SINODO DEI VESCOVI
XIII ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA

LA NUOVA EVANGELIZZAZIONE
PER LA TRASMISSIONE DELLA FEDE CRISTIANA

LINEAMENTA


Indice


Prefazione

Introduzione

1. L’urgenza di una nuova evangelizzazione
2. Il dovere di evangelizzare
3. Evangelizzazione e discernimento
4. Evangelizzare dentro il mondo di oggi, a partire dalle sue sfide
Domande

Primo capitolo
Tempo di “nuova evangelizzazione”

5. “Nuova evangelizzazione”. Il significato di una definizione
6. Gli scenari della nuova evangelizzazione
7. Da cristiani di fronte a questi nuovi scenari
8. “Nuova evangelizzazione” e domanda di spiritualità
9. Nuovi modi di essere Chiesa
10. Prima evangelizzazione, cura pastorale, nuova evangelizzazione
Domande

Secondo capitolo
Proclamare il Vangelo di Gesù Cristo

11. L’incontro e la comunione con Cristo, fine della trasmissione della fede
12. La Chiesa trasmette la fede che essa stessa vive
13. Parola di Dio e trasmissione della fede
14. La pedagogia della fede
15. Le Chiese locali soggetti della trasmissione
16. Rendere ragione: lo stile della proclamazione
17. I frutti della trasmissione della fede
Domande

Terzo capitolo
Iniziare all’esperienza cristiana

18. L’iniziazione cristiana, processo evangelizzatore
19. Primo annuncio come esigenza di forme nuove del discorso su Dio
20. Iniziare alla fede, educare alla verità
21. L’obiettivo di una “ecologia della persona umana”
22. Evangelizzatori ed educatori perché testimoni
Domande

Conclusione

23. Il fondamento della “nuova evangelizzazione” nella Pentecoste
24. La “nuova evangelizzazione”, visione per la Chiesa di oggi e di domani
25. La gioia di evangelizzare


Prefazione

«Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28, 19-20). Con queste parole, Gesù Cristo, prima di salire al cielo e sedersi alla destra di Dio Padre (cf. Ef 1, 20), ha inviato i suoi discepoli a proclamare la Buona Notizia al mondo intero. Essi rappresentavano un piccolo gruppo di testimoni di Gesù di Nazaret, della sua vita terrena, del suo insegnamento, della sua morte e soprattutto della sua resurrezione (cf. At 1, 22). Il compito era immane, al di sopra delle loro possibilità. Per incoraggiarli il Signore Gesù promette la venuta del Paraclito, che il Padre invierà nel suo nome (cf. Gv 14, 26) e che li «guiderà a tutta la verità» (Gv 16, 13). Inoltre assicura la sua presenza costante: «ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28, 20).

Dopo l’evento di Pentecoste, quando il fuoco dell’amore di Dio si è posato sugli apostoli (cf. At 2, 3) uniti nella preghiera «insieme ad alcune donne e a Maria, la madre di Gesù» (At 1, 14), il mandato del Signore Gesù ha cominciato a realizzarsi. Lo Spirito Santo che Gesù Cristo dona in abbondanza (cf. Gv 3, 34) è all’origine della Chiesa, che è per sua natura missionaria. Infatti, appena ricevuta l’unzione dello Spirito, san Pietro Apostolo «si alzò in piedi e a voce alta parlò» (At 2, 14) proclamando la salvezza nel nome di Gesù, «che Dio ha costituito Signore e Cristo» (At 2, 36). Trasformati dal dono dello Spirito, i discepoli si sono sparsi per il mondo allora conosciuto ed hanno diffuso il «vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio» (Mc 1, 1). Il loro annuncio ha raggiunto le regioni del bacino Mediterraneo, dell’Europa, dell’Africa e dell’Asia. Guidati dallo Spirito, dono del Padre e del Figlio, i loro successori hanno continuato tale missione che rimane attuale fino alla fine dei secoli. Finché esiste, la Chiesa deve annunciare il Vangelo della venuta del Regno di Dio, l’insegnamento del suo Maestro e Signore e, soprattutto, la persona di Gesù Cristo.

La parola “il Vangelo”, τò εύ αγγέλιον, è adoperata già dai tempi della Chiesa nascente. Essa è spesso usata da san Paolo per indicare la predicazione del Vangelo, che Dio gli ha affidato (cf. 1 Tes 2, 4) «in mezzo a molte lotte» (1 Tes 2, 2), e tutta la nuova economia della salvezza (cf. 1 Tess 1, 5ss; Gal 1, 6-9ss). Oltre a Marco (cf. Mc 1, 14. 15; 8, 35; 10, 29; 13, 10; 14, 9; 16, 15), il termine Vangelo è adoperato anche dall’evangelista Matteo, spesso nella combinazione specifica «il Vangelo del Regno» (Mt 9, 35; 24, 14; cf. 26, 13). San Paolo adopera anche il termine evangelizzare (εύ αγγελίσασθαι, cf. 2 Cor 10, 16), che si trova pure negli Atti degli Apostoli (cf. in particolare At 8, 4. 12. 25. 35. 40), e il cui uso ha avuto un notevole sviluppo nella storia della Chiesa.

In tempi recenti con il termine evangelizzazione ci si riferisce all’attività ecclesiale nel suo complesso. L’Esortazione Apostolica Evangelii nuntiandi, pubblicata l’8 dicembre 1975, entro tale categoria comprende la predicazione, la catechesi, la liturgia, la vita sacramentale, la pietà popolare, la testimonianza della vita dei cristiani (cf. EN 17, 21, 48ss). In tale Esortazione il Servo di Dio Papa Paolo VI ha raccolto i risultati della Terza Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, tenutasi dal 27 settembre al 26 ottobre 1974 sul tema L’evangelizzazione nel mondo moderno. Il Documento ha dato notevole dinamismo all’azione evangelizzatrice della Chiesa nei decenni successivi, che è stata accompagnata da un’autentica promozione umana (cf. EN 29, 38, 70).

Nell’ampio contesto dell’evangelizzazione, un’attenzione particolare è riservata all’annuncio della Buona Notizia alle persone e ai popoli che tuttora non conoscono il Vangelo di Gesù Cristo. Ad essi è rivolta la missio ad gentes. Essa ha caratterizzato l’attività costante della Chiesa, anche se ha avuto momenti privilegiati in alcuni periodi storici. Basti pensare all’epopea missionaria nel continente americano, o, in seguito, alle missioni in Africa, Asia e Oceania. Con il Decreto Ad gentes, il Concilio Vaticano II ha sottolineato la natura missionaria di tutta la Chiesa. Secondo il mandato del suo fondatore Gesù Cristo, i cristiani non solamente devono sostenere, con la preghiera e il supporto materiale, i missionari, ossia le persone dedicate all’annuncio ai non cristiani, bensì sono chiamati essi stessi a contribuire alla diffusione del Regno di Dio nel mondo, secondo i modi e la vocazione propri. Tale incarico diventa particolarmente urgente nell’attuale fase di globalizzazione nella quale, per varie ragioni, non poche persone che non conoscono Gesù Cristo immigrano nei Paesi di antica tradizione cristiana e, dunque, vengono in contatto con i cristiani, testimoni del Signore risorto, presente nella sua Chiesa, in modo speciale nella sua Parola e nei sacramenti.

Nel corso dei suoi 45 anni, il Sinodo dei Vescovi ha trattato il tema della missio ad gentes in varie Assemblee. Da una parte ha tenuto presente la natura missionaria di tutta la Chiesa e, dall’altra, le indicazioni del Concilio Ecumenico Vaticano II che nel Decreto conciliare Ad gentes ha ribadito la sollecitudine missionaria quale importante scopo alla stessa attività del Sinodo dei Vescovi: «Poiché il compito di annunciare dappertutto nel mondo il Vangelo riguarda primariamente il collegio episcopale il Sinodo dei Vescovi, cioè “la commissione permanente dei vescovi per la Chiesa universale”, tra gli affari di importanza generale deve seguire con particolare sollecitudine l’attività missionaria, che è il dovere più alto e più sacro della Chiesa» (AG 29).

Negli ultimi decenni si è parlato anche dell’urgenza della nuova evangelizzazione. Tenendo conto dell’evangelizzazione come orizzonte ordinario dell’attività della Chiesa, come pure dell’azione di annuncio del Vangelo ad gentes, che richiede la formazione di comunità locali, le Chiese particolari, nei Paesi missionari di prima evangelizzazione, la nuova evangelizzazione è piuttosto indirizzata a quanti si sono allontanati dalla Chiesa nei Paesi di antica cristianità. Tale fenomeno, purtroppo, esiste in varia misura, anche nei Paesi ove la Buona Notizia è stata annunciata nei secoli recenti, ma tuttora non è stata sufficientemente accolta fino a trasformare la vita personale, familiare e sociale dei cristiani. Lo hanno messo in risalto pure le Assemblee Speciali del Sinodo dei Vescovi, a carattere continentale, celebrate in preparazione dell’Anno Giubilare del 2000. Si tratta di una grande sfida per la Chiesa universale. Per tale ragione Sua Santità Benedetto XVI, dopo aver sentito il parere dei confratelli nell’episcopato, ha deciso di convocare la XIII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi sul tema La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana, che avrà luogo dal 7 al 28 ottobre 2012. Riprendendo la riflessione finora svolta sull’argomento, l’Assise sinodale avrà per finalità di esaminare la situazione attuale nelle Chiese particolari, per tracciare, in comunione con il Santo Padre Benedetto XVI, Vescovo di Roma e Pastore universale della Chiesa, nuovi modi ed espressioni della Buona Notizia da trasmettere all’uomo contemporaneo con rinnovato entusiasmo, proprio dei santi, testimoni gioiosi del Signore Gesù Cristo «Colui che era, che è e che viene!» (Ap 4, 8). Si tratta di una sfida a trarre, come lo scriba diventato discepolo del Regno dei cieli, cose nuove e cose antiche dal prezioso tesoro della Tradizione (cf. Mt 13, 52).

I Lineamenta che ora presentiamo, redatti con l’aiuto del Consiglio Ordinario della Segreteria Generale del Sinodo dei Vescovi, rappresentano un’importante tappa della preparazione dell’Assise sinodale. Al termine di ogni capitolo si trovano alcune domande che hanno lo scopo di facilitare la discussione a livello della Chiesa universale. Infatti, i Lineamenta sono inviati ai Sinodi dei Vescovi delle Chiese Orientali Cattoliche sui iuris, alle Conferenze Episcopali, ai Dicasteri della Curia Romana e all’Unione dei Superiori Generali, organismi con i quali la Segreteria Generale del Sinodo dei Vescovi mantiene rapporti ufficiali. Essi intendono favorire la riflessione su tale documento nelle rispettive strutture: diocesi, zone pastorali, parrocchie, congregazioni, associazioni, movimenti ecc. Le risposte di tali organismi dovrebbero essere riassunte dai responsabili delle Conferenze Episcopali, dei Sinodi dei Vescovi, come pure degli altri organismi menzionati, e inviate alla Segreteria Generale del Sinodo dei Vescovi entro il 1° novembre 2011, solennità di Tutti i Santi. Con il concorso del Consiglio Ordinario, tali risposte saranno attentamente analizzate e integrate nell’Instrumentum laboris, documento di lavoro della prossima Assise sinodale.

Ringraziando in anticipo per la premurosa collaborazione, che rappresenta un prezioso scambio di doni, di preoccupazioni e di sollecitudini pastorali, affidiamo l’iter della XIII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi alla materna protezione della Beata Vergine Maria, Stella della Nuova Evangelizzazione. La sua intercessione ottenga alla Chiesa la grazia di rinnovarsi nello Spirito Santo affinché nel nostro tempo possa mettere in pratica, con rinnovato slancio, il comandamento del Signore risorto: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura» (Mc 16, 15).


Città del Vaticano, 2 febbraio 2011
Festa della Presentazione del Signore

Mons. Nikola Eterović
Arcivescovo titolare di Cibale
Segretario Generale


Introduzione
«Sono stato trovato da quelli che non mi cercavano, mi sono manifestato a quelli che non chiedevano di me» (Rm 10, 20)

1. L’urgenza di una nuova evangelizzazione

Chiudendo i lavori dell’Assemblea Speciale del Sinodo dei Vescovi per il Medio Oriente, Papa Benedetto XVI ha messo in modo chiaro il tema della nuova evangelizzazione al primo posto nell’agenda della nostra Chiesa. «Spesso è stato evocato l’urgente bisogno di una nuova evangelizzazione anche per il Medio Oriente. Si tratta di un tema assai diffuso, soprattutto nei Paesi di antica cristianizzazione. Anche la recente creazione del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione risponde a questa profonda esigenza. Per questo, dopo aver consultato l’episcopato del mondo e dopo aver sentito il Consiglio Ordinario della Segreteria Generale del Sinodo dei Vescovi, ho deciso di dedicare la prossima Assemblea Generale Ordinaria, nel 2012, al seguente tema: Nova evangelizatio ad christianam fidem tradendam – La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana» [1].

Come egli stesso ricorda, la decisione di dedicare questa Assemblea al tema della nuova evangelizzazione va letta all’interno di un disegno unitario, che ha come sue tappe recenti la creazione di un dicastero ad hoc [2] e la pubblicazione dell’esortazione apostolica postsinodale Verbum Domini [3]; un disegno che fonda le sue radici nell’impegno di rinnovata azione evangelizzatrice che ha animato il magistero e il ministero apostolico di Papa Paolo VI e di Papa Giovanni Paolo II. Dal Concilio Vaticano II in qua, la nuova evangelizzazione si è proposta con sempre maggiore lucidità come lo strumento grazie al quale misurarsi con le sfide di un mondo in accelerata trasformazione, e come la via per vivere oggi il dono dell’essere radunati dallo Spirito Santo a fare esperienza del Dio che ci è Padre, testimoniando e proclamando a tutti la Buona Notizia – il Vangelo – di Gesù Cristo.

2. Il dovere di evangelizzare

La Chiesa che annuncia e trasmette la fede imita l’agire di Dio stesso che si comunica all’umanità donando il Figlio, vive nella comunione trinitaria, effonde lo Spirito Santo per comunicare con l’umanità. Affinché l’evangelizzazione sia eco di questa comunicazione divina, la Chiesa deve lasciarsi plasmare dall’azione dello Spirito e farsi conforme a Cristo crocifisso, il quale rivela al mondo il volto dell’amore e della comunione di Dio. In questo modo riscopre la sua vocazione di Ecclesia mater che genera figli al Signore, trasmettendo la fede, insegnando l’amore che genera e nutre i figli.

Al cuore dell’annuncio vi è Gesù Cristo creduto e testimoniato. Trasmettere la fede significa essenzialmente trasmettere le Scritture, e massimamente il Vangelo, che permettono di conoscere Gesù, il Signore.

