padre_pietro_turatiFebbraio 2011

Festa per i Frati Minori lombardi a vent'anni dal martirio di Padre Pietro Turati

La missione di padre Turati «zingaro di Dio» in Somalia

Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici, si legge nel Vangelo di Giovanni. Sono passati vent’anni dalla tragica morte di padre Pietro Turati, ucciso a Gelib, in Somalia, l’8 febbraio 1991. E ancor oggi non si conoscono gli autori né le esatte circostanze. Ma quanto sappiamo dai frammenti di testimonianze raccolte finora sull’omicidio, assieme – soprattutto – a quanto sappiamo con certezza della sua vita, ci parlano di un’esistenza tutta spesa per l’annuncio del Vangelo e la promozione umana nell’amatissima, tormentata Somalia, dove il frate bresciano giunse nel 1948 e restò fino alla morte. Morte violenta. Oscura, nella sua dinamica. Ma illuminante, se la si coglie quale culmine ed epifania di una vita donata – per amore di Cristo – al popolo somalo, che il missionario sentiva irrevocabilmente suo. Italiano, seppe farsi servo per amore di quelle genti che l’Italia aveva asservito al tempo delle imprese coloniali. Figlio del Nord del mondo, seppe farsi fratello di un popolo del Sud che nell’indipendenza non trovò pace e giustizia, ma nuove servitù e un abisso di povertà e guerra. Apostolo del Vangelo, seppe farsi padre dell’infanzia abbandonata, delle orfane, degli studenti, dei lebbrosi, praticando in una società musulmana quel dialogo della vita e della carità che vide minacciato, prima, dal nazionalismo marxista del dittatore Siad Barre, poi dal propagarsi dell’islamismo radicale. Sempre fedele al carisma francescano: stimmate e perfetta letizia. Vita crocifissa e lebbrosi da abbracciare. La sua stessa carne, ferita dalla malattia. L’alter Christus.

Nel Corno d’Africa

Sono passati vent’anni dall’omicidio di padre Pietro Turati. E i Frati Minori di Lombardia, assieme alla Chiesa bresciana, lo ricordano con un ciclo di manifestazioni che prende il via oggi. Un modo per riscoprire la figura e la vicenda del frate nato il 19 ottobre 1919 a Nuvolera (Brescia), paese natale di un altro grande francescano, Venanzio Filippini (1890-1973), che fu missionario in Libia e poi vescovo di Mogadiscio dal 1933 al 1970. Pietro è il nome che il giovane Turati, cresciuto nel vicino paese di Virle, prese iniziando il noviziato nel 1940; quello di battesimo era Francesco. Nel 1944 la professione solenne; il 27 giugno 1948 l’ordinazione sacerdotale nel Duomo di Milano ricevuta dall’arcivescovo, il cardinale Ildefonso Schuster; il 21 agosto dello stesso anno l’arrivo a Mogadiscio.
Da anni chiedeva di essere mandato in Africa. Carattere fermo, docile verso i superiori, caritatevole verso i compagni, diligente nel lavoro: così era stato «valutato» negli anni della preparazione. Amore grande per l’Eucaristia, viva devozione mariana. E una prorompente passione missionaria che i suoi superiori vagliarono e, infine, accolsero. È questo il frate Pietro che nel 1948 approda in Somalia. Sogna la vita di frontiera: ma all’inizio sarà vita d’ufficio, accettata per obbedienza, perché il vescovo Filippini lo ha scelto suo segretario. Nel 1951 finalmente viene nominato superiore del­la missione di Merka. Da allora diventerà – parola sua – «lo zingaro del buon Dio», incaricato via via delle missioni di Brava, Ng’ambo, Mofi, Baidoa, Belet Weyn, Kisimaio, Gelib, l’ultima sede, con la parentesi (dal 1968 al 1972) della direzione del Collegio Nuova Somalia a Mogadiscio.
L’indipendenza del Paese nel 1960, dopo un decennio di amministrazione fiduciaria italiana; il colpo di stato del 1969 e l’inizio del regime di Siad Barre, che nazionalizzò tutte le opere delle missioni cristiane; le guerre con l’Etiopia, la guerra civile, la crisi e la fine violenta della dittatura, la dissoluzione dello Stato, le carestie, la povertà... Padre Turati condivise fino in fondo le prove del popolo somalo: come il vescovo di Mogadiscio Salvatore Colombo, suo confratello e compagno di studi, assassinato il 9 luglio 1989. La sua ora verrà l’8 febbraio 1991: ucciso davanti alla chiesetta dell’ex missione di Gelib. In quei giorni, nella zona, erano in corso violenti sconti fra soldati governativi e ribelli.
Poche settimane prima padre Turati aveva compiuto un’ultima opera di misericordia: aveva usato la bara, che il missionario porta con sé e tiene in serbo per il proprio funerale, per un italiano morto alla fine di dicembre del 1990 che non aveva più nessuno a prendersi cura di lui. A curarsi della se­poltura del francescano, rimasto solo in quel caos di violenza, fu il capo villaggio musulmano; frate Pietro venne sepolto nell’abito da lavoro macchiato di sangue. A dargli l’ultimo saluto, il canto della pietà islamica.

(DI LORENZO ROSOLI su Avvenire del 04 Febbraio 2011)