Guido_Maria_Conforti23 ottobre 2011

Il Fondatore dei Saveriani, novello santo

 
Una grande vocazione

La biografia di Conforti recentemente (pubblicata da Angelo Manfredi, con tutti i crismi di un lavoro propriamente scientifico, ci restituisce la figura del vescovo e missionario in tutta la sua complessità e profondità. In particolare, tale lavoro ci consente di cogliere in piena luce quel duplice, complementare apporto alla vita della Chiesa che costituisce una caratteristica peculiare di Conforti. Egli si è mostrato pienamente fedele sia alla Chiesa locale di cui è stato figlio e pastore, sia alla Chiesa universale alla quale ha donato una nuova congregazione di missionari ad gentes. Non si tratta, peraltro, di due orientamenti che procedono in parallelo, come due binari l'uno affiancato all'altro, bensì di due dimensioni tra loro variamente collegate e intrecciate.

 

 

 

Chiesa locale e Chiesa universale

Nativo della Bassa parmense, dove vide la luce nel 1865, Conforti passò dalla propria famiglia di origine al seminario della sua città, dunque con il desiderio preminente di porsi a servizio di quella Chiesa locale, come prete diocesano. E tuttavia, la conoscenza, attraverso una biografia illustrata, della grande figura di S. Francesco Saverio, maturò ben presto in lui l'apertura a un orizzonte più ampio.
Diventato prete, nel 1888, Conforti rimase in seminario come vicerettore, anche per i limiti della salute che avevano messo a rischio la sua stessa ordinazione sacerdotale. Cominciava, intanto, a prendere forma più precisa e determinata il suo "disegno missionario": se esso non poteva prospettarsi ragionevolmente come diretta azione apostolica - appunto per lo stato precario della sua salute - eccolo delinearsi come possibile impegno per la formazione dei missionari. Peraltro, il vescovo di Parma in quegli anni, Andrea Miotti, non riconobbe l' opportunità di quell'orientamento; fu il suo successore, Francesco Magani, ad accogliere positivamente e a sostenere il desiderio missionario di Conforti, concretizzatosi nella fondazione di un seminario emiliano per le missioni estere, in particolare per l'Asia. Conforti poté così avviare la sua iniziativa che, di lì a qualche anno, diventerà una vera e propria congregazione religiosa, quella dei missionari saveriani, religiosi a tutti gli effetti, mediante la professione di tre voti tradizionali (castità, povertà, obbedienza) e di un quarto voto particolare, per l'impegno nella "conversione degli infedeli".
Nel frattempo, Conforti, non ancora trentenne, venne scelto dal nuovo vescovo di Parma come vicario generale. In quegli stessi anni, allo scadere del secolo, partivano per la Cina i primi due saveriani, anche se questa prima spedizione subirà una prematura conclusione. Ecco, comunque, avviati i due orientamenti di vita di Conforti, con anni di intensissimo impegno, da lui vissuti facendo quotidianamente la spola tra la casa di formazione dei futuri missionari e l'ufficio in curia.

Separazioni e ricongiunzioni

Il promettente avvio dell'uno e dell'altro orientamento venne bruscamente interrotto nel 1902 dalla inaspettata (e, probabilmente; inopportuna) nomina dell'ancor giovane sacerdote ad arcivescovo di Ravenna. Leone XIII lo aveva destinato a quella prestigiosa ma assai difficile Chiesa, certo contando sulle doti di equilibrio e di mediazione da lui mostrate nel ruolo di vicario generale. Di fatto, Conforti finì con il trovarsi, ad un tempo, fortemente isolato all'interno della sua nuova diocesi - soprattutto a motivo della intricata situazione locale e delle forti divisioni fra il clero - e lontano dalla sua fondazione, rimasta in quel di Parma. Erano venuti a dividersi, per lui, quei due "amori" che avevano caratterizzato, fino a quel momento, la sua vita. Tutto questo pesò a tal punto sul suo animo da aggravare le sue già precarie condizioni di salute e provocargli un'acuta sofferenza interiore, con un senso di "impotenza" tale da portarlo alle dimissioni dalla sede ravennate, dopo solo venti mesi di episcopato. Il pur mesto ritorno a Parma fu, a questo punto, un fatto provvidenziale, in quanto permise al giovane vescovo di stabilizzare la propria fondazione, così da ottenerne il riconoscimento pontificio e far ripartire la missione dei primi saveriani verso la Cina.
Pochi anni dopo, alla morte di mons. Magani, Conforti divenne vescovo della sua stessa diocesi di origine: ciò gli permise di ricomporre nuovamente il suo duplice servizio alla Chiesa locale e alla Chiesa universale. Per quanto riguarda il primo aspetto del suo ministero, egli si comportò, sostanzialmente, secondo il tradizionale modello di vescovo delineato fin dal concilio di Trento, alla metà del Cinquecento, pur senza mancare di corrispondere anche alle nuove esigenze dei tempi, soprattutto in ambito sociale, con iniziative nel campo dell'impegno laicale e con una particolare attenzione al clero, numericamente carente e spesso in situazioni problematiche. Sul "fronte" della missione in Cina, poi, Conforti si trovò coinvolto in un contesto sociale e politico tutt'altro che tranquillo (sono gli anni della rivoluzione che portò alla proclamazione della repubblica, nel 1912); per di più, le difficoltà interne al giovane istituto missionario furono tali da convincere il fondatore a recarsi personalmente in Cina, nel 1928, in modo da ricucire alcune divisioni interne e ridurre il distacco con la Casa Madre. Fu un viaggio che contribuì soprattutto a rafforzare il valore di quella sua vocazione missionaria che, da una decina d'anni, egli aveva iniziato ad esprimere anche in altro modo, assumendo per primo, nel 1918, la presidenza dell'Unione Missionaria del Clero.
Tale iniziativa era nata da un'intuizione di padre Paolo Manna: occorreva coinvolgere più intensamente e costantemente i preti diocesani nell'impegno dell'animazione missionaria tra i fedeli. Era un'idea che corrispondeva perfettamente a quel legame stretto fra pastorale "ordinaria" e apertura missionaria che Conforti per primo aveva attuato nel suo ministero.