Proprio Papa Paolo VI, rilanciando la priorità della evangelizzazione, ricordava a tutti i fedeli: «Non sarà inutile che ciascun cristiano e ciascun evangelizzatore approfondisca nella preghiera questo pensiero: gli uomini potranno salvarsi anche per altri sentieri, grazie alla misericordia di Dio, benché noi non annunziamo loro il Vangelo; ma potremo noi salvarci se, per negligenza, per paura, per vergogna – ciò che s. Paolo chiamava “arrossire del Vangelo” – o in conseguenza di idee false, trascuriamo di annunziarlo?» [4]. La domanda, con cui si chiude l’Evangelii nuntiandi, suona alle nostre orecchie come una originale esegesi del testo di s. Paolo da cui siamo partiti e ci aiuta a collocarci immediatamente al cuore del tema che in questo testo vogliamo affrontare: l’assoluta centralità del compito dell’evangelizzazione per la Chiesa di oggi. Verificare il nostro vissuto, la nostra attitudine alla evangelizzazione, è utile ad un livello funzionale, per migliorare le nostre pratiche e le nostre strategie di annuncio. Essa, più profondamente, è la via per interrogarci oggi sulla qualità della nostra fede, sul nostro modo di sentirci e di essere cristiani, discepoli di Gesù Cristo inviati ad annunciarlo al mondo, ad essere testimoni pieni di Spirito Santo (cf. Lc 24, 48s; At 1,8) chiamati a fare discepoli gli uomini di tutte le nazioni (cf. Mt 28, 19s).

La parola dei discepoli di Emmaus (cf. Lc 24, 13-35) è emblematica della possibilità di un annuncio fallimentare di Cristo, perché incapace di trasmettere vita. I due di Emmaus annunciano un morto (cf. Lc 24, 21-24), narrano la loro frustrazione e la loro perdita di speranza. Essi dicono la possibilità, per la Chiesa di sempre, di un annuncio che non dà vita, ma tiene chiusi nella morte il Cristo annunciato, gli annunciatori e i destinatari dell’annuncio. La domanda circa il trasmettere la fede, che non è impresa individualistica e solitaria, ma evento comunitario, ecclesiale, non deve indirizzare le risposte nel senso della ricerca di strategie comunicative efficaci e neppure incentrarsi analiticamente sui destinatari, per esempio i giovani, ma deve essere declinata come domanda che riguarda il soggetto incaricato di questa operazione spirituale. Deve divenire una domanda della Chiesa su di sé. Questo consente di impostare il problema in maniera non estrinseca, ma corretta, poiché pone in causa la Chiesa tutta nel suo essere e nel suo vivere. E forse così si può anche cogliere il fatto che il problema dell’infecondità dell’evangelizzazione oggi, della catechesi nei tempi moderni, è un problema ecclesiologico, che riguarda la capacità o meno della Chiesa di configurarsi come reale comunità, come vera fraternità, come corpo e non come macchina o azienda.

«La Chiesa peregrinante è per sua natura missionaria» [5]. Questa affermazione del Concilio Vaticano II riassume in modo semplice e completo la Tradizione ecclesiale: la Chiesa è missionaria perché trae origine dalla missione di Gesù Cristo e dalla missione dello Spirito Santo, secondo il disegno di Dio Padre [6]. Inoltre Chiesa è missionaria perché assume da protagonista questa origine, facendosi annunciatrice e testimone di questa Rivelazione di Dio e raccogliendo il popolo di Dio dalla dispersione, così che si possa adempiere quella profezia del profeta Isaia che i Padri della Chiesa hanno letto come indirizzata ad essa: «Allarga lo spazio della tua tenda, stendi i teli della tua dimora senza risparmio, allunga le cordicelle, rinforza i tuoi paletti, poiché ti allargherai a destra e a sinistra e la tua discendenza possederà le nazioni, popolerà le città un tempo deserte» (Is 54, 2-3) [7].

Le affermazioni dell’apostolo Paolo «annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo!» (1 Cor 9, 16) si possono così applicare e declinare per la Chiesa nel suo insieme. Come ci ricorda Papa Paolo VI: «Evangelizzare tutti gli uomini costituisce la missione essenziale della Chiesa. Evangelizzare è la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda. Essa esiste per evangelizzare» [8].

In questa duplice dinamica missionaria ed evangelizzatrice la Chiesa non riveste dunque soltanto il ruolo di attore, di soggetto della proclamazione, ma anche quello riflessivo dell’ascolto e del discepolato. Evangelizzatrice, la Chiesa comincia con l’evangelizzare se stessa [9]. La Chiesa sa di essere il frutto visibile di questa ininterrotta opera di evangelizzazione che lo Spirito guida attraverso la storia, perché il popolo dei salvati testimoni la memoria vivente del Dio di Gesù Cristo. E oggi possiamo sostenere con ancora maggiore convinzione questa nostra certezza, perché veniamo da una storia che ci consegna pagine straordinarie per coraggio, dedizione, audacia, intuizione e ragione; pagine che ci hanno lasciato molti echi e tracce in testi, preghiere, modelli e metodi pedagogici, itinerari spirituali, cammini di iniziazione alla fede, opere ed istituzioni educative.

3. Evangelizzazione e discernimento

Riconoscere questa dimensione di ascolto e di discepolato iscritta nell’opera di evangelizzazione è importante per la Chiesa per un secondo motivo, oltre a quello appena indicato di ringraziamento e di contemplazione dei mirabilia Dei. La Chiesa si riconosce frutto di questa evangelizzazione, oltre che agente, perché è convinta che la regia di tutto questo processo non è nelle sue mani, ma in quelle di Dio che la guida nella storia tramite il suo Spirito. Come lo lascia intuire bene s. Paolo nel testo che fa da porta di ingresso a questa introduzione, la Chiesa sa che la regia dell’azione di evangelizzazione è dello Spirito Santo: a Lui si affida per riconoscere gli strumenti, i tempi e gli spazi di quell’annuncio che è chiamata a vivere. Lo sapeva bene s. Paolo, che in un momento di forte mutamento come quello delle origini della Chiesa, riconosce non solo “teoricamente” ma “praticamente” questo primato nell’organizzazione e nello svolgimento della evangelizzazione a Dio; e riesce a documentare le ragioni di questo primato rifacendosi alle Scritture, più precisamente ai Profeti.

L’apostolo Paolo riconosce questo primato all’azione dello Spirito all’interno di un momento molto intenso e significativo per la Chiesa che nasce: ai credenti sembra infatti che le strade da intraprendere siano altre; i primi cristiani si mostrano incerti di fronte ad alcune scelte di fondo da assumere. Il processo di evangelizzazione si trasforma in un processo di discernimento; l’annuncio richiede che prima ci sia un momento di ascolto, comprensione, interpretazione.

I nostri tempi si mostrano in questo molto simili alla situazione vissuta da s. Paolo: anche noi ci troviamo come cristiani immersi in un periodo di forti cambiamenti storici e culturali, come avremo modo di vedere meglio più avanti. Anche per noi l’azione di evangelizzazione esige un’analoga, simmetrica e contemporanea azione di discernimento. Già più di quarant’anni fa il Concilio Vaticano II affermava: «L’umanità vive un periodo nuovo della sua storia, caratterizzato da profondi e rapidi mutamenti che progressivamente si estendono all’intero universo» [10]. Questi cambiamenti di cui il Concilio ci parla si sono moltiplicati nel periodo successivo alla sua celebrazione e, a differenza di quegli anni, inducono non solo alla speranza, non suscitano solo attese utopiche, ma generano anche paura e seminano scetticismo. Anche il primo decennio di questo nuovo secolo/millennio è stato teatro di trasformazioni che hanno segnato in modo indelebile e in più di un caso in un modo drammatico la storia degli uomini.

Ci troviamo a vivere un momento storico ricco di cambiamenti e di tensioni, di perdita di equilibri e di punti di riferimento. Questa epoca ci spinge a vivere sempre più schiacciati sul presente e nella provvisorietà, rendendo sempre più difficile l’ascolto e la trasmissione della memoria umana, e la condivisione di valori sui quali costruire il futuro delle nuove generazioni. In questo quadro la presenza dei cristiani, l’operare delle loro istituzioni, viene percepito in modo meno naturale e con maggiore sospetto; negli ultimi decenni si sono moltiplicati gli interrogativi critici rivolti alla Chiesa e ai cristiani, al volto di Dio che annunciamo. Il compito di evangelizzazione si trova così di fronte a nuove sfide, che mettono in discussione pratiche consolidate, indeboliscono percorsi abituali e ormai standardizzati; in una parola obbligano la Chiesa ad interrogarsi in modo nuovo sul senso delle sue azioni di annuncio e di trasmissione della fede. La Chiesa non arriva tuttavia impreparata di fronte a questa sfida: con essa si è già misurata nelle Assemblee che il Sinodo dei Vescovi ha dedicato in modo specifico al tema dell’annuncio e della trasmissione della fede, come le esortazioni apostoliche che le chiudono – Evangelii nuntiandi e Catechesi tradendae – testimoniano. La Chiesa ha vissuto in questi due eventi un momento significativo di revisione e di rivitalizzazione del proprio mandato evangelizzatore.

4. Evangelizzare dentro il mondo di oggi, a partire dalle sue sfide

Il testo di s. Paolo che ci fa da guida in questa introduzione ci aiuta così a comprendere il senso e le ragioni della prossima Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, alla quale ci stiamo preparando. In un tempo così prolungato e anche così differenziato di cambiamenti e trasformazioni è utile per la Chiesa istituire spazi e occasioni di ascolto e di confronto reciproco, affinché si mantenga ad un livello alto di qualità l’esercizio di quel discernimento che ci è domandato dall’azione di evangelizzazione che come Chiesa siamo chiamati a vivere. La prossima Assemblea Generale Ordinaria vorrebbe essere un momento privilegiato, una tappa significativa di questo percorso di discernimento. Dalle Assemblee sull’evangelizzazione e sulla catechesi il contesto socio-culturale si è misurato con cambiamenti significativi e anche imprevisti, i cui effetti – come nel caso della crisi economico-finanziaria – sono ancora ben visibili ed attivi nelle nostre rispettive realtà locali. La Chiesa stessa è stata toccata in modo diretto da questi cambiamenti, obbligata a confrontarsi con interrogativi, fenomeni da comprendere, pratiche da correggere, cammini e realtà a cui comunicare in modo nuovo la speranza evangelica. Un simile contesto ci spinge in modo del tutto naturale verso la prossima Assise sinodale. Dall’ascolto e dal confronto reciproco ne usciremo tutti arricchiti e pronti ad individuare quelle strade che Dio attraverso il suo Spirito sta costruendo per manifestarsi e farsi trovare dagli uomini, secondo l’immagine del profeta Isaia (cf. Is 40, 3; 57, 14; 62, 10).

Un discernimento esige di suo l’individuazione di oggetti e di temi sui quali far convergere il nostro sguardo e a partire dai quali accendere l’ascolto e il confronto reciproco. Finalizzato al sostegno dell’azione di evangelizzazione e dei cambiamenti che la stanno interessando, questo nostro esercizio di discernimento è chiamato a mettere al centro del nostro ascolto i capitoli essenziali di questa pratica ecclesiale: la nascita, il diffondersi e il progressivo affermarsi di una “nuova evangelizzazione” dentro le nostre Chiese; le modalità con cui la Chiesa fa suo e vive oggi il compito di trasmettere la fede; il volto e la declinazione concreta che assumono nel nostro presente gli strumenti di cui la Chiesa dispone per generare alla fede (iniziazione cristiana, educazione), e le sfide con cui sono chiamati a misurarsi. Questi capitoli sono la traccia del presente testo. Suo scopo è avviare l’ascolto e il confronto, per allargare i confini di quel discernimento già in atto nella nostra Chiesa, e dargli così una risonanza e un’eco ancora più cattoliche e universali.

Domande

Il discernimento di cui stiamo parlando è per sua natura sempre storico e determinato: parte da un fatto concreto, si struttura come reazione ad un evento determinato. Pur condividendo in modo generale lo stesso spazio culturale, le nostre Chiese locali hanno vissuto in questi decenni tappe ed episodi in questo percorso di discernimento che sono uniche, tipiche del loro contesto e della loro storia.

1. Quali di questi episodi è utile comunicare alle altre Chiese locali?

2. Quali, tra questi esercizi di discernimento storico, sarebbe utile condividere all’interno della cattolicità della Chiesa, perché dal reciproco ascolto di questi avvenimenti la Chiesa universale possa riconoscere le strade che lo Spirito Santo le indica per l’opera di evangelizzazione?

3. Il tema della “nuova evangelizzazione” ha conosciuto ormai una diffusione capillare nelle nostre Chiese locali. Come è stato assunto e declinato? A quali processi interpretativi ha dato origine?

4. Quali azioni pastorali hanno beneficiato in modo particolare dell’assunzione del tema della “nuova evangelizzazione”? Quali hanno conosciuto un cambiamento e un rilancio significativo? Quali invece hanno sviluppato forme di resistenza e prese di distanza da una simile tematica?


Primo capitolo
Tempo di “nuova evangelizzazione”
«Come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? Come ne sentiranno parlare senza qualcuno che lo annunci?» (Rm 10, 14)

5. “Nuova evangelizzazione”. Il significato di una definizione

Pur essendo certamente diffuso e sufficientemente assimilato, “nuova evangelizzazione” rimane un termine apparso di recente nell’universo della riflessione ecclesiale e pastorale, e quindi con un significato non sempre chiaro e fissato. Introdotto da Papa Giovanni Paolo II, inizialmente – senza alcuna enfasi, e quasi non lasciando presagire il ruolo che avrebbe assunto in seguito – durante il suo viaggio apostolico in Polonia [11], il termine “nuova evangelizzazione” è stato da lui ripreso e rilanciato soprattutto nel suo Magistero rivolto alle Chiese dell’America Latina. A questo termine Papa Giovanni Paolo II ricorre per farne uno strumento di slancio; lo introduce come un mezzo di comunicazione di energie in vista di un nuovo fervore missionario ed evangelizzatore. Ai Vescovi dell’America Latina così si rivolge: «La commemorazione del mezzo millennio di evangelizzazione avrà il suo pieno significato se sarà un impegno vostro come Vescovi, assieme al vostro Presbiterio e ai vostri fedeli; impegno non certo di rievangelizzazione, bensì di una nuova evangelizzazione. Nuova nel suo ardore, nei suoi metodi, nelle sue espressioni» [12]. Non si tratta di rifare qualcosa che è stato fatto male o non è funzionato, quasi che la nuova azione fosse un implicito giudizio circa il fallimento della prima. La nuova evangelizzazione non è una reduplicazione della prima, non è una semplice ripetizione, ma è il coraggio di osare sentieri nuovi, di fronte alle mutate condizioni dentro la quali la Chiesa è chiamata a vivere oggi l’annuncio del Vangelo. Il continente latino-americano si trovava chiamato in quel periodo a misurarsi con nuove sfide (il diffondersi dell’ideologia comunista, l’apparizione delle sette); la nuova evangelizzazione è l’azione che segue al processo di discernimento con cui la Chiesa in America Latina è chiamata a leggere e valutare la situazione in cui si trova.

In questa accezione il termine viene ripreso e rilanciato nel Magistero di Papa Giovanni Paolo II rivolto alla Chiesa universale. «Oggi la chiesa deve affrontare altre sfide, proiettandosi verso nuove frontiere sia nella prima missione ad gentes sia nella nuova evangelizzazione di popoli che hanno già ricevuto l’annuncio di Cristo. Oggi a tutti i cristiani, alle chiese particolari e alla chiesa universale sono richiesti lo stesso coraggio che mosse i missionari del passato e la stessa disponibilità ad ascoltare la voce dello Spirito» [13]: la nuova evangelizzazione è un’azione anzitutto spirituale, la capacità di fare nostri nel presente il coraggio e la forza dei primi cristiani, dei primi missionari. È quindi un’azione che chiede anzitutto un processo di discernimento circa lo stato di salute del cristianesimo, la rilevazione dei passi compiuti e delle difficoltà incontrate. Preciserà più avanti lo stesso Papa Giovanni Paolo II: «La Chiesa deve fare oggi un grande passo in avanti nella sua evangelizzazione, deve entrare in una nuova tappa storica del suo dinamismo missionario. In un mondo che con il crollare delle distanze si fa sempre più piccolo, le comunità ecclesiali devono collegarsi tra loro, scambiarsi energie e mezzi, impegnarsi insieme nell’unica e comune missione di annunciare e di vivere il Vangelo. “Le chiese cosiddette più giovani – hanno detto i padri sinodali – abbisognano della forza di quelle antiche, mentre queste hanno bisogno della testimonianza e della spinta delle più giovani, in modo che le singole chiese attingano dalle ricchezze delle altre chiese”» [14].

