imagesgMarzo 2013

A partire dal Concilio e da Medellin

Rinnovamento della VC in America Latina

A partire dal Concilio la vita consacrata in America Latina ha compiuto un cammino di profondo rinnovamento sulla spinta anche dell’Assemblea dell’episcopato di Medellin. Ciò è stato possibile per il felice intreccio tra riflessione teologica e vita consacrata.

Fra le varie analisi compiute sulla vita consacrata a 50 anni dal concilio, un’attenzione particolare merita soprattutto il cammino che questa ha compiuto in America Latina. Anche perché qui sono avvenuti degli sviluppi radicali che hanno contribuito ad arricchire la riflessione anche in altre parti della Chiesa.
Il fattore che ha influito più di ogni altro, possiamo anzi dire in maniera determinante, è stato il felice incrocio che si è prodotto tra teologia e vita consacrata, dando origine a una visione e realizzazione della vita consacrata del tutto originali rispetto al passato.
Su questi sviluppi ha scritto un interessante articolo il padre domenicano, Felicisimo Martinez Diez, in cui mostra che se è molto ciò che la vita consacrata ha apportato alla riflessione teologica, decisivo è stato anche il contributo che la teologia ha offerto alla vita consacrata. Da una parte, scrive, i religiosi e le religiose hanno saputo produrre una teologia molto qualificata: una teologia di frontiera, di dialogo con il popolo, di liberazione... una teologia del Dio della vita, della giustizia, dei diritti umani, dell’integrità del creato - tutti aspetti prima impensabili - una teologia nata dall’opzione per i poveri e gli esclusi e impegnata con le loro cause. Dall’altra, la teologia ha aiutato non poco la vita consacrata a scoprire la sua identità carismatica e la sua missione profetica, e, soprattutto a promuovere nuove prassi comunitarie e apostoliche. Sarebbe impossibile perciò capire ciò che è successo nella vita consacrata senza tener conto dei cambiamenti avvenuti nella riflessione teologica e i nuovi temi su cui questa teologia ha posto l’accento: il primato irrinunciabile del Dio della vita, la priorità della giustizia nella costruzione del Regno, la forza liberatrice del messaggio cristiano, la preferenza di Dio per i poveri e gli esclusi, l’importanza della cura per l’integrità del creato.
Il punto di partenza di questa evoluzione è stato senz’altro il Concilio, e più in particolare l’assemblea dei Vescovi, a Medellin, nel 1968. In questo incontro continentale, l’episcopato latinoamericano tradusse la ricchezza dei messaggi conciliari adattandoli alle particolari condizioni del continente: mise l’accento sulla necessità di presentare la Chiesa come “popolo di Dio”, stimolò l’impegno per la causa della liberazione dei popoli oppressi, indicò l’opzione per i poveri come criterio irrinunciabile per la missione ecclesiale, presentò l’impegno per la giustizia come un elemento essenziale dell’evangelizzazione.
La vita consacrata prese molto sul serio questi messaggi e, di conseguenza, anche la teologia su cui si fondava conobbe un rinnovamento radicale. Maturò cioè una teologia della vita consacrata a partire soprattutto dalla vita, dall’esperienza, dalla prassi, dall’inserimento tra il popolo e dall’impegno quotidiano a fianco a fianco della gente. Si può dire pertanto che la prassi ha costituito il primo momento e la riflessione teologica il secondo.

La dimensione teologale
Ma quali sono le grandi linee che questa teologia della Vita Consacrata ha tracciato in America Latina?
La prima, scrive P. Martinez, è stata la riscoperta della sua “dimensione teologale”. Per comprendere il senso di questa affermazione bisogna ricordarsi che, anche in America Latina, come altrove, si era stabilito il classico modello di vita religiosa basato essenzialmente sulla dimensione disciplinare e morale. Secondo questo modello, gli elementi decisivi del buon religioso trovavano la loro espressione nell’osservanza regolare, la disciplina personale e comunitaria e nelle pratiche ascetiche. In altre parole, «la priorità era attribuita soprattutto alla perfezione morale come ideale della Vita Consacrata, così che questo tipo di perfezione costituiva, in certo modo, la misura della santità. Si trattava della ben nota teologia della perfezione in cui furono educate intere generazioni di religiosi e religiose. Questa teologia affermava chiaramente che la vita consacrata era uno “stato di perfezione”, e ciò si traduceva spesso in una specie di pregiudizio nei riguardi degli altri stati o forme di vita cristiana. Per questa ragione determinante fu l’affermazione del Vaticano II che la vocazione alla santità nella Chiesa è universale».
A partire dal Concilio, e soprattutto da Medellin, l’accento fu posto invece sul primato della “dimensione teologale” rispetto a quella disciplinare e morale. La nuova teologia mise cioè al centro della vita consacrata l’esperienza di fede e di Dio, l’apertura all’Assoluto, all’Infinito, alla trascendenza, all’unico necessario di cui aveva parlato Gesù. Questa esperienza teologale divenne così il nucleo fondamentale che ha ispirato la teologia della vita consacrata e costituì la ragione della sua missione nel mondo.
Il passaggio non fu sempre facile ed ebbe i suoi rischi. In alcuni ambienti, scrive P. Martinez Diez, questa dimensione teologale perse il suo vigore, contagiata da una secolarizzazione malintesa e da una militanza erroneamente fondata. A volte la secolarizzazione avvenne senza un sufficiente discernimento e, lungo il cammino, si persero delle esigenze evangeliche molto importanti. Lo zelo militante e la generosità apostolica portarono a volte alla dimenticanza di questa dimensione teologale e all’abbandono di quella contemplativa che la nutre.
Ma questa deriva costituì anche l’incentivo ad approfondire maggiormente la dimensione evangelica, al punto da divenire la linea centrale della teologia della vita consacrata.