Una profezia per la Chiesa

Sulla base dei fatti ricordati, possiamo dire che Conforti realizzò, nella sua stessa persona, una sorta di laboratorio di quella nuova idea di missione come "cooperazione tra le Chiese" che avrebbe avuto riconoscimento ufficiale solo con Pio XII (nella Fidei donum del 1957, per l'invio di clero diocesano soprattutto in Africa), quindi con il Vaticano II. Più in generale, tale disponibilità del vescovo di Parma ad aprire la Chiesa locale sull'universale viene a collocarsi, significativamente, dentro quel lungo itinerario della Chiesa contemporanea che matura sempre più quale Chiesa propriamente universale, sia per estensione geografica sia per una nuova consapevolezza di sé. Non si deve poi dimenticare come il coinvolgimento sempre più ampio delle diverse componenti ecclesiali - preti e vescovi oltre ai religiosi; laici e Chiese locali - abbia• costituito una caratteristica tipica della fase contemporanea della missione. Conforti, pertanto, interpreta e fa crescere una sensibilità diffusa nella Chiesa del suo tempo e tradotta, fin dalla prima metà dell'Ottocento, in diverse istituzioni, quali l'Opera per la propagazione della fede, l'Opera missionaria della Santa Infanzia, l'Opera di San Pietro apostolo per il clero indigeno. Ora, nel cogliere ed assumere la crescente sensibilità missionaria, Conforti esprime quello che è proprio un tipico comportamento episcopale: farsi interprete e strumento di sintesi delle ricchezze diffuse dallo Spirito nel Corpo della Chiesa.

La croce come sintesi suprema

Sono due tensioni complementari, quelle ricordate, che Conforti tiene insieme con grande fatica e sacrificio, proprio anche nei momenti in cui esse sembrano escludersi l'una con l'altra. Come poteva pensare alla missione un giovane seminarista malaticcio a cui era stata perfino rinviata l'Ordinazione, appunto per le sue condizioni di salute? Come poteva pensare di reggere la guida di una famiglia missionaria destinata al difficile terreno asiatico chi non era stato in grado di sostenere la pur com-plessa situazione di Ravenna? Conforti, tuttavia, non si rassegna ai fallimenti, se mai ne trae motivo di revisione e di correzione per i suoi progetti; insomma, ne coglie la fecondità nascosta. Si intuisce qui la radice ultima di queste due dimensioni costanti della vita di Conforti. Ed è la centralità di Cristo crocifisso, nella sua tensione universale. Una universalità lapidariamente espressa nello stesso motto episcopale scelto da Conforti, traendolo da un passo di Paolo (In omnibus Christus: Col 3, 11), e idealmente identificata in quel Crocifisso di una chiesa di Parma che lo aveva attirato fin da ragazzo e che egli aveva poi voluto portare con sé, in vescovado. Ecco il motivo profondo per cui tale sintesi aveva sempre avuto, in Conforti, il sapore della sofferenza e il profumo della carità; insomma, i requisiti essenziali della santità.

(Gellini Anna Maria, Vescovo e missionario in Testimoni n.17-2011)