Siamo ormai in grado di cogliere il funzionamento dinamico affidato al concetto di “nuova evangelizzazione”: ad esso si ricorre per indicare lo sforzo di rinnovamento che la Chiesa è chiamata a fare per essere all’altezza delle sfide che il contesto sociale e culturale odierno pone alla fede cristiana, al suo annuncio e alla sua testimonianza, a seguito dei forti mutamenti in atto. A queste sfide la Chiesa risponde non rassegnandosi, non chiudendosi in se stessa, ma lanciando una operazione di rivitalizzazione del proprio corpo, avendo messo al centro la figura di Gesù Cristo, l’incontro con Lui, che dona lo Spirito Santo e le energie per un annuncio e una proclamazione del Vangelo attraverso vie nuove, capaci di parlare alle culture odierne.

Così configurato, il concetto di “nuova evangelizzazione” viene assunto e rilanciato nelle Assemblee Sinodali Continentali, celebrate in preparazione al Giubileo del 2000, stabilendosi ormai come termine acquisito dentro le riflessioni pastorali ed ecclesiali delle Chiese locali. “Nuova evangelizzazione” è sinonimo di rilancio spirituale della vita di fede delle Chiese locali, avvio di percorsi di discernimento dei mutamenti che stanno interessando la vita cristiana nei vari contesti culturali e sociali, rilettura della memoria di fede, assunzione di nuove responsabilità e di nuove energie in vista di una proclamazione gioiosa e contagiosa del Vangelo di Gesù Cristo [15]. Sufficientemente sintetiche ed esemplari sono le parole di Papa Giovanni Paolo II alla Chiesa in Europa: «è emersa l’urgenza e la necessità della “nuova evangelizzazione”, nella consapevolezza che l’Europa non deve oggi semplicemente fare appello alla sua precedente eredità cristiana: occorre infatti che sia messa in grado di decidere nuovamente del suo futuro nell’incontro con la persona e il messaggio di Gesù Cristo» [16].

Nonostante questa diffusione e notorietà, il termine non riesce comunque a farsi accogliere in modo pieno e totale nel dibattito, sia dentro la Chiesa che dentro la cultura. Nei suoi confronti rimangono alcune riserve come se con questo termine si voglia elaborare un giudizio di sconfessione e una rimozione di alcune pagine del passato recente della vita delle Chiese locali. C’è chi dubita che la “nuova evangelizzazione” copra o nasconda l’intenzione di nuove azioni di proselitismo da parte della Chiesa, soprattutto nei confronti delle altre confessioni cristiane [17]. Si tende a pensare che con questa definizione si operi un mutamento nell’atteggiamento della Chiesa verso coloro che non credono, trasformati in oggetto di persuasione e non più visti come interlocutori all’interno di un dialogo che ci vede accomunati dalla medesima umanità e dalla ricerca della verità del nostro esistere. A quest’ultima preoccupazione ha inteso dare ascolto e anche una risposta Papa Benedetto XVI, nel suo viaggio apostolico nella Repubblica Ceca: «Mi viene qui in mente la parola che Gesù cita dal profeta Isaia, che cioè il tempio dovrebbe essere una casa di preghiera per tutti i popoli (cf. Is 56, 7; Mc 11, 17). Egli pensava al cosiddetto cortile dei gentili, che sgomberò da affari esteriori perché ci fosse lo spazio libero per i gentili che lì volevano pregare l’unico Dio, anche se non potevano prendere parte al mistero, al cui servizio era riservato l’interno del tempio. Spazio di preghiera per tutti i popoli – si pensava con ciò a persone che conoscono Dio, per così dire, soltanto da lontano; che sono scontente con i loro dèi, riti, miti; che desiderano il Puro e il Grande, anche se Dio rimane per loro il “Dio ignoto” (cf. At 17, 23). Essi dovevano poter pregare il Dio ignoto e così tuttavia essere in relazione con il Dio vero, anche se in mezzo ad oscurità di vario genere. Io penso che la Chiesa dovrebbe anche oggi aprire una sorta di “cortile dei gentili” dove gli uomini possano in una qualche maniera agganciarsi a Dio, senza conoscerlo e prima che abbiano trovato l’accesso al suo mistero, al cui servizio sta la vita interna della Chiesa» [18].

Noi credenti dobbiamo avere a cuore anche le persone che si ritengono agnostiche o atee. Esse forse si spaventano quando si parla di nuova evangelizzazione, come se loro dovessero diventare oggetto di missione. Ma la questione circa Dio rimane tuttavia presente pure per loro. La ricerca di Dio è stato il motivo fondamentale dal quale è nato il monachesimo occidentale e, con esso, la cultura occidentale. Il primo passo dell’evangelizzazione consiste nel cercare di tener desta tale ricerca. È necessario mantenere il dialogo non solo con le religioni, ma anche con chi ritiene la religione una cosa estranea.

L’immagine del “cortile dei gentili” ci viene consegnata come ulteriore elemento della riflessione sulla “nuova evangelizzazione”, che mostra di essere l’audacia dei cristiani di non rinunciare mai, di cercare positivamente tutte le vie per imbastire forme di dialogo che intercettino le attese più profonde degli uomini e la loro sete di Dio. Tale audacia permette di porre dentro questi contesti la domanda su Dio, condividendo la propria esperienza di ricerca e raccontando come dono l’incontro con il Vangelo di Gesù Cristo. Una simile capacità, una simile attitudine, richiede un primo momento di autoverifica e di purificazione, per riconoscere le tracce di paura, stanchezza, stordimento, ripiegamento su di sé che la cultura dentro la quale viviamo ha potuto generare in noi. In un secondo momento sarà urgente lo slancio, la messa in marcia, grazie al sostegno dello Spirito Santo, verso quella esperienza di Dio come Padre che l’incontro vissuto con Cristo ci permette di annunciare a tutti gli uomini. Questi momenti non costituiscono delle tappe temporali successive l’una all’altra, quanto dei moti spirituali che si succedono senza soluzione di continuità dentro la vita cristiana. L’apostolo Paolo li racconta, quando descrive l’esperienza della fede come una liberazione «dal potere delle tenebre» ed un ingresso «nel regno del Figlio del suo amore, per mezzo del quale abbiamo la redenzione e il perdono dei peccati» (Col 1, 13-14; cf. anche Rm 12, 1-2). Così pure, questa audacia non è qualcosa di assolutamente nuovo o di totalmente inedito per il cristianesimo, essendovi traccia di questo atteggiamento già nella letteratura patristica [19].

6. Gli scenari della nuova evangelizzazione

La nuova evangelizzazione è dunque un’attitudine, uno stile audace. È la capacità da parte del cristianesimo di saper leggere e decifrare i nuovi scenari che in questi ultimi decenni sono venuti creandosi dentro la storia degli uomini, per abitarli e trasformarli in luoghi di testimonianza e di annuncio del Vangelo. Questi scenari sono stati individuati analiticamente e descritti più volte [20]; si tratta di scenari sociali, culturali, economici, politici, religiosi.

Primo fra tutti, va indicato lo scenario culturale di sfondo. Ci troviamo in un’epoca di profonda secolarizzazione, che ha perso la capacità di ascoltare e di comprendere la parola evangelica come un messaggio vivo e vivificante. Radicata in modo particolare nel mondo occidentale, frutto di episodi e movimenti sociali e di pensiero che ne hanno segnato in profondità la storia e l’identità, la secolarizzazione si presenta oggi nelle nostre culture attraverso l’immagine positiva della liberazione, della possibilità di immaginare la vita del mondo e dell’umanità senza riferimento alla trascendenza. In questi anni non ha più tanto la forma pubblica dei discorsi diretti e forti contro Dio, la religione e il cristianesimo, anche se in qualche caso questi toni anticristiani, antireligiosi e anticlericali si sono fatti udire anche di recente. Essa ha assunto piuttosto un tono dimesso che ha permesso a questa forma culturale di invadere la vita quotidiana delle persone e di sviluppare una mentalità in cui Dio è di fatto assente, in tutto o in parte, dall’esistenza e dalla coscienza umana. Questo suo modo ha consentito alla secolarizzazione di entrare nella vita dei cristiani e delle comunità ecclesiali, divenendo ormai non più soltanto una minaccia esterna per i credenti, ma un terreno di confronto quotidiano [21]. Sono espressioni della cosiddetta cultura del relativismo. Inoltre, vi sono gravi implicazioni antropologiche in atto che mettono in discussione la stessa esperienza elementare umana, come la relazione uomo-donna, il senso della generazione e della morte.

I tratti di un modo secolarizzato di intendere la vita segnano il comportamento quotidiano di molti cristiani, che si mostrano spesso influenzati, se non condizionati, dalla cultura dell’immagine con i suoi modelli e impulsi contraddittori. La mentalità edonistica e consumistica predominante induce in loro una deriva verso la superficialità e un egocentrismo che non è facile contrastare. La “morte di Dio” annunciata nei decenni passati da tanti intellettuali cede il posto ad uno sterile culto dell’individuo. Il rischio di perdere anche gli elementi fondamentali della grammatica di fede è reale, con la conseguenza di cadere in un’atrofia spirituale e in un vuoto del cuore, o al contrario in forme surrogate di appartenenza religiosa e di vago spiritualismo. In un simile scenario, la nuova evangelizzazione si presenta come lo stimolo di cui hanno bisogno comunità stanche e affaticate, per riscoprire la gioia dell’esperienza cristiana, per ritrovare «l’amore di un tempo» che si è perduto (Ap 2, 4), per ribadire la natura della libertà nella ricerca della Verità.

D’altra parte, in altre regioni del mondo si assiste a una promettente rinascita religiosa. Tanti aspetti positivi della riscoperta di Dio e del sacro in varie religioni sono oscurati da fenomeni di fondamentalismo che non poche volte manipola la religione per giustificare la violenza e persino il terrorismo. Si tratta di un grave abuso. «Non si può usare la violenza in nome di Dio» [22]. Inoltre il proliferare delle sette rappresenta una sfida permanente.

Accanto a questo primo scenario culturale, ne possiamo indicare un secondo, più sociale: il grande fenomeno migratorio che spinge sempre di più le persone a lasciare il loro paese di origine e vivere in contesti urbanizzati, modificando la geografia etnica delle nostre città, delle nostre nazioni e dei nostri continenti. Da esso deriva un incontro e un mescolamento delle culture che le nostre società non conoscevano da secoli. Si stanno producendo forme di contaminazione e di sgretolamento dei riferimenti fondamentali della vita, dei valori per cui spendersi, degli stessi legami attraverso i quali i singoli strutturano le loro identità e accedono al senso della vita. L’esito culturale di questi processi è un clima di estrema fluidità e “liquidità” dentro il quale c’è sempre meno spazio per le grandi tradizioni, comprese quelle religiose, e per il loro compito di strutturare in modo oggettivo il senso della storia e le identità dei soggetti. A questo scenario sociale è legato quel fenomeno che va sotto il termine di globalizzazione, realtà di non facile decifrazione, che richiede ai cristiani un forte lavoro di discernimento. Può essere letta come un fenomeno negativo, se di questa realtà prevale una interpretazione deterministica, legata alla sola dimensione economica e produttiva; può però essere letta come un momento di crescita, in cui l’umanità impara a sviluppare nuove forme solidaristiche e nuove vie per condividere lo sviluppo di tutti al bene.[23] La nuova evangelizzazione in un simile scenario ci permette di imparare che la missione non è più un movimento nord-sud o ovest-est, perché occorre svincolarsi dai confini geografici. Oggi la missione si trova in tutti e cinque i continenti. Bisogna imparare a conoscere i settori e gli ambienti che sono estranei alla fede, perché non l’hanno mai incontrata e non soltanto perché se ne sono allontanati. Svincolarsi dai confini vuol dire avere le energie per porre la questione di Dio in tutti quei processi di incontro, mescolamento, ricostruzione dei tessuti sociali che sono in atto in ognuno dei nostri contesti locali.

Questo profondo miscuglio delle culture è lo sfondo sul quale opera un terzo scenario che va segnando in modo sempre più determinante la vita delle persone e la coscienza collettiva. Si tratta della sfida dei mezzi di comunicazione sociale, che oggi offrono enormi possibilità e rappresentano una delle grandi sfide per la Chiesa. Agli inizi caratteristico del solo mondo industrializzato, lo scenario che stiamo presentando è in grado oggi di influenzare anche vaste porzioni dei paesi in via di sviluppo. Non c’è luogo al mondo che oggi non possa essere raggiunto e quindi non essere soggetto all’influsso della cultura mediatica e digitale che si struttura sempre più come il “luogo” della vita pubblica e della esperienza sociale. Il diffondersi di questa cultura porta con sé indubbi benefici: maggiore accesso alle informazioni, maggiore possibilità di conoscenza, di scambio, di forme nuove di solidarietà, di capacità di costruire una cultura sempre più a dimensione mondiale, rendendo i valori e i migliori sviluppi del pensiero e dell’espressione umana patrimonio di tutti. Queste potenzialità non possono però nascondere i rischi che la diffusione eccessiva di una simile cultura sta già generando. Si manifesta una profonda concentrazione egocentrica su di sé e sui soli bisogni individuali. Si afferma un’esaltazione della dimensione emotiva nella strutturazione delle relazioni e dei legami sociali. Si assiste alla perdita di valore oggettivo dell’esperienza della riflessione e del pensiero, ridotta in molti casi a puro luogo di conferma del proprio sentire. Si diffonde una progressiva alienazione della dimensione etica e politica della vita, che riduce l’alterità al ruolo funzionale di specchio e spettatore delle mie azioni. Il punto finale a cui possono condurre questi rischi è quello che viene chiamato la cultura dell’effimero, dell’immediato, dell’apparenza, ovvero una società incapace di memoria e di futuro. In un simile contesto, la nuova evangelizzazione chiede ai cristiani l’audacia di abitare questi “nuovi aeropaghi”, trovando gli strumenti e i percorsi per rendere udibile anche in questi luoghi ultramoderni il patrimonio educativo e di sapienza custodito dalla tradizione cristiana [24].

Un quarto scenario che segna con i suoi mutamenti l’azione evangelizzatrice della Chiesa è quello economico. Innumerevoli volte il Magistero dei Sommi Pontefici ha denunciato i crescenti squilibri tra Nord e Sud del mondo, nell’accesso e nella distribuzione delle risorse, come anche nel danno al creato. La perdurante crisi economica nella quale ci troviamo segnala il problema di utilizzo di forze materiali, che fatica a trovare le regole di un mercato globale capace di tutelare una convivenza più giusta [25]. Nonostante la comunicazione mediatica quotidiana riservi sempre meno spazio ad una lettura di queste problematiche a partire dalla voce dei poveri, dalle Chiese ci si aspetta ancora molto in termini di sensibilizzazione e di azione concreta.

