STORIE DI VITA - Mondo Voc maggio 2012                                                       Torna al sommario

 

 

 

RITA GIARETTA


La suora che sfida il racket

 

Stava per sposarsi, ma sentiva che le mancava qualcosa. Era una giovane infermiera di Vicenza, attiva sindacalista della Cisl, sempre pronta a scendere in strada per difendere la condizione della donna e di chi lavora. Finì quasi per sfida in un corso di esercizi spirituali delle Orsoline del Sacro Cuore di Maria. Provò un senso di pienezza e di libertà fino allora sconosciuto ed entrò nella congregazione. Chiese con alcune consorelle di impegnarsi in un territorio attraversato da un grave degrado ambientale, sociale e culturale, quale quello casertano, dove fondò “Casa Rut”, una struttura di accoglienza per donne vittime della prostituzione gestita da mafie nigeriane alleate con la camorra. E così da 17 anni la sua storia si è fusa con quella delle ragazze moldave, ucraine, russe, polacche, albanesi, nigeriane che ha aiutato a diventare libere, come racconta lei stessa nel libro “Non più schiave”(Edizione Marlin).


di Vito Magno


RITA_GIARETTASuor Rita, quando e perché è nata Casa Rut per iniziativa delle Suore Orsoline?

È nata nel 1995 per dare risposta ad un’emergenza che stava nascendo: la tratta degli esseri umani, il traffico di donne migranti a scopo di sfruttamento sessuale.

 

Quante ne avete liberate?

Credo che ormai siamo arrivate a più di 340 donne.

 

Un miracolo, se si pensa che le loro gravidanze sono provocate dai racket.

Sì, spesso i loro figli sono il frutto di un atto di violenza; la grandezza di queste donne sta proprio nel fatto che riescono a trasformare quella violenza in un atto d’amore ed accogliere quel figlio come un dono di Dio, forse proprio perché da noi trovano una casa, un calore umano, un sostegno. Io credo che, oggi, questi siano i veri miracoli.

 

Da quali zone provengono?

Dall’est, dall’Africa nera, in particolare dalla Nigeria; vengono portate nel casertano e nel litorale vicino Napoli.

 

Quante se ne trovano attualmente ospitate a Casa Rut?

Abbiamo una diecina di ragazze e undici bambini.

 

Può raccontare una storia che più l’ha colpita?

Credo che ogni storia colpisca perché ci sono dei drammi terribili dietro, delle incredibili violenze. Ad esempio, ricordo una ragazza albanese di 16 anni che ci fu portata dai carabinieri; non aveva detto nella denuncia che aveva partorito anche un figlio, l’ho scoperto qui perché ho notato come dormiva accanto a una bambola di peluche, vedevo come la cullava, e glielo chiesi direttamente: “Ma tu hai avuto un figlio?”. Mi guardò e con le lacrime agli occhi mi disse di sì. Praticamente questo figlio era già stato inserito in una tratta; per fortuna siamo riusciti a rintracciarlo, e non le dico la grande commozione nel vedere il ricongiungimento con la madre. Oggi, questa ragazza ha 24 anni, il bambino ne ha 8 e va a scuola, lei si è sposata con un bravissimo giovane italiano e hanno anche un altro figlio. Ecco, questi sono i percorsi difficili, ma anche pieni di stupore e di meraviglia.

 

Casa_RutCi vuole coraggio per fare questo lavoro in un ambiente degradato e assediato dalla Camorra com’è il casertano; mi meraviglia che criminali e sfruttatori lascino il campo libero a voi suore.

Ci lasciano fare… ma non ci lascerebbero fare! E’ la forza, è la determinazione, è questa passione che abbiamo dentro che ci fa sfidare qualsiasi cosa. C’è stata di grande aiuto una donna, un magistrato, che all’inizio ci ha detto: “Fatevi conoscere, create una rete perché non dovete essere isolate, sennò questa terra vi annulla”. E tutto questo non tanto per noi suore, quanto per dare forza e fiducia a queste ragazze: sono loro a rischiare, perché il loro coraggio di uscire, di lasciare quel posto è una perdita immensa di denaro per gli sfruttatori. Quando non eravamo ben conosciute tre ragazze erano state riprese dalla criminalità e hanno subito delle violenze inaudite, ma a distanza di tempo, tutte e tre hanno avuto la forza e il coraggio di ritornare, e anche loro oggi sono felici e si sono create una famiglia.

 

Una bella vittoria!

Sì, non c’è gioia più grande di vedere il sorriso riaffacciarsi sul volto di queste ragazze.

 

Cos’altro è nato attorno a Casa Rut?

