4967243989_5103c02343Maggio 2012

La vita religiosa in tempo di crisi

Un rischio e un'opportunità

 

Bisogna saper cogliere la positività della crisi, nello specifico che attraversa la vita religiosa, come rischio e opportunità per crescere nella capacità di conformarsi  Cristo ed essere, in questo modo, visibile “sacramento dell’incontro con Dio”
In questi ultimi anni il termine crisi è entrato sempre più a far parte del nostro vocabolario: stiamo attraversando un tempo di forte crisi economica, finanziaria, lavorativa… il cristianesimo stesso non si è rivelato immune dalla crisi e né tanto meno la vita religiosa, chiamata continuamente a essere memoria e ricordo evangelico nella Chiesa e nella storia.
Da questo presupposto prende avvio la riflessione che p. Lécrivain, professore a Parigi di teologia della vita religiosa, espone nel libro: La vita religiosa in tempo di crisi: un rischio e un’opportunità (EDB).
Nell’uso comune del termine, la parola crisi ha per lo più un’accezione negativa, evoca un vicolo cieco dal quale, spesso, non si sa come uscire; ma nel suo significato originario di separazione, distinzione e discernimento porta in sé elementi positivi di valutazione e riflessione che sono presupposti per un miglioramento e per una possibilità di sviluppo della situazione presente. La crisi ha segnato le tappe della storia del cristianesimo, diventando per esso richiamo significativo e invito al superamento, non tanto del momento attuale, ma di se stesso, per “ritrovare le sue grandi intuizioni fondatrici” di cui la vita religiosa ha il compito di essere memoria. La crisi che interessa e coinvolge il cristianesimo e la vita religiosa, appartiene in modo più ampio alla condizione umana, poiché è «legata alla storicità dell’esistenza e, perciò, è inseparabile dalla domanda di ieri, di oggi e di domani».

Saper coglierne la positività
La proposta che l’Autore delinea è quindi la possibilità di cogliere la positività della crisi, nello specifico della crisi che attraversa la vita religiosa, come rischio e opportunità per crescere nella capacità di conformarsi a Cristo ed essere, in questo modo, visibile “sacramento dell’incontro con Dio”. Il fondamento della vita religiosa, come di ogni vita cristiana, è un incontro che genera un movimento, un mettersi in cammino e, in ogni caso, questo avvenimento carico dell’esperienza di Dio è rottura di una continuità e apertura su un indefinito. I cristiani e i religiosi sono così chiamati a procedere di inizio in inizio, di crisi in crisi, a fare della loro stessa vita il racconto di Dio che passa.
La vita religiosa, così intesa, prende forma, più che come un cammino eccezionale concesso a dei privilegiati, come dono fatto alla Chiesa per ricordare con coraggiosa umiltà che è urgente vivere di nuovi inizi, suscitando domande più che offrendo risposte.
L’identità della vita religiosa si riscopre in un’obbedienza radicale alla parola di Dio, possibile solo dove l’uomo è, nella sua interezza, ciò che fa; ovvero quando la parola di Dio svolge nei confronti del religioso una funzione unificante dei frammenti della sua vita, Parola che chiede di essere ascoltata e compiuta, non come norma esterna, ma nella profondità del suo stesso essere. Questo diventa un modo di vivere e di procedere, frutto di una decisione interiore che si manifesta e si rende visibile, attraverso una risposta al Vangelo, in uno stile di vita, che coinvolge la totalità dell’esistenza dell’uomo.
La totalità del dono di se stessi è il punto di partenza per l’esercizio della libertà, che si concretizza in una disponibilità a seguire meglio il Signore, non meglio di altri – come spesso in passato si è ritenuto –, ma meglio di come il soggetto stesso non abbia fatto finora.
L’interezza del dono offerto e la maggiore disponibilità danno origine al progetto dello stile di vita dei religiosi strutturato attorno ai poli della comunione e della missione. Entrambi luoghi per testimoniare la fede, di cui sono debitori ai loro fratelli in nome della solidarietà e ai loro contemporanei in quanto dati da Dio alla Chiesa e al mondo.
Lo Spirito è colui che garantisce la possibilità di legami tra fratelli e tra contemporanei, in quanto continuamente riunisce ciò che è diverso e disperso e apre ciò che è chiuso, il religioso è chiamato ogni giorno a vivere questo movimento di riunione, dispersione e apertura nella fedeltà allo Spirito. Il futuro della vita religiosa si gioca appunto sulla capacità dei religiosi di comunicare Colui che li fa vivere così.