Un quinto scenario è quello della ricerca scientifica e tecnologica. Viviamo in un’epoca che non si è ancora ripresa dalla meraviglia suscitata dai continui traguardi che la ricerca in questi campi ha saputo superare. Tutti possiamo sperimentare nella vita quotidiana i benefici arrecati da questi progressi. Tutti siamo sempre più dipendenti da questi benefici. La scienza e la tecnologia corrono così il rischio di diventare i nuovi idoli del presente. È facile in un contesto digitalizzato e globalizzato fare della scienza la nostra nuova religione, alla quale rivolgere domande di verità e attese di senso, sapendo di ricevere solo risposte parziali e inadeguate. Ci troviamo di fronte al sorgere di nuove forme di gnosi, che assumono la tecnica come forma di saggezza, alla ricerca di una organizzazione magica della vita che funzioni come sapere e come senso. Assistiamo all’affermarsi di nuovi culti. Essi finalizzano in modo terapeutico le pratiche religiose che gli uomini sono disposti a vivere, strutturandosi come religioni della prosperità e della gratificazione istantanea.

Un sesto scenario infine è quello politico. Dal Concilio Vaticano II ad oggi i mutamenti intervenuti possono essere definiti a giusta ragione epocali. È giunta la fine della divisione del mondo occidentale in due blocchi con la crisi dell’ideologia comunista. Ciò ha favorito la libertà religiosa e la possibilità di riorganizzazione delle Chiese storiche. L’emergere sulla scena mondiale di nuovi attori economici, politici e religiosi, come il mondo islamico, mondo asiatico, ha creato una situazione inedita e totalmente sconosciuta, ricca di potenzialità, ma anche piena di rischi e di nuove tentazioni di dominio e di potere. In questo scenario, l’impegno per la pace, lo sviluppo e la liberazione dei popoli; il miglioramento delle forme di governo mondiale e nazionale; la costruzione di forme possibili di ascolto, convivenza, dialogo e collaborazione tra le diverse culture e religioni; la custodia dei diritti dell’uomo e dei popoli, soprattutto delle minoranze; la promozione dei più deboli; la salvaguardia del creato e l’impegno per il futuro del nostro pianeta, sono tutti temi e settori da illuminare con la luce del Vangelo.

7. Da cristiani di fronte a questi nuovi scenari

Di fronte a simili cambiamenti è naturale che la prima reazione sia di smarrimento e di paura, confrontati a trasformazioni che interrogano la nostra identità e la nostra fede sin nelle fondamenta. Diventa naturale assumere quell’atteggiamento critico di discernimento più volte richiamato da Papa Benedetto XVI, quando ci invita a sviluppare una rilettura del presente a partire dalla prospettiva di speranza che il cristianesimo porta in dono [26]. Imparando di nuovo che cosa è la speranza, i cristiani potranno operare, nel contesto delle loro conoscenze e delle loro esperienze, dialogando con gli altri uomini, intuendo cosa possono offrire al mondo come dono, cosa possono condividere, cosa possono assumere per esprimere ancora meglio questa speranza, su quali elementi invece è giusto resistere. I nuovi scenari con cui siamo chiamati a confrontarci chiedono di sviluppare una critica degli stili di vita, delle strutture di pensiero e di valore, dei linguaggi costruiti per comunicare. Essa al medesimo tempo dovrà funzionare anche come autocritica del cristianesimo moderno, che deve sempre di nuovo imparare a comprendere se stesso a partire dalle proprie radici.

Qui trova il suo specifico e la sua forza lo strumento della nuova evangelizzazione: occorre guardare a questi scenari, a questi fenomeni sapendo superare il livello emotivo del giudizio difensivo e di paura, per cogliere in modo oggettivo i segni del nuovo insieme alle sfide e alle fragilità. “Nuova evangelizzazione” vuol dire, quindi, operare nelle nostre Chiese locali per costruire percorsi di lettura dei fenomeni sopra indicati che permetta di tradurre la speranza del Vangelo in termini praticabili. Ciò significa che la Chiesa si edifica accettando di misurarsi con queste sfide, diventando sempre di più l’artefice della civilizzazione dell’amore.

Di più, “nuova evangelizzazione” vuol dire avere l’audacia di portare la domanda su Dio all’interno di questi problemi, realizzando lo specifico della missione della Chiesa e mostrando in questo modo come la prospettiva cristiana illumina in modo inedito i grandi problemi della storia. La nuova evangelizzazione ci chiede di confrontarci con questi scenari non restando chiusi nei recinti delle nostre comunità e delle nostre istituzioni, ma accettando la sfida di entrare dentro questi fenomeni, per prendere la parola e portare la nostra testimonianza dal di dentro. Questa è la forma che la martyria cristiana assume nel mondo d’oggi, accettando il confronto anche con quelle recenti forme di ateismo aggressivo o di secolarizzazione estrema, il cui scopo è l’eclissi della questione di Dio dalla vita dell’uomo.

In un simile contesto, “nuova evangelizzazione” vuol dire per la Chiesa sostenere in modo convinto lo sforzo di vedere tutti i cristiani uniti nel mostrare al mondo la forza profetica e trasformatrice del messaggio evangelico. La giustizia, la pace, la convivenza tra i popoli, la salvaguardia del creato sono le parole che hanno segnato il cammino ecumenico di questi decenni. I cristiani tutti insieme le offrono al mondo, come luoghi in cui far emergere la questione di Dio nella vita degli uomini. Queste parole infatti acquistano il loro senso più autentico solo alla luce e sullo sfondo della parola di amore che Dio ha avuto per noi nel suo Figlio Gesù Cristo.

8. “Nuova evangelizzazione” e domanda di spiritualità

Questo sforzo di portare la questione di Dio dentro i problemi dell’uomo d’oggi intercetta il ritorno del bisogno religioso e la domanda di spiritualità che a partire dalle giovani generazioni emerge con rinnovato vigore. I mutamenti di scenario che abbiamo analizzato sino a questo punto non potevano non esercitare influssi anche sul modo con cui gli uomini danno voce e corpo al proprio senso religioso. La stessa Chiesa cattolica è toccata da questo fenomeno, che offre risorse e occasioni di evangelizzazione insperate pochi decenni fa. I grandi raduni mondiali della gioventù, i pellegrinaggi verso luoghi di devozione antichi e nuovi, la primavera dei movimenti e delle aggregazioni ecclesiali sono il segno visibile di un senso religioso che non si è spento. La “nuova evangelizzazione” in questo contesto chiede alla Chiesa di saper discernere i segni dello Spirito all’opera, indirizzandone ed educandone le espressioni, in vista di una fede adulta e consapevole «fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo» (Ef 4, 13) [27]. Oltre ai gruppi di recente nascita, frutto promettente dello Spirito Santo, un grande compito nella nuova evangelizzazione spetta alla vita consacrata nelle antiche e nuove forme. Occorre ricordare che tutti i grandi movimenti di evangelizzazione nei duemila anni di cristianesimo sono legati a forme di radicalismo evangelico.

In questo contesto va inserito l’incontro e il dialogo con le grandi tradizioni religiose, in particolare quelle orientali, che la Chiesa ha imparato a vivere negli ultimi decenni, e continua ad intensificare. Questo incontro si presenta come un’occasione promettente per imparare a conoscere e a confrontare la forma e i linguaggi della domanda religiosa così come si presenta in altre esperienze religiose. Esso permette al cattolicesimo di comprendere con maggiore profondità i modi con cui la fede cristiana ascolta e assume la domanda religiosa di ogni uomo.

9. Nuovi modi di essere Chiesa

Queste nuove condizioni della missione ci fanno intuire che il termine “nuova evangelizzazione” indica finalmente l’esigenza di individuare nuove espressioni dell’evangelizzazione per essere Chiesa dentro i contesti sociali e culturali attuali così in mutamento. Le figure tradizionali e consolidate – che per convenzione vengono indicate con i termini “paesi di cristianità” e “terre di missione” – accanto alla loro chiarezza concettuale mostrano ormai i loro limiti. Sono troppo semplici e fanno riferimento a un contesto in via di superamento, per poter funzionare da modelli di riferimento per la costruzione delle comunità cristiane di oggi. C’è bisogno che la pratica cristiana guidi la riflessione in un lento lavoro di costruzione di un nuovo modello di essere Chiesa, che eviti gli scogli del settarismo e della “religione civile”, e permetta in un contesto postideologico come l’attuale di continuare a mantenere la forma di una Chiesa missionaria. In altri termini, la Chiesa ha bisogno, dentro la varietà delle sue figure, di non perdere il volto di Chiesa “domestica, popolare”. Pur in contesti di minoranza o di discriminazione la Chiesa non può perdere la sua capacità di restare accanto alla vita quotidiana delle persone, per annunciare da quel luogo il messaggio vivificante del Vangelo. Come affermava Papa Giovanni Paolo II, “nuova evangelizzazione” vuol dire rifare il tessuto cristiano della società umana, rifacendo il tessuto delle stesse comunità cristiane [28]; vuol dire aiutare la Chiesa a continuare ad essere presente «in mezzo alle case dei suoi figli e delle sue figlie» [29], per animarne la vita e indirizzarla al Regno che viene.

In questo lavoro di discernimento possono essere di grande aiuto le Chiese cattoliche orientali e tutte quelle comunità cristiane che nel loro recente passato hanno vissuto o stanno ancora vivendo l’esperienza del nascondimento, della persecuzione, della emarginazione, dell’essere vittime dell’intolleranza di natura etnica, ideologica o religiosa. La loro testimonianza di fede, la loro tenacia, la loro capacità di resistenza, la solidità della loro speranza, l’intuizione di alcune loro pratiche pastorali sono un dono da condividere con quelle comunità cristiane che, pur avendo alle spalle passati gloriosi, vivono un presente fatto di fatica e dispersione. Per Chiese poco abituate a vivere la propria fede in situazione di minoranza è certamente un dono poter ascoltare esperienze che infondono loro quella fiducia indispensabile allo slancio che richiede la nuova evangelizzazione.

È tempo di nuova evangelizzazione anche per l’occidente, dove molti che hanno ricevuto il battesimo vivono completamente al di fuori della vita cristiana e sempre più persone conservano sì qualche legame con la fede ma ne conoscono poco e male i fondamenti. Spesso la presentazione che si ha della fede cristiana risulta distorta dalla caricatura e dai luoghi comuni che la cultura diffonde, in un atteggiamento di indifferente distacco, se non di aperta contestazione. È tempo di nuova evangelizzazione per quell’occidente in cui «interi paesi e nazioni, dove la religione e la vita cristiana erano un tempo quanto mai fiorenti e capaci di dar origine a comunità di fede viva e operosa, sono ora messi a dura prova, e talvolta sono persino radicalmente trasformati, dal continuo diffondersi dell’indifferentismo, del secolarismo e dell’ateismo. Si tratta, in particolare, dei paesi e delle nazioni del cosiddetto Primo Mondo, nel quale il benessere economico e il consumismo, anche se frammisti a paurose situazioni di povertà e di miseria, ispirano e sostengono una vita vissuta “come se Dio non esistesse”» [30].

Le comunità cristiane devono saper assumere con responsabilità e coraggio questa domanda di rinnovamento che il mutamento del contesto culturale e sociale pone alla Chiesa. Esse devono imparare ad abitare e a gestire questa lunga transizione di figura, mantenendo come punto di riferimento il comando di evangelizzare.

10. Prima evangelizzazione, cura pastorale, nuova evangelizzazione

Il compito missionario con cui si chiude il Vangelo (cf. Mc 16, 15s; Mt 28, 19s; Lc 24, 48s) è ben lungi dall’essere concluso; è entrato in una nuova fase. Già Papa Giovanni Paolo II ricordava che «i confini fra cura pastorale dei fedeli, nuova evangelizzazione e attività missionaria specifica non sono nettamente definibili, e non è pensabile creare tra di esse barriere o compartimenti-stagno. […] Le chiese di antica cristianità, alle prese col drammatico compito della nuova evangelizzazione, comprendono meglio che non possono essere missionarie verso i non cristiani di altri paesi e continenti, se non si preoccupano seriamente dei non cristiani in casa propria: la missionarietà ad intra è segno credibile e stimolo per quella ad extra, e viceversa» [31]. L’essere cristiano e la Chiesa sono missionari o non sono. Chi ama la propria fede si preoccuperà anche di testimoniarla e portarla ad altri e permettere ad altri di parteciparvi. La mancanza di zelo missionario è mancanza di zelo per la fede. Al contrario, la fede si irrobustisce trasmettendola. Il testo del Papa sembra voler tradurre il concetto di nuova evangelizzazione in una domanda critica e abbastanza diretta: siamo interessati a trasmettere la fede e a guadagnare alla fede non cristiani? Abbiamo veramente a cuore la missione?

La nuova evangelizzazione è il nome dato a questa nuova attenzione della Chiesa alla sua missione fondamentale, alla sua identità e ragione d’essere. Perciò è una realtà che non riguarda soltanto determinate regioni ben definite, ma è la strada che permette di spiegare e tradurre in pratica l’eredità apostolica nel e per il nostro tempo. Con il programma della nuova evangelizzazione la Chiesa vuole introdurre nel mondo di oggi e nell’odierna discussione la sua tematica più originaria e specifica: l’annuncio del Regno di Dio, iniziato in Gesù Cristo. Non c’è situazione ecclesiale che si possa sentire esclusa da un simile programma: le antiche Chiese cristiane, con il problema del pratico abbandono della fede da parte di molti; le nuove Chiese, alle prese con percorsi di inculturazione che chiedono continue verifiche per riuscire non solo a introdurre il Vangelo, che purifica ed eleva quelle culture, ma soprattutto ad aprirle alla novità del Vangelo; più in generale, tutte le comunità cristiane, impegnate nell’esercizio di una cura pastorale che sembra sempre più difficile da gestire e corre il rischio di trasformarsi in una routine poco capace di comunicare le ragioni per le quali è nata.

Nuova evangelizzazione è allora sinonimo di missione; chiede la capacità di ripartire, di oltrepassare i confini, di allargare gli orizzonti. La nuova evangelizzazione è il contrario dell’autosufficienza e del ripiegamento su se stessi, della mentalità dello status quo e di una concezione pastorale che ritiene sufficiente continuare a fare come si è sempre fatto. Oggi il “business as usual” non basta più. Come alcune Chiese locali si sono impegnate ad affermare, è tempo che la Chiesa chiami le proprie comunità cristiane ad una conversione pastorale in senso missionario della loro azione e delle loro strutture [32].

Domande

Le nostre comunità cristiane stanno vivendo periodi di forte mutamento delle loro figure ecclesiali e sociali.

1. Quali sono i tratti principali di questo mutamento nelle nostre Chiese locali?

2. Come sono vissuti i tratti di una Chiesa missionaria, di una Chiesa capace di stare nel quotidiano della gente, di una Chiesa “tra le case dei suoi figli e delle sue figlie”?

3. In che modo la nuova evangelizzazione ha saputo ridare vita e slancio alla prima evangelizzazione o alla cura pastorale già in atto? Come ha aiutato a vincere le stanchezze e la fatiche che affiorano nella vita quotidiana delle nostre Chiese locali?

4. Quali discernimenti, quali letture della situazione presente delle diverse Chiese locali, sono stati compiuti alla luce della nuova evangelizzazione?