È nata una cooperativa sociale e la grande sfida è anche questa: in questi territori, dove c’è disoccupazione, lavoro nero, dove non c’è prospettiva lavorativa, aver dato vita a una cooperativa sociale di tipo B, quindi per l’inserimento lavorativo, è un grande segno; le ragazze che sono in accoglienza possono fare formazione e hanno anche un gettone di presenza, quindi iniziano a guadagnare dei soldi puliti e onesti. Inoltre le ragazze hanno un contratto regolare e pensiamo di arrivare a assumerne cinque. Con che passione, poi, lavorano! Lavorano stoffe africane, creano degli stupendi manufatti e delle bomboniere che si possono anche vedere perché la cooperativa ha un suo sito. Ma la bellezza è proprio questa: attraverso questo segno vogliamo raggiungere le realtà parrocchiali, il territorio, in modo che anche la città partecipi e senta il valore di questo segno. Credo che sia una grande sfida per la vita religiosa: esserci, stare dentro la storia, abitarla e trasformarla con la forza del Vangelo, perché il Vangelo è sempre Vita.


Casa_Rut_2Suor Rita, cosa faceva prima di entrare nella congregazione delle Orsoline?

La mia vocazione è arrivata in età un po’ avanzata; avevo 29 anni e lavoravo come infermiera, inoltre ero impegnata nel sindacato per la difesa dei diritti dei lavoratori: ho sempre sentito l’esigenza di essere dentro, di lottare. Ho lasciato tutto perché ho capito che il Signore mi chiamava, mi affidava quest’altro campo così vasto, così importante, e oggi, a distanza di anni, sono felice e sento una gioia che ogni giorno affiora dentro di me: la gioia di camminare dietro a Cristo mio Sposo, mio Fratello, il mio Amato, e di sentire che insieme, e insieme a tanti altri, continuiamo a creare vita nuova e speranza in quest’umanità e in tanti fratelli e sorelle del bisogno.

 

Prima era fidanzata?

Sì, ho vissuto anche quella esperienza, e la ricordo con molta serenità e anche con gioia, perché fa parte della vita. Uno si lancia nella vita, fa esperienza, prova, vede, poi, però, ci sono quelle voci interiori che sono anche così difficili da comunicare agli altri che ti indicano una strada, che ti dicono “no, non sarà questa la tua strada, sei chiamata per altro”, e quindi senti che a un certo punto la tua vita deve obbedire a queste voci, anche se si rivelano faticose perché hai sempre dei ritorni, dei ripensamenti, però c’è una Luce davanti, percorrerla diventa affascinante e diventa una vita che si liberà sempre di più in umanità.

 

Suor_RitaCosa le disse il suo ragazzo nel lasciarvi?

Mi ha guardata. Io ho ancora presente quello sguardo; mi ha guardata negli occhi e mi ha detto: “sentivo che tu eri chiamata per altro”. Lui probabilmente aveva intuito qualcosa, perché nei nostri discorsi emergeva sempre questa passione di donarmi agli altri. Il mio sogno, e ne parlavo anche con lui, era di formare una famiglia aperta, di accogliere insieme dei disabili, delle persone che avevano bisogno, e lui faceva fatica a starmi a fianco in questo, pur volendomi bene ed essendo anche innamorato; anch’io gli volevo bene, ma sentivo che c’era altro. E poi, quando gli ho detto che non me la sentivo di continuare, che quella non era la mia strada, lui mi ha guardato e mi ha detto che aveva capito che ero destinata ad altro.

 

E i suoi genitori, come si comportarono?

È stato faticoso. Non hanno compreso, non capivano questo desiderio, forse pensavano che fosse una fuga e poi avevano un’idea di vita religiosa molto ristretta; non valeva la pena di dare tante spiegazioni: ho seguito il cuore e sono quasi scappata: mi sono allontanata al mattino presto senza dire niente, altrimenti mia mamma non mia avrebbe lasciato partire. Ci sono voluti anni per rimediare, per recuperare, alla fine però, nel cammino ci siamo ritrovati e credo che abbiano capito che non avevano perso una figlia, ma che questa figlia era cresciuta in umanità, gioia e serenità,e credo che siano stati felici per questo, ma che forse non abbiano avuto il coraggio di dirlo esplicitamente; erano di quei tipi forti, dalla cultura contadina, però il cuore c’era, sentivo che c’era questo battito d’amore e che erano anche orgogliosi di avere questa figlia suora. Alla fine ho avuto anche la possibilità di assisterli, purtroppo si sono ammalati di una malattia di grande sofferenza che li ha proprio distrutti nel fisico, e io sono rimasta sempre accanto a loro e anche la mia comunità religiosa, perciò credo che si siano sentiti accompagnati e custoditi nell’amore.

 

 

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