Un segno concreto del Regno di Dio
Tutto questo arricchisce uno stile di vita che continuamente si impegna alla ricerca di nuove modalità per stare a fianco, il che comporta da un lato l’accettazione di essere uno tra i tanti, dall’altro di esistere in relazione verso altri, con altri e per altri.
La presenza diventa, allora, segno concreto del Regno di Dio, capacità di essere vicini a coloro la cui vicenda, cultura, religione sono diverse. La presenza nella storia e nella contemporaneità comporta per il religioso l’apprendimento graduale a vivere nell’incompletezza, aspettando il giorno in cui conoscerà la pienezza ma procedendo ora in una società mutevole e frammentata, correndo il rischio di vivere per altri e lasciandosi scavare dal desiderio della pienezza di Dio. L’immersione nel presente della storia consente al soggetto, e all’istituto di cui fa parte, di comprendere da vicino le rotture, le crisi, che “ritmano la trama dei tempi per annunciare l’oggi di Dio”. Il movimento che accompagna questa immersione è una continua conversione alla fragilità personale, alla fraternità e al mondo, stabilizzandosi in un perenne stato di incertezza e di disponibilità di fronte al futuro.
Diventare religioso non significa quindi adottare uno stato di vita istituzionalizzato, quanto rispondere a una chiamata specifica e scegliere un modo di vivere il Vangelo secondo il modo, lo stile, di un fondatore.
Nell’esperienza cristiana la relazione del credente a Dio è riferita storicamente e socialmente a Cristo attraverso la mediazione del racconto evangelico; leggendo il vangelo nella Chiesa il credente incontra Cristo, vivendolo nella Chiesa ne continua la scrittura nel mondo. Questo vale anche per gli istituti religiosi, ogni istituto fa la sua storia, è invitato a riscriverla volta per volta e a interpretarla continuamente.
Questa operazione di rilettura che vede coinvolto un testo fondativo richiede la presenza di un lettore, qualcuno che, alla luce della storia e delle vicende del mondo, lo interpreti e lo renda attuale e significativo. Ciò significa inevitabilmente entrare nella tensione tra la stabilità del senso e la determinazione progressiva del suo significato, ovvero l’unico atto fondativo accaduto nel tempo e nello spazio si lega e si lascia formare dal tempo e dalla storia non solo di chi lo ha vissuto o scritto ma anche da colui che oggi lo legge.
L’esperienza cristiana costituisce i credenti come figli di un’assenza, la tomba vuota lascia lo spazio per la narrazione, per la rilettura dell’accaduto, per il riconoscimento dell’identità di Gesù iniziato in Galilea; continuando nel presente la ricerca della sua identità noi cerchiamo anche la nostra.
La narrazione è quindi possibile tra lo spazio di un’esperienza e l’orizzonte di un’attesa, tra memoria di un passato capace di acquisire nuovi significati e la capacità di immaginazione che apre alla novità, traccia di un desiderio che si modifica nel corso dell’esistenza.
L’appartenenza a una comunità religiosa giunge a maturazione quando l’identità narrativa dell’istituto diventa la chiave della identità personale dei religiosi che ne fanno parte, mostrando la capacità di attribuire ad avvenimenti del passato un’importanza decisiva per interpretare il presente, anticipando il futuro per mezzo di un’esperienza condivisa e esprimendo la loro identità in una narrazione comune.
Facendo propri i racconti fondatori di una comunità, il soggetto è invitato a ricomprendersi diversamente; l’invito è chiaramente di entrare in questi racconti non per imitarli, ma per interpretarli e rischiarli attualizzandoli in modo personale nel nome del Signore e guidati dallo Spirito. All’origine di un istituto religioso c’è un uomo, una donna, un gruppo di uomini e donne che hanno cercato di risignificare Cristo qui e ora, nel loro presente, guidati da un desiderio e da una volontà che è a loro appartenuta ma consapevoli del fatto che Dio ha dato loro di desiderare e di volere.
Nel nostro presente, in un tempo caratterizzato da una memoria frammentata e da particolarismi, la
crisi non è quella del credere ma quella del credere insieme; il soggetto religioso è chiamato a dare senso ai suoi molteplici ruoli, esperienze, progetti per non disperdersi.
Ogni forma di trasmissione, oggi, non può più considerarsi la riproduzione identica di ciò che è stato, ma è necessario tener conto del modo in cui le identità si costituiscono, a partire dall’esperienza dei soggetti credenti, si tratta in altre parole di privilegiare l’autenticità alla conformità.
Si tratta di un rovesciamento rispetto al classico modo di precedere: la dimensione del credere non è più convalidata dall’eredità trasmessa o dall’autorità istituzionale, ma trova la sua legittimazione nella coerenza di una testimonianza personale, sostenuta da una rete tra pari, favorita da una dimensione sensibile dell’esperienza religiosa.
La reazione alla frammentazione dell’identità e dello stesso credere sfocia in una ricerca di unità che ha come obiettivo l’invenzione di percorsi di discernimento e di reciprocità nei quali il credere si sperimenta come testimonianza autentica, che cerca di far nascere attese di senso in uomini e donne che credono nella libertà di Dio. L’appartenenza istituzionale si profila quindi come punto di arrivo, e non di partenza, di un processo di ascolto accordato a coloro che si mostrano capaci di dire la propria fede.