Il mondo sta conoscendo forti mutamenti, che generano nuovi scenari e nuove sfide al cristianesimo. Ne sono stati presentati sei: uno scenario culturale (la secolarizzazione), uno sociale (il mescolamento dei popoli), uno mediatico, uno economico, uno scientifico ed uno politico. Volutamente questi scenari sono stati descritti in modo generico e uniforme.

5. Che figura specifica hanno assunto nel contesto delle diverse Chiese locali?

6. In che modo questi scenari hanno interagito con la vita delle Chiese locali? Come ne hanno influenzato la vita?

7. Quali domande e quali sfide hanno posto? Quali risposte sono state costruite?

8. Quali sono stati i principali ostacoli e le fatiche più forti nel porre la questione di Dio dentro le questioni del tempo? Quali le esperienze più riuscite?

Allo scenario religioso è stato dato un rilievo particolare.

9. Quali trasformazioni sta conoscendo il modo che la gente ha di vivere la propria esperienza religiosa?

10. Quali nuove domande di spiritualità, quali nuovi bisogni religiosi stanno emergendo? Ci sono nuove tradizioni religiose che si vanno affermando?

11. Come le comunità cristiane sono toccate dall’evoluzione dello scenario religioso? Quali le principali fatiche? Quali nuove opportunità?

La nuova evangelizzazione è la trasformazione che la Chiesa sa immaginare per continuare a vivere la propria missione di annuncio dentro questi nuovi scenari.

12. Che forma ha assunto la nuova evangelizzazione nelle Chiese locali?

13. Quale contenuto, quale forma ha preso l’audacia che è caratteristica della nuova evangelizzazione? Che energie ha saputo infondere alla vita ecclesiale e pastorale?

14. Per designare quali azioni e quali dimensioni della vita e dell’azione della Chiesa?

15. Come le Chiese locali sono riuscite ad assumere e fare propria la richiesta di Papa Giovanni Paolo II, più volte reiterata, di fare propria «una nuova evangelizzazione: nuova nel suo ardore, nei suoi metodi, nelle sue espressioni»?

16. Come la celebrazione di Assemblee sinodali continentali o regionali ha aiutato le comunità cristiane ad elaborare un programma di nuova evangelizzazione?


Secondo capitolo
Proclamare il Vangelo di Gesù Cristo
«Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo ad ogni creatura» (Mc 16, 15)

11. L’incontro e la comunione con Cristo, fine della trasmissione della fede

Il mandato missionario che i discepoli hanno ricevuto dal Signore (cf. Mc 16, 15) contiene un esplicito riferimento alla proclamazione e all’insegnamento del Vangelo («insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato» Mt 28, 20). L’apostolo Paolo si presenta come «apostolo […] scelto per annunciare il Vangelo di Dio» (Rm 1, 1). Il compito della Chiesa consiste quindi nel realizzare la traditio Evangelii, l’annuncio e la trasmissione del Vangelo, che è «potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede» (Rm 1, 16) e che in ultima istanza si identifica con Gesù Cristo (cf. 1 Cor 1, 24) [33]. Parlando di Vangelo, non dobbiamo pensare solo ad un libro o ad una dottrina; il Vangelo è molto di più: è una Parola viva ed efficace, che opera ciò che dice. Non è un sistema di articoli di fede e di precetti morali, e ancor meno un programma politico, bensì una persona: Gesù Cristo come Parola definitiva di Dio, fatta uomo [34]. Il Vangelo è Vangelo di Gesù Cristo: non soltanto ha come contenuto Gesù Cristo. Molto di più, quest’ultimo è, attraverso lo Spirito Santo, anche il promotore e il soggetto primario del suo annuncio, della sua trasmissione. L’obiettivo della trasmissione della fede è dunque la realizzazione di questo incontro con Gesù Cristo, nello Spirito, per giungere a fare esperienza del Padre suo e nostro [35].

Trasmettere la fede significa creare in ogni luogo e in ogni tempo le condizioni perché questo incontro tra gli uomini e Gesù Cristo avvenga. La fede come incontro con la persona di Cristo ha la forma della relazione con lui, della memoria di Lui (nell’Eucaristia) e del formare in noi la mentalità di Cristo, nella grazia dello Spirito. Come ha riaffermato Papa Benedetto XVI, «all’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva. […] Siccome Dio ci ha amati per primo (cf. 1 Gv 4, 10), l’amore adesso non è più solo un “comandamento”, ma è la risposta al dono dell’amore, col quale Dio ci viene incontro» [36]. La Chiesa stessa prende forma proprio a partire dalla realizzazione di questo compito di annuncio del Vangelo e di trasmissione della fede cristiana.

L’esito sperato di questo incontro è di inserire gli uomini nella relazione del Figlio col Padre suo per sentire la forza dello Spirito. Il fine della trasmissione della fede, il fine della evangelizzazione è di portare «per Cristo al Padre nello Spirito» (Ef 2, 18) [37]; è questa l’esperienza della novità del Dio cristiano. In questa prospettiva trasmettere la fede in Cristo significa creare le condizioni per una fede pensata, celebrata, vissuta e pregata: ciò significa inserire nella vita della Chiesa [38]. È questa una struttura di trasmissione molto radicata nella tradizione ecclesiale. Ad essa si rifà anche il Catechismo della Chiesa Cattolica, come anche il Compendio del Catechismo stesso, che la assume per sostenerla, declinarla, rilanciarla [39].

12. La Chiesa trasmette la fede che essa stessa vive

La trasmissione della fede è dunque una dinamica molto complessa che coinvolge in modo totale la fede dei cristiani e la vita della Chiesa. Non si può trasmettere ciò che non si crede e non si vive. Segno di una fede radicata e matura è proprio la naturalezza con cui la comunichiamo agli altri. «Chiamò a sé quelli che voleva […] perché stessero con lui e per mandarli a predicare» (Mc 3, 13-14). Non si può trasmettere il Vangelo senza avere alla base uno “stare” con Gesù, un vivere nello Spirito con Gesù l’esperienza del Padre; e, in modo corrispettivo, l’esperienza dello “stare” sospinge all’annuncio, alla proclamazione, alla condivisione di ciò che si è vissuto, avendolo sperimentato come buono, positivo e bello.

Un simile compito di annuncio e di proclamazione non è riservato a qualcuno, a pochi eletti. È dono fatto ad ogni uomo che risponde con fiducia alla chiamata alla fede. La trasmissione della fede non è un’azione specializzata, da appaltare a qualche gruppo o a qualche singolo individuo appositamente deputato. È esperienza di ogni cristiano e di tutta la Chiesa, che in questa azione riscopre continuamente la propria identità di popolo radunato dalla chiamata dello Spirito, che ci raccoglie dalla dispersione del nostro quotidiano, per vivere la presenza tra noi di Cristo, e scoprire così il vero volto di Dio, che ci è Padre. «I fedeli laici, in forza della loro partecipazione all’ufficio profetico di Cristo, sono pienamente coinvolti in questo compito della Chiesa. Ad essi tocca, in particolare, testimoniare come la fede cristiana costituisca l’unica risposta pienamente valida, più o meno coscientemente da tutti percepita e invocata, dei problemi e delle speranze che la vita pone ad ogni uomo e ad ogni società. Ciò sarà possibile se i fedeli laici sapranno superare in se stessi la frattura tra il Vangelo e la vita, ricomponendo nella loro quotidiana attività in famiglia, sul lavoro e nella società, l’unità di una vita che nel Vangelo trova ispirazione e forza per realizzarsi in pienezza» [40].

Azione fondamentale della Chiesa, la trasmissione della fede struttura il volto e le azioni delle comunità cristiane [41]. Per annunciare e diffondere il Vangelo occorre che la Chiesa realizzi figure di comunità cristiane capaci di articolare in modo stretto le opere fondamentali della vita di fede: carità, testimonianza, annuncio, celebrazione, ascolto, condivisione. Occorre concepire l’evangelizzazione come il processo attraverso il quale la Chiesa, mossa dallo Spirito, annuncia e diffonde il Vangelo in tutto il mondo, seguendo una logica che la riflessione magisteriale ha così sintetizzato: «spinta dalla carità, impregna e trasforma tutto l’ordine temporale, assumendo e rinnovando le culture. Dà testimonianza tra i popoli del nuovo modo di essere e di vivere che caratterizza i cristiani. Proclama esplicitamente il Vangelo, mediante il primo annuncio, chiamando alla conversione. Inizia alla fede e alla vita cristiana, mediante la catechesi e i sacramenti di iniziazione, coloro che si convertono a Gesù Cristo, o quelli che riprendono il cammino della sua sequela, incorporando gli uni e riconducendo gli altri alla comunità cristiana. Alimenta costantemente il dono della comunione nei fedeli mediante l’educazione permanente della fede (omelia, ministero della Parola), i sacramenti e l’esercizio della carità. Suscita continuamente la missione, inviando tutti i discepoli di Cristo ad annunciare il Vangelo, con parole e opere, in tutto il mondo» [42].

13.  Parola di Dio e trasmissione della fede

Dalla celebrazione del Concilio Vaticano II la Chiesa cattolica ha riscoperto che questa trasmissione della fede intesa come incontro con Cristo, si attua mediante la Sacra Scrittura e la Tradizione viva della Chiesa, sotto la guida dello Spirito Santo [43]. È così che la Chiesa viene continuamente rigenerata dallo Spirito. In questo modo le nuove generazioni vengono sostenute nel loro cammino di incontro con Cristo nel suo corpo, che trova la sua piena espressione nella celebrazione della Eucaristia. La centralità di questa funzione di trasmissione della fede è stata riletta ed evidenziata nelle ultime due Assemblee sinodali sull’Eucaristia e in particolare in quella dedicata alla Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa. In queste due Assemblee la Chiesa è stata invitata a riflettere e a riprendere piena coscienza della dinamica profonda che ne sostiene l’identità: la Chiesa trasmette la fede che essa stessa vive, celebra, professa, testimonia [44].

Una simile presa di coscienza ha consegnato alla Chiesa impegni concreti e sfide con le quali misurare questo suo compito di trasmissione. È necessario maturare all’interno del popolo di Dio una maggiore consapevolezza del ruolo della Parola di Dio, della sua potenza rivelatrice e manifestatrice dell’intenzione di Dio verso gli uomini, del suo disegno di salvezza [45]. C’è bisogno di una maggiore cura della proclamazione della Parola di Dio nelle assemblee liturgiche e una dedizione più convinta al compito della predicazione [46]. Serve un’attenzione più consapevole e una fiducia più convinta nel ruolo che la Parola di Dio può svolgere nella missione della Chiesa, sia nel momento specifico dell’annuncio del messaggio di salvezza che nella posizione più riflessiva dell’ascolto e del dialogo con le culture [47].

I Padri sinodali hanno riservato un’attenzione particolare all’annuncio della Parola alle nuove generazioni. «Nei giovani spesso troviamo una spontanea apertura all’ascolto della Parola di Dio ed un sincero desiderio di conoscere Gesù. […] Questa attenzione al mondo giovanile implica il coraggio di un annuncio chiaro; dobbiamo aiutare i giovani ad acquistare confidenza e familiarità con la sacra Scrittura, perché sia come una bussola che indica la strada da seguire. Per questo, essi hanno bisogno di testimoni e di maestri, che camminino con loro e li guidino ad amare e a comunicare a loro volta il Vangelo soprattutto ai loro coetanei, diventando essi stessi autentici e credibili annunciatori» [48]. Così pure i Padri sinodali chiedono alle comunità cristiane di «aprire itinerari d’iniziazione cristiana i quali, attraverso l’ascolto della Parola, la celebrazione della Eucaristia e l’amore fraterno vissuto in comunità, possano avviare ad una fede sempre più adulta. Va considerata la nuova domanda che nasce dalla mobilità e dal fenomeno migratorio che apre nuove prospettive di evangelizzazione, perché gli immigranti non soltanto hanno bisogno di essere evangelizzati ma possono essere loro stessi agenti di evangelizzazione» [49].

Con le sue sottolineature, la riflessione dell’Assemblea sinodale ha richiamato le comunità cristiane a verificare quanto l’annuncio della Parola sia alla base del compito di trasmissione della fede: «È necessario, dunque, riscoprire sempre più l’urgenza e la bellezza di annunciare la Parola, per l’avvento del Regno di Dio, predicato da Cristo stesso. […] Avvertiamo tutti quanto sia necessario che la luce di Cristo illumini ogni ambito dell’umanità: la famiglia, la scuola, la cultura, il lavoro, il tempo libero e gli altri settori della vita sociale. Non si tratta di annunciare una parola consolatoria, ma dirompente, che chiama a conversione, che rende accessibile l’incontro con Lui, attraverso il quale fiorisce un’umanità nuova» [50].

14. La pedagogia della fede

La trasmissione della fede non avviene solo con le parole, ma esige un rapporto con Dio attraverso la preghiera che è la stessa fede in atto. E in questa educazione alla preghiera è decisiva la liturgia con il suo proprio ruolo pedagogico, nel quale il soggetto educante è Dio stesso e il vero educatore alla preghiera è lo Spirito Santo.

L’Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi dedicata alla catechesi aveva riconosciuto come dono dello Spirito – oltre alla fioritura, per numero e dedizione, dei catechisti – la maturazione registrata nei metodi che la Chiesa ha saputo elaborare per realizzare la trasmissione della fede, per permettere agli uomini di vivere l’incontro con Cristo [51]. Sono metodi esperienziali che coinvolgono la persona. Si tratta di metodi plurali, che attivano in modo differenziato le facoltà dei singoli, il loro inserimento in un gruppo sociale, le loro attitudini, le loro domande e ricerche. Tali metodi assumono come proprio strumento l’inculturazione [52]. Per evitare il rischio di dispersione e di confusione insito in una situazione così pluralistica e in continua evoluzione, Papa Giovanni Paolo II raccolse in quel contesto un’istanza dei Padri sinodali e l’ha consegnata come regola: la pluralità dei metodi nella catechesi può essere segno di vitalità e di genialità, se ognuno di questi metodi sa interiorizzare e fare sua una legge fondamentale, quella della duplice fedeltà, a Dio e all’uomo, in uno stesso atteggiamento di amore [53].

Allo stesso tempo, al Sinodo sulla catechesi stava a cuore non disperdere i benefici e i valori ricevuti da un passato segnato dalla preoccupazione di garantire una trasmissione della fede sistematica, integrale, organica e gerarchizzata [54]. Per questo motivo il Sinodo ha rilanciato due strumenti fondamentali per la trasmissione della fede: la catechesi e il catecumenato. Grazie ad essi, la Chiesa trasmette la fede in modo attivo, la semina nei cuori dei catecumeni e dei catechizzandi per fecondare le loro esperienze più profonde. La professione di fede ricevuta dalla Chiesa (traditio), germinando e crescendo durante il processo catechistico, è restituita (redditio), arricchita con i valori delle differenti culture. Il catecumenato si trasforma, così, in un centro fondamentale di incremento della cattolicità e fermento di rinnovamento ecclesiale [55].