Riscoperta dell’identità carismatica
La prima importante conseguenza di questa evoluzione fu la riscoperta dell’identità carismatica della vita consacrata. Ci si rese conto, cioè, che nelle sue origini e nella sua ispirazione prima, la vita consacrata era nata come gruppo carismatico, animato dallo Spirito per vivere in piena libertà il radicalismo evangelico. Non quindi come una istituzione o un gruppo destinato all’organizzazione e alla gestione di problemi ecclesiali. Per questo, uno dei suoi tratti più salienti fin dalle origini fu la libertà: la libertà evangelica, la libertà nello Spirito.
Dalla storia, tuttavia, sappiamo che anche la vita consacrata, come avvenne in tutti i gruppi carismatici, finì con l’istituzionalizzarsi. Si moltiplicarono le leggi e le osservanze che sogliono regolare e anche controllare la libertà carismatica. Questa deriva fu avvertita soprattutto nella vita consacrata maschile che andò sempre più clericalizzandosi, a mano a mano che si coinvolgeva in funzioni proprie del clero e della gerarchia. E la maggior parte delle congregazioni apostoliche ne assunsero a tal punto i compiti e le funzioni da finire col confondere il carisma con gli impegni apostolici, la vocazione con la professione. In questo modo, si svigorì l’identità essenzialmente carismatica della vita consacrata.
L’avvenuta presa di coscienza di questa dimensione carismatica non significò tuttavia una rinuncia agli impegni apostolici e sociali. Al contrario, portò a moltiplicarli tra il popolo più povero e tra gli esclusi, in maniera diversa e originale.
Questo ha significato due cose. In primo luogo, che tutto l’essere e il fare della vita consacrata, compresi i compiti più secolari, devono derivare da una esperienza carismatica, ossia, devono essere ispirati e motivati dallo Spirito di Gesù. Essere religioso o religiosa vuol dire, cioè, essere uomo o donna di Dio, essere animati, ispirati, motivati dallo Spirito. Per la persona consacrata, ciò è molto di più che essere un’asceta, un’osservante o anche moralmente impeccabile.
In secondo luogo, ciò vuol dire vivere una vita nella libertà, nella piena libertà dei figli e figlie di Dio. Il recupero di questa dimensione carismatica, infatti, ha comportato una vera liberazione della vita consacrata: liberazione da molte sue strutture schiavizzanti, liberazione da molte adesioni istituzionali all’interno della Chiesa stessa, liberazione da molte schiavitù e sottomissioni ai poteri di questo mondo. In questo modo, la teologia della vita consacrata è diventata realmente una teologia della liberazione.