Essere uomini e donne del futuro
I religiosi sono chiamati oggi a essere uomini e donne del futuro, che inventano, scoprono, cercano, trovano e cercano ancora per entrare in un lento processo di svelamento; gli inventori di futuro non sono coloro che ripetono il passato, ma coloro che narrano in modo nuovo il senso di ciò che è accaduto.
Accogliere un nuovo soggetto in un istituto non è, quindi, questione di trasmissione di eredità ma di apertura insieme di un testamento, il che significa entrare in una dinamica fondatrice, dinamica che coinvolge entrambi perché consiste nell’accettare di vivere l’incontro tra due esperienze di Dio: quella vissuta nell’istituto, in una nuova fedeltà inventiva, e quella, tutta nuova, di colui che bussa alla porta.
Il futuro di un istituto si lega alla capacità di generare eredi, cercatori e inventori, all’interno di comunità che si offrono come luoghi dove si svela un’identità.
Nella vita comune i religiosi si impegnano ad affidarsi ad altri, accettando un modo singolare di andare a Dio, la comunità si profila come luogo della fragilità e della prova di fede, il vivere insieme diviene esperienza continua di uscita da sé, di itineranza e di esodo.
Compito della comunità è raccontare insieme, ma in modo differenziato, la premura di Dio, saper ridefinire le proprie identità fondative e comunicarle. Il linguaggio si offre come espressione di ciò che viviamo, spesso una crisi di linguaggio è segno di una crisi dell’esperienza spirituale originaria e originante. Il ruolo dei religiosi si gioca infine nella contemporaneità. Contemporanei di molti per i quali Dio è un inizio immutabile e a cui ci si rivolge per una garanzia di futuro, ma anche contemporanei di molti per i quali Dio è futuro, che assume dentro la realtà i rischi delle sue promesse e che ha la fragilità di una storia che può essere solo raccontata.

(Francesca Balocco, su Testimoni 8 del 2012)