Il rilancio di questi due strumenti – catechesi e catecumenato – doveva servire a dare corpo a quella che è stata designata con il termine «pedagogia della fede»[56]. A questo termine è affidato il compito di dilatare il concetto di catechesi, coestendendolo a quello di trasmissione della fede. Dal Sinodo sulla catechesi in poi la catechesi ormai non è altro che il processo di trasmissione del Vangelo, così come la comunità cristiana lo ha ricevuto, lo comprende, lo celebra, lo vive e lo comunica [57]. «La catechesi di iniziazione, essendo organica e sistematica, non si riduce al meramente circostanziale od occasionale; essendo formazione per la vita cristiana, supera – includendolo – il mero insegnamento; ed essendo essenziale, mira a ciò che è “comune” per il cristiano, senza entrare in questioni discusse, né trasformarsi in indagine teologica. Infine, essendo iniziazione, incorpora nella comunità che vive, celebra e testimonia la fede. Realizza, pertanto, allo stesso tempo, compiti d’iniziazione, di educazione e d’istruzione. Questa ricchezza, inerente al Catecumenato degli adulti non battezzati, deve ispirare le altre forme di catechesi» [58].

Il catecumenato ci viene così consegnato come il modello che la Chiesa ha recentemente assunto per dare forma ai suoi processi di trasmissione della fede. Rilanciato dal Concilio Vaticano II [59], il catecumenato è stato assunto in tanti progetti di riorganizzazione e rilancio della catechesi, come modello paradigmatico di strutturazione di questo compito evangelizzatore. Così il Direttorio Generale per la Catechesi ne sintetizza gli elementi portanti, lasciando intuire i motivi per cui tante Chiese locali si sono ispirate a questo paradigma per riorganizzare le proprie pratiche di annuncio e di generazione alla fede, dando addirittura origine ad un nuovo modello, il “catecumenato post-battesimale” [60]: ricorda costantemente a tutta la Chiesa la funzione dell’iniziazione alla fede. Richiama la responsabilità di tutta la comunità cristiana. Mette al centro di tutto l’itinerario il mistero della Pasqua di Cristo. Fa dell’inculturazione il principio del proprio funzionamento pedagogico; è immaginato come un vero e proprio processo formativo [61].

15. Le Chiese locali soggetti della trasmissione

Il soggetto della trasmissione della fede è la Chiesa tutta intera, che si manifesta nelle Chiese locali. L’annuncio, la trasmissione e l’esperienza vissuta del Vangelo si realizzano in esse. Più ancora, le stesse Chiese locali, oltre che soggetto, sono anche il frutto di questa azione di annuncio del Vangelo e di trasmissione della fede, come ci ricorda l’esperienza delle prime comunità cristiane (cf. At 2, 42-47): lo Spirito raccoglie i credenti attorno alle comunità che vivono in modo fervente la loro fede, nutrendosi dell’ascolto della parola degli Apostoli e dell’Eucaristia, e spendendo la loro vita nell’annuncio del Regno di Dio. Il Concilio Vaticano II fissa questa descrizione come fondamento dell’identità di ogni comunità cristiana, quando afferma che «la Chiesa di Cristo è veramente presente in tutte le legittime assemblee locali di fedeli, che, aderendo ai loro pastori, sono anch’esse chiamate Chiese nel Nuovo Testamento. Esse infatti sono in un dato luogo il popolo nuovo chiamato da Dio, in Spirito Santo e piena sicurezza (cf. 1 Ts 1, 5). In esse la predicazione del Vangelo di Cristo raduna i fedeli, e vi si celebra il mistero della cena del Signore, “affinché per mezzo della carne e del sangue del Signore si rinsaldi l’intera fraternità del corpo”» [62].

La vita concreta della nostre Chiese ha potuto avere la fortuna di vedere nel campo della trasmissione della fede e più generalmente dell’annuncio una realizzazione concreta e spesso esemplare di questa affermazione del Concilio. Il numero dei cristiani che negli ultimi decenni si sono impegnati in modo spontaneo e gratuito nell’annuncio e nella trasmissione della fede è stato davvero notevole e ha segnato la vita delle nostre Chiese locali come un vero dono dello Spirito fatto alle nostre comunità cristiane. Le azioni pastorali legate alla trasmissione della fede sono diventate un luogo che ha permesso alla Chiesa di strutturarsi dentro i vari contesti sociali locali, mostrando la ricchezza e la varietà dei ruoli e dei ministeri che la compongono e ne animano la vita quotidiana. Attorno al Vescovo si sono visti fiorire il ruolo dei presbiteri, dei genitori, dei religiosi, dei catechisti, delle comunità, ognuno con il proprio compito e la propria competenza [63].

Accanto ai doni e agli aspetti positivi occorre tuttavia registrare anche le sfide che la novità della situazione e le evoluzioni che la contraddistinguono pone a parecchie Chiese locali: la scarsità della presenza numerica dei presbiteri rende il risultato della loro azione meno incisivo di quanto si vorrebbe. Lo stato di affaticamento e di logoramento vissuto da tante famiglie indebolisce il ruolo dei genitori. Il livello troppo debole di condivisione rende l’influsso della comunità cristiana evanescente. Il rischio è che un’azione così importante e fondamentale veda cadere il peso della sua esecuzione sulla figura dei soli catechisti, schiacciati dal peso del compito loro affidato e dalla solitudine in cui si trovano nel realizzarlo.

Come già richiamato nel primo punto, il clima culturale e la situazione di affaticamento in cui si trovano parecchie comunità cristiane rischiano di rendere debole la capacità di annuncio, di trasmissione e di educazione alla fede delle nostre Chiese locali. La domanda dell’apostolo Paolo – «come crederanno […] senza qualcuno che lo annunci?» (Rm 10, 14) – suona ai nostri giorni molto concreta. In una situazione simile vanno riconosciute come un dono dello Spirito la freschezza e le energie che la presenza di gruppi e movimenti ecclesiali è riuscita a infondere in questo compito di trasmissione della fede. Allo stesso tempo si è chiamati a lavorare perché questi frutti possano contagiare e comunicare il loro slancio a quelle forme di catechesi e di trasmissione della fede che hanno perso l’ardore originario.

16. Rendere ragione: lo stile della proclamazione

Il contesto in cui ci troviamo chiede perciò alle Chiese locali uno slancio nuovo, un nuovo atto di fiducia nello Spirito che le guida, perché tornino ad assumere con gioia e fervore il compito fondamentale per il quale Gesù invia i suoi discepoli: l’annuncio del Vangelo (cf. Mc 16, 15), la predicazione del Regno (cf. Mc 3, 15). Occorre che ogni cristiano si senta interpellato da questo comando di Gesù, si lasci guidare dallo Spirito nel rispondere ad esso, secondo la propria vocazione. In un momento in cui la scelta della fede e della sequela di Cristo risulta meno facile e poco comprensibile, se non addirittura contrastata e avversata, aumenta il compito della comunità e dei singoli cristiani di essere testimoni e araldi del Vangelo, come ha fatto Gesù Cristo.

La logica di un simile comportamento ce la suggerisce l’apostolo Pietro, quando ci invita all’apologia, a rendere ragione, a «rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1 Pt 3, 15). Una nuova stagione per la testimonianza della nostra fede, nuove forme di risposta (apo-logia) a chi ci chiede il logos, la ragione della nostra fede, sono le strade che lo Spirito indica alle nostre comunità cristiane: per rinnovare noi stessi, per rendere presente con maggiore incisività nel mondo in cui viviamo la speranza e la salvezza donataci da Gesù Cristo. Si tratta come cristiani di imparare un nuovo stile, di rispondere «con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza» (1 Pt 3, 16), con quella forza mite che viene dall’unione con Cristo nello Spirito e con quella determinazione di chi sa di avere come meta l’incontro con Dio Padre, nel suo Regno [64].

Questo stile deve essere uno stile globale, che abbraccia il pensiero e l’azione, i comportamenti personali e la testimonianza pubblica, la vita interna delle nostre comunità e il loro slancio missionario, la loro attenzione educativa e la loro dedizione premurosa ai poveri, la capacità di ogni cristiano di prendere la parola dentro i contesti in cui vive e lavora per comunicare il dono cristiano della speranza. Questo stile deve fare suo l’ardore, la fiducia e la libertà di parola (la parresia) che si manifestavano nella predicazione degli Apostoli (cf. At 4, 31; 9, 27-28) e che il re Agrippa sperimentò ascoltando Paolo: «Ancora un poco e mi convinci a farmi cristiano!» (At 26, 28).

In un tempo in cui tante persone vivono la loro vita come una esperienza vera e propria di «deserto dell’oscurità di Dio, dello svuotamento delle anime senza più coscienza della dignità e del cammino dell’uomo», Papa Benedetto XVI ci ricorda che «la Chiesa nel suo insieme, ed i Pastori in essa, come Cristo devono mettersi in cammino, per condurre gli uomini fuori dal deserto, verso il luogo della vita, verso l’amicizia con il Figlio di Dio, verso Colui che ci dona la vita, la vita in pienezza» [65].

È questo lo stile che il mondo ha diritto di trovare nella Chiesa, nelle comunità cristiane, secondo la logica della nostra fede [66]. Uno stile comunitario e personale; uno stile che interpella alla verifica le comunità nel loro insieme ma anche ogni singolo battezzato, come ci ricorda Papa Paolo VI: «accanto alla proclamazione fatta in forma generale del Vangelo, l’altra forma della sua trasmissione, da persona a persona, resta valida ed importante. [...] Non dovrebbe accadere che l’urgenza di annunziare la buona novella a masse di uomini facesse dimenticare questa forma di annuncio mediante la quale la coscienza personale di un uomo è raggiunta, toccata da una parola del tutto straordinaria che egli riceve da un altro» [67].

17. I frutti della trasmissione della fede

Il fine di tutto il processo di trasmissione della fede è l’edificazione della Chiesa come comunità dei testimoni del Vangelo. Afferma Papa Paolo VI: «Comunità di credenti, comunità di speranza vissuta e partecipata, comunità d’amore fraterno, essa ha bisogno di ascoltare di continuo ciò che deve credere, le ragioni della sua speranza, il comandamento nuovo dell’amore. Popolo di Dio immerso nel mondo, e spesso tentato dagli idoli, essa ha sempre bisogno di sentir proclamare “le grandi opere di Dio”, che l’hanno convertita al Signore, e d’essere nuovamente convocata e riunita da lui. Ciò vuol dire, in una parola, che essa ha sempre bisogno d’essere evangelizzata, se vuol conservare freschezza, slancio e forza per annunziare il Vangelo» [68].

I frutti che questo ininterrotto processo di evangelizzazione genera dentro la Chiesa come segno della forza vivificante del Vangelo prendono forma nel confronto con le sfide del nostro tempo. C’è bisogno di generare famiglie segno vero e reale di amore e di condivisione, capaci di speranza perché aperte alla vita; occorre la forza di costruire comunità dotate di vero spirito ecumenico e capaci di un dialogo con le altre religioni; urge il coraggio di sostenere iniziative di giustizia sociale e solidarietà, che mettono al centro dell’interesse della Chiesa il povero; si auspica la gioia nel donare la propria vita in un progetto vocazionale o di consacrazione. Una Chiesa che trasmette la sua fede, una Chiesa della “nuova evangelizzazione” è capace in tutti questi ambiti di mostrare lo Spirito che la guida e che trasfigura la storia: la storia della Chiesa, dei cristiani, degli uomini e delle loro culture.

Fa parte di questa logica del riconoscimento dei frutti anche il coraggio di denunciare le infedeltà e gli scandali che emergono nelle comunità cristiane, come segno e conseguenza di momenti di fatica e stanchezza in questo compito di annuncio. Il coraggio di riconoscere le colpe; la capacità di continuare a testimoniare Gesù Cristo mentre raccontiamo il nostro continuo bisogno di essere salvati, sapendo che – come ci insegna l’apostolo Paolo – possiamo guardare le nostre debolezze perché in questo modo riconosciamo la potenza di Cristo che ci salva (cf. 2 Cor 12, 9; Rm 7, 14s); l’esercizio della penitenza, l’impegno in cammini di purificazione e la volontà di riparare le conseguenze dei nostri errori; una solida fiducia che la speranza che ci è stata donata «non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5, 5) sono anch’essi frutto di una trasmissione della fede, di un annuncio del Vangelo che in primo luogo non smette di rinnovare i cristiani, le loro comunità, mentre porta al mondo il Vangelo di Gesù Cristo.

Domande

Fare esperienza di Cristo è il fine della trasmissione della fede da condividere con i vicini e i lontani. Essa ci sprona alla missione.

1. Quanto le nostre comunità cristiane riescono a proporre luoghi ecclesiali che siano strumento di esperienza spirituale?

2. Quanto i nostri cammini di fede hanno come obiettivo non la sola adesione intellettuale alla verità cristiana, ma riescono a far vivere esperienze reali di incontro e di comunione, di “abitazione” nel mistero di Cristo?

3. In che modo le singole Chiese hanno trovato soluzioni e risposte alla domanda di esperienza spirituale che attraversa anche le giovani generazioni di oggi?

La Parola e l’Eucaristia sono i veicoli principali, gli strumenti privilegiati per vivere la fede cristiana come esperienza spirituale.

4. In che modo le due precedenti Assemblee del Sinodo dei Vescovi hanno aiutato le comunità cristiane ad aumentare la qualità dell’ascolto della Parola nelle nostre Chiese? In che modo hanno aiutato ad aumentare la qualità delle nostre celebrazioni eucaristiche?

5. Quali sono gli elementi meglio recepiti? Quali riflessioni e quali suggerimenti attendono ancora una ricezione?

6. Quanto i gruppi di ascolto e di confronto sulla Parola di Dio stanno diventando strumento comune di vita cristiana per le nostre comunità? In che modo le nostre comunità esprimono la centralità dell’Eucaristia (celebrata, adorata), e a partire da essi strutturano le loro azioni e la loro vita?

Dopo decenni di forte effervescenza il campo della catechesi mostra segni di fatica e di stanchezza, anzitutto a livello dei soggetti chiamati a sostenere e ad animare questa azione ecclesiale.

7. Qual è l’esperienza concreta delle nostre Chiese?

8. Come si è cercato di dare riconoscimento e solidità all’interno delle comunità cristiane alla figura del catechista? Come si è cercato di dare concretezza ed efficacia al riconoscimento di un ruolo attivo anche ad altri soggetti nel compito di trasmissione della fede (genitori, padrini, la comunità cristiana)?

9. Quali iniziative sono state pensate a sostegno dei genitori, per incoraggiarli in un compito (la trasmissione, e di conseguenza la trasmissione della fede) che la cultura riconosce sempre meno come loro affidato?

Negli ultimi decenni, rispondendo anche ad una richiesta del Concilio Vaticano II, parecchie Conferenze Episcopali si sono impegnate in percorsi di riprogettazione degli itinerari e dei testi di catechesi.

10. Qual è la situazione di questi progetti?

11. Quali effetti benefici hanno prodotto nel processo di trasmissione della fede? Con quali fatiche e con quali ostacoli si sono dovuti misurare?

12. La pubblicazione del Catechismo della Chiesa Cattolica quali strumenti ha fornito, in questo percorso di riprogettazione?

13. Come le singole comunità cristiane (le parrocchie) e i vari gruppi e movimenti lavorano per garantire nei fatti una catechesi il più possibile ecclesiale e progettata in modo concordato e condiviso con gli altri soggetti ecclesiali?

14. A seguito dei forti mutamenti culturali in atto, quali sono le istanze pedagogiche di fronte alle quali l’azione catechistica delle nostre Chiese si sente più sguarnita e scoperta?

15. Quanto lo strumento del catecumenato è stato assunto come modello a partire dal quale costruire il progetto di catechesi e di educazione alla fede nelle comunità cristiane?

La situazione epocale chiede alla Chiesa un rinnovato stile evangelizzatore, una nuova disponibilità a rendere ragione della nostra fede e della speranza che è in noi.