Riscoperta della sua missione profetica
Dal Vaticano II e da Medellin a questa parte, la vita consacrata e almeno alcuni suoi settori più significativi si sono impegnati a mantenere o a recuperare la missione profetica e il suo esercizio nella Chiesa e nella società. Non si è trattato della spinta di un gruppo di visionari che predicono il futuro e pronosticano ciò che deve avvenire. Si trattava piuttosto di persone che sono profetiche proprio perché leggono il presente e intuiscono i segni dei tempi, discernono ciò che vi è di Regno e di anti-Regno nella storia dei popoli.
La vita consacrata si è inoltre impegnata ad annunciare il Vangelo con la parola e la prassi, ossia la buona Notizia di Gesù per la liberazione dei poveri e degli oppressi. E si è ingaggiata, in nome del Vangelo, a denunciare ogni sistema inumano che genera violenza e sofferenza soprattutto a carico dei più poveri e indifesi. La missione profetica è diventata così anch’essa un elemento essenziale della teologia della vita consacrata.
Più significativo ancora: questo annuncio e questa denuncia non sono fatti solo né principalmente di discorsi appassionati, ma di presenze piene di densità evangelica e di impegni con i poveri e le vittime. Questo è stato il significato profetico di tante comunità di fratelli e sorelle dispersi nei barrios abitati dai più poveri; di tante comunità impegnate in progetti di umanizzazione, di liberazione, di promozione della giustizia e della pace, della difesa del creato.
La vita consacrata ha così recuperato nel continente la sua forza e il suo significato controculturale di fronte a sistemi politici, economici, sociali ed educativi che generano disuguaglianza e ingiustizia, che aggrediscono la dignità della persona umana e la disumanizzano, che sono fonte di innumerevoli sofferenze per i più poveri, i deboli e gli svantaggiati. In questo contesto politico, economico e culturale la vita consacrata si è sentita sollecitata a presentare con la sua vita dei valori alternativi di uguaglianza e giustizia, solidarietà e collaborazione, gratuità e comunicazione di beni, opzione preferenziale per i poveri e gli esclusi...
Espressione di questa opzione per i poveri sono stati i cambiamenti realizzati da molti Ordini e congregazioni: il dislocamento delle loro comunità nei barrios e negli ambienti più poveri e popolari, l’inserimento tra i poveri, la riconversione di molte opere per destinarle alla causa dei poveri e degli esclusi, il moltiplicarsi delle iniziative a favore della giustizia, della liberazione e promozione umana. Col passare del tempo i poveri hanno assunto nuovi volti in diverse categorie di persone: i poveri in quanto tali, gli indigeni, le donne. Ma l’opzione per i poveri è rimasta in ogni caso la linea fondamentale della teologia della vita consacrata e l’esigenza irrinunciabile di una vita evangelica radicale.

Mistica e impegni di liberazione
Ci fu però un momento in cui in certe comunità religiose un attivismo esorbitante, per quanto generoso, portò a sottovalutare e persino a ignorare l’importanza della preghiera e della dimensione contemplativa e celebrativa. Circolavano slogan come: “il lavoro è preghiera”, “credere, vuol dire impegnarsi”. «A quella generazione di religiose e religiosi – osserva P. Martinez Diez - non si può negare la generosità nell’impegno pastorale e sociale. Ma la mancanza e l’indebolimento della mistica finì col turbare anche l’impegno o, per lo meno, con l’indebolirne le motivazioni evangeliche».
A partire da questa esperienza, fu avviato il recupero: la vita consacrata del continente intensificò la sua dimensione contemplativa, armonizzandola con l’azione. Fu il momento in cui si coniugarono con particolare successo la mistica e l’impegno, la spiritualità e la militanza. “Contemplativi nell’azione e nella liberazione”: questo divenne lo slogan preferito della vita consacrata in America latina. E ciò produsse la miglior teologia della vita consacrata e la sua miglior prassi. E favorì anche le iniziative più trasparenti ed evangeliche nel campo della giustizia e della pace, dei diritti umani, della liberazione delle maggioranze o minoranze sfruttate ed escluse, e della difesa dell’integrità del creato, ecc.
La teologia della vita consacrata assunse in maniera definitiva la consapevolezza che l’impegno per la giustizia, nel senso più ampio del termine, è inseparabile dal compito di evangelizzazione e dall’esercizio della pratica cristiana. Perciò, il classico ideale della fuga mundi che un tempo era stato centrale nella teologia della vita consacrata fu sottoposto una nuova radicale interpretazione.  Non si tratta cioè di vivere fuori dal mondo - compito evidentemente impossibile - ma di stare nel mondo in maniera diversa, senza venir meno alle esigenze fondamentali della sequela di Cristo. Si tratta di stare nel mondo cercando “il Regno di Dio e la sua giustizia” e di denunciare con la parola e la prassi tutto ciò che è incompatibile con il Vangelo di Cristo e la dignità delle persone. Questo modo di stare nel mondo portò la vita consacrata a prendere sul serio le esigenze della sequela di Cristo e a compiere un’opzione definitiva per i poveri e gli esclusi.

Tutto questo indusse anche la teologia della vita consacrata a fare una lettura nuova dei voti religiosi, in chiave meno ascetica e più evangelica, una lettura appunto in base alla prospettiva dell’opzione per i più poveri.

(Antonio Dall’Osto, su Testimoni 3 del 2013)