padre_bossi02g23 settembre 2012

Morto padre Bossi. Il missionario si è spento a Rozzano dopo una lunga malattia. Non si era più completamente ripreso dal sequestro avvenuto cinque anni fa nelle Filippine

Una vita per la missione

Padre Giancarlo Bossi, il missionario del Pime (Pontificio Istituto Missioni Estere) che nel 2007 era stato rapito a Mindanao, nelle Filippine, è morto nella clinica Humanitas di Rozzano sul Naviglio (Milano).
Aveva 62 anni. Da oltre un anno  aveva sviluppato un tumore ai polmoni e la sua salute si era debilitata sempre più."Ciascuno di noi ha un sogno da realizzare. Ciascuno di noi ha qualcosa da dire. Ragazzi, fatevi rapire dai vostri ideali". Giocò  proprio con quella parola - rapito - che aveva fatto conoscere al mondo un missionario come lui, così allergico ai riflettori.Parlò così a 400 mila giovani italiani riuniti a Loreto insieme a Benedetto XVI il 1 settembre 2007. Ed è  probabilmente questo il ricordo più bello che rimane nel cuore di tutti di padre Giancarlo Bossi, il missionario del Pime vittima cinque anni fa di un rapimento nelle Filippine, scomparso questa notte alla clinica Humanitas di Rozzano (Milano) a causa di un tumore al polmone che ha portato via a soli 62 anni questo "gigante buono" della missione.Era il 10 giugno 2007, festa del Corpus Domini, quando iniziò la sua odissea: mentre in moto dalla sua parrocchia di Payao era in viaggio per raggiungere un villaggio per celebrare la Messa venne rapito da un commando del Milf, i guerriglieri musulmani indipendentisti sull'isola di Mindanao. Come gia' accaduto ad altri missionari, padre Bossi doveva servire loro per intascare un riscatto utile per finanziare il jihad, la guerra santa. Ma alla fine - grazie alla mobilitazione internazionale - dopo quaranta giorni durissimi nella foresta, venne rilasciato senza il pagamento di nessun riscatto.Fu proprio lui - pochi giorni dopo, per una volta in un clergyman impeccabile davanti al Papa e ai giovani - a riassumere il senso di quella vicenda. "Sono un missionario, uno delle migliaia di preti impegnati in tutti i Paesi poveri del mondo. Vivo nelle Filippine da 27 anni. Continuerò a farlo. Spero. Questa storia non mi cambierà. Anzi no, qualcosa di diverso c'è: non fumo dal 27 giugno. Spero di non riprendere".Del rapimento raccontò di aver chiesto ai sequestratori: "Voi pregate  come me il Dio della pace. Com'è che lo fate con il mitra alla sinistra e un sequestrato alla destra?". Ricordò anche la loro risposta: "Allah è nel cuore, il rapimento è lavoro".Ma ai giovani parlò soprattutto di che cosa era stato per lui quel rapimento: "Durante i 40 giorni nella foresta mi sono sentito rinnovare. La mia preghiera èdiventata più essenziale e più forte. La mia disponibilità a Dio più incisiva". E soprattutto parlò della gente di Mindanao che lui tanto amava: "I poveri hanno bisogno di persone capaci di amare senza limiti e condizioni. Io sono stato sequestrato fisicamente, ma sono troppi coloro che sono sotto sequestro della povertà".Voleva assolutamente tornare da loro nelle Filippine. E in questi anni lo ha fatto, pur in un'altra zona rispetto a quella in cui era stato rapito, per ovvie ragioni di prudenza. Ma i 40 giorni nella foresta avevano minato ormai il fisico di quest 'uomo da un metro e novanta, già giocatore di basket nella sua Abbiategrasso (e tifosissimo del Milan), contadino figlio di contadini. Uomo di poche parole, chiudeva spesso le sue frasi con un "punto e basta". A parlare restava la sua vita donata senza riserve, che la gente di Payao di certo non dimenticherà.

(www.vaticaninsider.it)