16. Quanto le Chiese locali sono riuscite a diffondere questa nuova esigenza nelle comunità cristiane? Quali i risultati? Quali le fatiche e le resistenze?

17. L’urgenza di un nuovo annuncio missionario è diventata una componente abituale delle azioni pastorali delle comunità? È passata la convinzione che la missione ormai la si vive anche nelle nostre comunità cristiane locali, nei nostri contesti normali di vita?

18. Quali altri soggetti, oltre alle comunità, animano il tessuto sociale portandovi l’annuncio del Vangelo? Con quali azioni e metodi? Con quali risultati?

19. In che modo i singoli battezzati hanno maturato la consapevolezza di essere chiamati in prima persona a questo annuncio? Quali esperienze si possono raccontare al riguardo?

L’annuncio e la trasmissione della fede generano come frutto la comunità cristiana.

20. Quali sono i frutti principali che la trasmissione della fede ha generato nelle vostre Chiese?

21. Quanto le singole comunità cristiane sono preparate a riconoscere questi frutti, a sostenerli e a nutrirli? Di quali frutti si sente maggiormente la mancanza?

22. Quali resistenze, quali fatiche e anche quali scandali ostacolano questo annuncio? Come le comunità hanno saputo vivere questi momenti traendo da essi lo spunto per un rilancio spirituale e missionario?


Terzo capitolo
Iniziare all’esperienza cristiana
«Fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28, 19-20)

18. L’iniziazione cristiana, processo evangelizzatore

La riflessione sulla trasmissione della fede che abbiamo appena presentato, insieme ai mutamenti sociali e culturali che si pongono di fronte al cristianesimo di oggi come una sfida, hanno dato avvio dentro la Chiesa ad un diffuso processo di riflessione e di revisione dei percorsi di introduzione alla fede e di accesso ai sacramenti. Le affermazioni del Concilio Vaticano II [69], che quando furono scritte suonavano per tante comunità cristiane come degli auspici, oggi invece sono divenute realtà in numerose Chiese locali. È possibile fare esperienza di tanti elementi lì elencati, cominciando proprio dalla consapevolezza ormai maturata dappertutto del legame intrinseco che unisce i sacramenti della iniziazione cristiana. Battesimo, Cresima ed Eucaristia vengono visti non più come tre sacramenti separati, ma come le tappe di un cammino di generazione alla vita cristiana adulta, all’interno di un percorso organico di iniziazione alla fede. L’iniziazione cristiana è ormai un concetto e uno strumento pastorale conosciuto e ben radicato nelle Chiese locali.

In questo processo, le Chiese locali che vantano una tradizione secolare di iniziazione alla fede devono molto alle Chiese più giovani. Insieme si è imparato ad assumere come modello del cammino di iniziazione alla fede l’adulto e non più il bambino [70]. Si è riusciti a ridare importanza al sacramento del battesimo, assumendo la struttura del catecumenato antico come un esempio per organizzare dei dispositivi pastorali che nei nostri contesti culturali consentano una celebrazione più consapevole, maggiormente preparata e più capace di garantire la partecipazione futura dei nuovi battezzati alla vita cristiana. Molte comunità cristiane hanno avviato revisioni significative delle loro pratiche battesimali, rivedendo i modi di coinvolgimento dei genitori, nel caso del battesimo dei bambini, ed esplicitando il momento di evangelizzazione, di annuncio esplicito della fede. Hanno cercato di strutturare celebrazioni del sacramento del battesimo che diano maggiore spazio al coinvolgimento della comunità e mostrino in modo più visibile il sostegno dato ai genitori in un compito, come quello della educazione cristiana, che si fa sempre più arduo. Ascoltando l’esperienza delle Chiese Cattoliche Orientali, si è fatto ricorso alla mistagogia, per immaginare percorsi di iniziazione che non si arrestino alla soglia della celebrazione sacramentale, ma continuino la loro azione formatrice anche dopo, per ricordare in modo esplicito che l’obiettivo è quello di educare ad una fede cristiana adulta [71].

Il confronto avviato ha acceso una riflessione teologica e pastorale, che tenendo conto delle peculiarità dei diversi riti, aiuti la Chiesa a trovare una ristrutturazione condivisa delle proprie pratiche di introduzione e di educazione alla fede. Emblematica al riguardo è la questione dell’ordine dei Sacramenti dell’iniziazione. Nella Chiesa vi sono tradizioni differenti. Tale diversità si manifesta con evidenza nelle consuetudini ecclesiali dell’Oriente, e nella stessa prassi occidentale per quanto concerne l’iniziazione degli adulti, rispetto a quella dei bambini. Tale diversità trova una accentuazione ulteriore nel modo con cui viene vissuto e celebrato il sacramento della Confermazione.

Certamente si può affermare che dal modo con cui la Chiesa in Occidente saprà gestire questa revisione delle sue pratiche battesimali dipenderà il volto futuro del cristianesimo nel suo mondo e la capacità della fede cristiana di parlare alla sua cultura. Non tutto, però, in questo processo di revisione, ha funzionato sempre in termini positivi. Ci sono stati fraintendimenti, ovvero volontà di interpretare le trasformazioni richieste come l’occasione per introdurre delle logiche di rottura: le nuove pratiche pastorali venivano lette e comprese alla luce di una ermeneutica della frattura creatrice, che vedeva nel nuovo che nasceva la possibilità di dare un giudizio sul passato recente della Chiesa e allo stesso tempo la possibilità di instaurare forme sociali inedite per dire e per vivere il cristianesimo oggi. In questi termini è stata presentata qualche volta come una necessità inderogabile l’abbandono della pratica del battesimo dei bambini. In modo simmetrico, un serio ostacolo alla revisione in atto è venuto dai comportamenti inerziali mantenuti da alcune comunità cristiane, nella convinzione che la semplice ripetizione di azioni stereotipate fosse garanzia di bontà e di successo per l’azione ecclesiale.

Il processo di revisione consegna alla Chiesa alcuni luoghi ed alcuni problemi come vere e proprie sfide, che pongono le comunità cristiane di fronte all’obbligo di discernere e poi adottare nuovi stili di azione pastorale. È certamente una sfida per la Chiesa trovare in questo momento una collocazione condivisa al sacramento della Confermazione. La richiesta è stata avanzata anche durante l’Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi sull’Eucaristia, e ripresa da Papa Benedetto XVI nella successiva esortazione postsinodale [72]. Le Conferenze Episcopali hanno adottato nel recente passato scelte differenti al riguardo, motivate dalle diverse prospettive da cui veniva letta la problematica (pedagogica, sacramentale, ecclesiale). Così pure si presenta come una sfida alla Chiesa la capacità di ridare contenuto ed energia a quella dimensione mistagogica dei percorsi di iniziazione, senza la quale quegli stessi itinerari risulterebbero privi di un ingrediente essenziale del processo di generazione alla fede. Si presenta come una sfida ulteriore, infine, la necessità di non delegare ad eventuali percorsi scolastici di educazione religiosa il compito che è proprio della Chiesa di annunciare il Vangelo e di generare alla fede, anche nei confronti dei ragazzi e degli adolescenti. Le pratiche in questo settore sono molto differenziate, di nazione in nazione, e non consentono l’elaborazione di risposte uniche o uniformi. Ma l’istanza rimane valida per ogni Chiesa locale.

Come si può intuire, il campo dell’iniziazione è davvero un ingrediente essenziale del compito di evangelizzare. La “nuova evangelizzazione” ha molto da dire su di esso: occorre infatti che la Chiesa continui in modo forte e determinato quegli esercizi di discernimento già in atto, e allo stesso tempo trovi energie per rimotivare quei soggetti e quelle comunità che mostrano segni di stanchezza e di rassegnazione. Il volto futuro delle nostre comunità dipende molto dalle energie investite in questa azione pastorale e dalle iniziative concrete proposte ed attuate per un suo ripensamento e rilancio.

19. Primo annuncio come esigenza di forme nuove del discorso su Dio

Il processo di revisione dei percorsi di iniziazione alla fede ha dato ulteriore risalto ad una sfida decisamente presente nella situazione attuale: la fatica sempre maggiore con cui gli uomini e le donne di oggi sentono parlare di Dio, intercettano luoghi ed esperienze che li aprono ad un simile discorso. Si tratta di una difficoltà con cui la Chiesa si sta misurando da tempo, e che quindi non soltanto è stata denunciata, ma ha conosciuto già alcuni strumenti di risposta. Già Papa Paolo VI, prendendo atto di questa sfida, ha posto la Chiesa di fronte all’urgenza di trovare nuove strade per la proposta della fede cristiana [73]. È nato così lo strumento del “primo annuncio” [74], inteso come strumento di proposta esplicita, meglio ancora di proclamazione, del contenuto fondamentale della nostra fede.

Assunto a pieno titolo nel lavoro di riprogettazione in atto degli itinerari di introduzione alla fede, il primo annuncio si dirige ai non credenti, a quelli che, di fatto, vivono nell’indifferenza religiosa. Esso ha la funzione di annunciare il Vangelo e la conversione, in genere, a coloro che tuttora non conoscono Gesù Cristo. La catechesi, distinta dal primo annuncio del Vangelo, promuove e fa maturare questa conversione iniziale, educando alla fede il convertito e incorporandolo nella comunità cristiana. La relazione tra queste due forme del ministero della Parola non è però sempre facile da fare, e non necessariamente deve essere affermata in modo netto. Si tratta di una duplice attenzione che spesso si trova coniugata nella medesima azione pastorale. Capita frequentemente, infatti, che le persone che accedono alla catechesi necessitano di vivere ancora una vera conversione. Perciò, sarà utile porre maggiore attenzione, nei percorsi di catechesi e di educazione alla fede, all’annuncio del Vangelo che chiama a questa conversione, che la provoca e la sostiene. È questo il modo con cui la nuova evangelizzazione stimola gli itinerari abituali di educazione alla fede, accentuando il loro carattere kerigmatico, di annuncio [75].

Una prima risposta diretta alla sfida lanciata, dunque, è stata elaborata. Ma, al di là della risposta diretta, il discernimento che stiamo compiendo ci chiede di soffermarci a comprendere ancora più in profondità le ragioni di una simile estraniazione del discorso su Dio dalla nostra cultura. Si tratta di verificare quanto una simile situazione non abbia interessato le stesse comunità cristiane [76], anzitutto. Occorre soprattutto per ricercare le forme e gli strumenti per elaborare discorsi su Dio che sappiano intercettare le attese e le ansie degli uomini di oggi, mostrando loro come la novità che è Cristo sia il dono che tutti attendiamo, a cui ogni uomo anela come al compimento inespresso della sua ricerca di senso e della sua sete di verità. L’oblio del discorso su Dio si trasformerà così in un’occasione di annuncio missionario. La vita quotidiana ci saprà suggerire dove identificare quei “cortili dei gentili” [77] entro i quali le nostre parole diventano non soltanto udibili ma anche significative e medicinali per l’umanità. Il compito della “nuova evangelizzazione” è condurre sia i cristiani praticanti che coloro che si pongono domande su Dio e lo cercano a percepire la sua chiamata personale nella loro coscienza. La nuova evangelizzazione è un invito alle comunità cristiane perché pongano maggiormente la loro fiducia nello Spirito che le guida dentro la storia. Saranno così capaci di vincere le paure che provano, e riusciranno a vedere con maggiore lucidità i luoghi e i sentieri attraverso i quali porre la questione di Dio al centro della vita degli uomini di oggi.

20. Iniziare alla fede, educare alla verità

La necessità di un discorso su Dio porta come conseguenza la possibilità e la necessità di un analogo discorso sull’uomo. L’evangelizzazione lo esige di suo, come legame diretto. Esiste un vincolo forte tra iniziazione alla fede ed educazione. Lo affermava il Concilio Vaticano II [78]. Ha rilanciato di recente questa convinzione Papa Benedetto XVI: «Alcuni pongono oggi in questione l’impegno della Chiesa nell’educazione, chiedendosi se le sue risorse non potrebbero essere meglio impiegate altrove. […] La missione, primaria nella Chiesa, di evangelizzare, nella quale le istituzioni educative giocano un ruolo cruciale, è in consonanza con l’aspirazione fondamentale della nazione di sviluppare una società veramente degna della dignità della persona umana. A volte, tuttavia, il valore del contributo della Chiesa al forum pubblico è posto in questione. È perciò importante ricordare che la verità della fede e quella della ragione non si contraddicono mai tra loro» [79]. La Chiesa con la verità rivelata purifica la ragione e l’aiuta a riconoscere le verità ultime come fondamento della moralità e dell’etica umana. La Chiesa per sua propria indole sostiene le categorie morali essenziali, mantenendo viva nell’umanità la speranza.

Le parole di Papa Benedetto XVI elencano i motivi per cui è naturale che l’evangelizzazione e l’iniziazione alla fede siano accompagnate da un’azione educativa che la Chiesa svolge come servizio al mondo. Questo compito, oggi siamo chiamati a realizzarlo in un momento e in contesto culturale in cui ogni forma di azione educativa appare più difficoltosa e critica, al punto tale che lo stesso Papa parla di “emergenza educativa” [80].

Con il termine di “emergenza educativa” il Papa intende alludere alle difficoltà sempre maggiori che oggi incontra non soltanto l’azione educativa cristiana, ma più in generale ogni azione educativa. Si fa sempre più fatica a trasmettere alle nuove generazioni i valori-base dell’esistenza e di un retto comportamento. E questa fatica la vivono i genitori, che vedono ridotta sempre di più la loro capacità di influsso nel processo educativo, ma anche le agenzie educative deputate a questo compito, a partire dalla scuola.

Una simile deriva era in parte prevedibile: in una società e in una cultura che troppo spesso fanno del relativismo il proprio credo, viene a mancare la luce della verità. Si considera troppo impegnativo parlare di verità, lo si considera “autoritario”, e si finisce per dubitare della bontà della vita – è bene essere uomo? è bene vivere? – e della validità dei rapporti e degli impegni che costituiscono la vita. In un simile contesto come sarebbe possibile proporre ai più giovani e trasmettere di generazione in generazione qualcosa di valido e di certo, delle regole di vita, un autentico significato e convincenti obiettivi per l’esistenza umana, sia come persone sia come comunità? Perciò l’educazione tende ampiamente a ridursi alla trasmissione di determinate abilità, o capacità di fare, mentre si cerca di appagare il desiderio di felicità delle nuove generazioni colmandole di oggetti di consumo e di gratificazioni effimere. Così sia i genitori sia gli insegnanti sono facilmente tentati di abdicare ai propri compiti educativi e di non comprendere nemmeno più quale sia il loro ruolo, la missione loro affidata.

E qui sta l’emergenza educativa: non siamo più capaci di offrire ai giovani, alle nuove generazioni, quanto è nostro compito trasmettere loro. Noi siamo debitori nei loro confronti anche dei veri valori che danno fondamento alla vita. Finisce così disatteso e dimenticato lo scopo essenziale dell’educazione, che è la formazione della persona per renderla capace di vivere in pienezza e di dare il proprio contributo al bene della comunità. Cresce perciò, da più parti, la domanda di un’educazione autentica e la riscoperta del bisogno di educatori che siano davvero tali. Una simile richiesta vede accomunati genitori (preoccupati e spesso angosciati per il futuro dei propri figli), insegnanti (che vivono la triste esperienza del degrado della scuola), la stessa società, che vede minate le basi stesse della convivenza.

