa: “sono ancora qui, sono ancora in gioco”. Il resto lo fa il Signore.

Questa è stata la mia preghiera di stanotte e la rendo pubblica con molto timore. Da una parte tutto vorrei fuori che attirare attenzioni indesiderate su di me: credetemi, sono una schiappa fortunata, se non lo so io… E poi condividere cose così intime… insomma ve le affido, trattatele con amore, forse per voi sono banalità, ma per me sono cose preziose.

(Da http://lafontanadelvillaggio2.wordpress.com/2013/10/08/e-io-vivro-per-lui/#comments postato da Angela Magnoni)