In un simile contesto l’impegno della Chiesa per educare alla fede, alla sequela e alla testimonianza del Signore assume più che mai anche il valore di un contributo per far uscire la società in cui viviamo dalla crisi educativa che la affligge, mettendo un argine alla sfiducia e a quello strano “odio di sé”, a quelle forme di autodenigrazione che sembrano essere diventate una caratteristica di alcune nostre culture. Un simile impegno può fornire ai cristiani la giusta occasione per abitare lo spazio pubblico delle nostre società riproponendo dentro questo spazio la questione su Dio, e portando come dono la propria tradizione educativa, il frutto che le comunità cristiane, guidate dallo Spirito, hanno saputo produrre in questo campo.

La Chiesa possiede al riguardo una tradizione, ovvero un capitale storico di risorse pedagogiche, riflessione e ricerca, istituzioni, persone – consacrate e non, raccolte in ordini religiosi, in congregazioni – in grado di offrire una presenza significativa nel mondo della scuola e dell’educazione. Per di più, interessato dalle trasformazioni sociali e culturali in atto, questo capitale sta conoscendo anch’esso mutamenti significativi. Sarà utile perciò immaginare anche un discernimento in questo settore, per individuare i punti critici che i mutamenti stanno generando. Si dovranno riconoscere le energie di futuro, le sfide che necessitano di un’istruzione adeguata, sapendo che compito fondamentale della Chiesa è educare alla fede, alla sequela e alla testimonianza, aiutando ad entrare in un rapporto vivo con Cristo e con il Padre.

21. L’obiettivo di una “ecologia della persona umana”

L’obiettivo di tutto questo impegno educativo della Chiesa è facilmente identificabile. Si tratta di lavorare alla costruzione di quella che Papa Benedetto XVI definisce una “ecologia della persona umana”. «È necessario che ci sia qualcosa come un’ecologia dell’uomo, intesa in senso giusto. […] Il problema decisivo è la complessiva tenuta morale della società. Se non si rispetta il diritto alla vita e alla morte naturale, se si rende artificiale il concepimento, la gestazione e la nascita dell’uomo, se si sacrificano embrioni umani alla ricerca, la coscienza comune finisce per perdere il concetto di ecologia umana e, con esso, quello di ecologia ambientale. È una contraddizione chiedere alle nuove generazioni il rispetto dell’ambiente naturale, quando l’educazione e le leggi non le aiutano a rispettare se stesse. Il libro della natura è uno e indivisibile, sul versante dell’ambiente come sul versante della vita, della sessualità, del matrimonio, della famiglia, delle relazioni sociali, in una parola dello sviluppo umano integrale. I doveri che abbiamo verso l’ambiente si collegano con i doveri che abbiamo verso la persona considerata in se stessa e in relazione con gli altri. Non si possono esigere gli uni e conculcare gli altri. Questa è una grave antinomia della mentalità e della prassi odierna, che avvilisce la persona, sconvolge l’ambiente e danneggia la società» [81].

La fede cristiana sostiene l’intelligenza nella comprensione dell’equilibrio profondo che regge la struttura dell’esistenza e della sua storia. Svolge questa operazione non in modo generico o dall’esterno, ma condividendo con la ragione la sete di sapere, la sete di ricerca, orientandola verso il bene dell’uomo e del cosmo. La fede cristiana contribuisce alla comprensione del contenuto profondo delle esperienze fondamentali dell’uomo, come il testo appena citato ci mostra. È un compito – quello di questo confronto critico e di indirizzo – che il cattolicesimo svolge da tempo. Per esso si è sempre meglio attrezzato, dando vita ad istituzioni, centri di ricerca, università, frutto della intuizione e del carisma di alcuni o della premura educativa delle Chiese locali. Questi istituti svolgono la loro funzione abitando lo spazio comune della ricerca e dello sviluppo della conoscenza nelle diverse culture e società. I mutamenti sociali e culturali che abbiamo presentato pongono domande e generano sfide a queste istituzioni. Il discernimento che sta alla base della “nuova evangelizzazione” è chiamato ad occuparsi di questo impegno culturale ed educativo della Chiesa. Si potranno così individuare i punti critici di queste sfide, le energie e le strategie da adottare per garantire il futuro non soltanto della Chiesa ma dell’uomo e dell’umanità.

Immaginare tutti questi spazi culturali come altrettanti “cortili dei gentili”, aiutandoli a vivere la loro vocazione originaria dentro i nuovi scenari che avanzano, quella cioè di portare positivamente la questione su Dio e l’esperienza della fede cristiana dentro le questioni del tempo; aiutare questi spazi ad essere luoghi in cui formare delle persone libere e adulte, capaci a loro volta di portare la questione di Dio dentro la loro vita, nel lavoro, nella famiglia, sono sicuramente degli impegni da “nuova evangelizzazione”.

22. Evangelizzatori ed educatori perché testimoni

Il contesto di emergenza educativa in cui ci troviamo dà ancora più forza alle parole di Papa Paolo VI: «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni. […] È dunque mediante la sua condotta, mediante la sua vita, che la Chiesa evangelizzerà innanzitutto il mondo, vale a dire mediante la sua testimonianza vissuta di fedeltà al Signore Gesù, di povertà e di distacco, di libertà di fronte ai poteri di questo mondo, in una parola, di santità» [82]. Qualsiasi progetto di “nuova evangelizzazione”, qualsiasi progetto di annuncio e di trasmissione della fede non può prescindere da questa necessità: avere uomini e donne che con la loro condotta di vita danno forza all’impegno evangelizzatore che vivono. È proprio questa loro esemplarità il valore aggiunto che conferma la verità della loro dedizione, del contenuto di quanto insegnano e di ciò che chiedono di vivere. L’attuale emergenza educativa fa crescere la domanda di educatori che sappiano essere testimoni credibili di quelle realtà e di quei valori sui quali è possibile fondare sia l’esistenza personale di ogni uomo, sia i progetti condivisi del vivere sociale. Al riguardo abbiamo eccellenti esempi. Basti ricordare san Paolo, san Patrizio, san Bonifacio, san Francesco Saverio, i santi Cirillo e Metodio, san Turibio da Mongrovejo, san Damiano de Veuster, la Beata Madre Teresa di Calcutta.

Questa richiesta si trasforma per la Chiesa di oggi in un compito di sostegno e di formazione delle tante persone che da tempo si impegnano in questi compiti di evangelizzazione e di educazione (vescovi, presbiteri, catechisti, educatori, insegnanti, genitori); delle comunità cristiane, chiamate a dare maggiore riconoscimento e ad investire maggiori risorse in questo compito essenziale per il futuro della Chiesa e dell’umanità. Occorre affermare con chiarezza l’essenzialità di questo ministero di evangelizzazione, di annuncio e di trasmissione, dentro le nostre Chiese. Occorre che le singole comunità rivedano le priorità delle loro azioni, per concentrare energie e forze in questo impegno comune di “nuova evangelizzazione”.

Perché la fede sia sostenuta e nutrita ha bisogno inizialmente di quell’ambito originario che è la famiglia, primo luogo dell’educazione alla preghiera [83]. Nello spazio familiare può avvenire l’educazione alla fede essenzialmente nella forma di educazione alla preghiera del bambino. Pregare insieme al bambino serve ai genitori per abituarlo a riconoscere la presenza amante del Signore, permettendo loro ridiventare testimoni autorevoli presso il bambino stesso.

La formazione e la cura con cui dovranno non soltanto sostenere gli evangelizzatori già in funzione, ma fare appello anche a nuove forze, non si ridurrà ad una mera preparazione tecnica, pur necessaria. Sarà anzitutto una formazione spirituale, una scuola della fede alla luce del Vangelo di Gesù Cristo, sotto la guida dello Spirito, per vivere l’esperienza della paternità di Dio. Può evangelizzare solo chi a sua volta si è lasciato e si lascia evangelizzare, chi è capace di lasciarsi rinnovare spiritualmente dall’incontro e dalla comunione vissuta con Gesù Cristo. Può trasmettere la fede, come ci testimonia l’apostolo Paolo: «Ho creduto, perciò ho parlato» (2 Cor 4, 13).

Perciò la nuova evangelizzazione è soprattutto un compito e una sfida spirituale. È un compito di cristiani che perseguono la santità. In questo contesto e con questo modo di intendere la formazione sarà utile dedicare spazio e tempo ad un confronto sulle istituzioni e gli strumenti di cui le Chiese locali dispongono per rendere i battezzati consapevoli del loro impegno missionario ed evangelizzatore. Di fronte agli scenari della nuova evangelizzazione, i testimoni per essere credibili devono saper parlare i linguaggi del loro tempo, annunciando così dal di dentro le ragioni della speranza che li anima (cf. 1 Pt 3, 15). Un simile compito non può essere immaginato in modo spontaneo, richiede attenzione, educazione e cura.


Domande

Il progetto della nuova evangelizzazione si propone come un esercizio di verifica di tutti i luoghi e le azioni di cui la Chiesa dispone per annunciare al mondo il Vangelo.

1. Lo strumento del “primo annuncio” è conosciuto e diffuso nelle comunità cristiane?

2. Le comunità cristiane costruiscono azioni pastorali che hanno come obiettivo la proposta specifica dell’adesione al Vangelo, della conversione al cristianesimo?

3. Più in generale, come le singole comunità cristiane si misurano con l’esigenza di elaborare forme nuove per un discorso su Dio dentro la società e anche dentro le nostre stesse comunità? Quali esperienze significative è utile condividere con le altre Chiese?

4. Il progetto del “cortile dei gentili” come è stato assunto e sviluppato nelle diverse Chiese locali?

5. A quale livello di priorità è stato assunto dalle singole comunità cristiane l’impegno di osare vie nuove di evangelizzazione? Quali sono le iniziative più riuscite di apertura missionaria delle comunità cristiane?

6. Quali esperienze, quali istituzioni, quali nuove aggregazioni o gruppi sono nati o si sono diffusi, con l’obiettivo di un annuncio gioioso e contagioso del Vangelo agli uomini?

7. Quali collaborazioni tra comunità parrocchiali e queste nuove esperienze?

La Chiesa ha impegnato molte energie per ristrutturare i propri percorsi di iniziazione ed educazione alla fede.

8. Quanto l’esperienza dell’iniziazione cristiana degli adulti è stata assunta come modello per ripensare i cammini di iniziazione alla fede nelle nostre comunità?

9. Quanto e come è stato assunto lo strumento dell’iniziazione cristiana? In che modo ha aiutato il ripensamento della pastorale battesimale, e l’accentuazione del legame tra i sacramenti del Battesimo, Confermazione, Eucaristia?

10. Le Chiese cattoliche orientali amministrano in modo unitario i sacramenti della iniziazione cristiana al bambino. Quali sono le ricchezze e le peculiarità di questa loro esperienza? Come si sentono sollecitate dalle riflessioni e dai cambiamenti in atto nella Chiesa, per quanto riguarda l’iniziazione cristiana?

11. Come il “catecumenato battesimale” ha ispirato una revisione dei percorsi di preparazione ai sacramenti, trasformandoli in itinerari di iniziazione cristiana, capaci di coinvolgere in modo attivo i vari membri della comunità (in particolare gli adulti), e non soltanto i vari soggetti interessati? Come le comunità cristiane si pongono al fianco dei genitori, in un compito di trasmissione della fede che si fa sempre più arduo?

12. Quali evoluzioni ha conosciuto la collocazione del sacramento della Confermazione, dentro questo itinerario? In seguito a quali motivazioni?

13. Come si è riusciti a dare corpo ad itinerari mistagogici?

14. Quanto le comunità cristiane sono riuscite a trasformare il cammino di educazione alla fede in una questione adulta e rivolta anzitutto ad adulti, sottraendolo in questo modo ai rischi di una sua collocazione esclusiva nell’età dell’infanzia?

15. Le Chiese locali stanno elaborando riflessioni esplicite sul ruolo dell’annuncio e sulla necessità di dare maggiore importanza alla generazione alla fede, alla pastorale battesimale?

16. È superata la fase della delega del compito di educazione alla fede da parte delle comunità parrocchiali ad altre agenzie di educazione religiosa (ad esempio alle istituzioni scolastiche, confondendo i cammini di educazione alla fede ad eventuali forme di educazione culturale al fatto religioso)?

La sfida educativa interpella le nostre Chiese come una vera e propria emergenza.

17. Con che grado di sensibilità è stata raccolta? E con quali energie?

18. La presenza di istituzioni cattoliche nel mondo della scuola come aiuta a rispondere a questa sfida? Da quali mutamenti sono interessate queste istituzioni? Con quali risorse riescono a rispondere alla sfida?

19. Che legame sussiste tra queste istituzioni e le altre istituzioni ecclesiali, tra queste istituzioni e la vita parrocchiale?

20. In che modo queste istituzioni riescono ad avere voce dentro la cultura e la società, arricchendo i dibattiti e i movimenti culturali di pensiero con la voce dell’esperienza cristiana di fede?

21. Che rapporto sussiste tra queste istituzioni cattoliche e le altre istituzioni educative, tra loro e la società?

22. In che modo le grandi istituzioni culturali (università cattoliche, centri culturali, centri di ricerca) che la storia ci ha lasciato in eredità riescono a prendere la parola nei dibattiti che interessano i valori fondamentali dell’uomo (difesa della vita, della famiglia, della pace, della giustizia, della solidarietà, del creato)?

23. Come riescono ad essere strumento che aiuta l’uomo a dilatare i confini della sua ragione, a ricercare la verità, a riconoscere le tracce del disegno di Dio che dà senso alla nostra storia? E, in modo corrispettivo, come aiutano le comunità cristiane a decifrare e a favorire l’ascolto delle domande e delle attese profonde espresse dalla cultura di oggi?

24. Quanto queste istituzioni riescono ad immaginarsi all’interno di quell’esperienza denominata “cortile dei gentili”? Riescono cioè ad immaginarsi come luoghi in cui i cristiani vivono l’audacia di imbastire forme di dialogo che intercettino le attese più profonde degli uomini e la loro sete di Dio; e di porre dentro questi contesti la domanda su Dio, condividendo la propria esperienza di ricerca e raccontando come dono l’incontro con il Vangelo di Gesù Cristo?

Il progetto della nuova evangelizzazione richiede forme e percorsi di formazione all’annuncio e alla testimonianza.

25. Come le comunità cristiane vivono l’urgenza di chiamare, formare e sostenere persone che sappiano essere evangelizzatori ed educatori perché testimoni?

26. Quali ministeri, istituiti ma molto più spesso “di fatto”, le Chiese locali hanno visto sorgere (o favorito), con questa chiara finalità evangelizzatrice?

27. Come le parrocchie si sono lasciate ispirare al riguardo dalla vitalità di alcuni movimenti e realtà carismatiche?

28. Diverse Conferenze Episcopali in questi decenni hanno fatto della missione e della evangelizzazione gli elementi centrali e le priorità dei loro progetti pastorali: che risultati hanno ottenuto? Come sono riuscite a sensibilizzare le comunità cristiane sulla qualità “spirituale” di questa sfida missionaria?

29. In che modo questo accento della “nuova evangelizzazione” ha aiutato la revisione e la riorganizzazione dei percorsi di formazione dei candidati al presbiterato? Come le diverse istituzioni deputate a questa formazione (seminari diocesani, regionali, gestiti da ordini religiosi) hanno saputo rileggere ed adeguare le loro regole di vita a questa priorità?

30. In che modo il ministero del diaconato, ripristinato di recente, ha trovato in questo mandato evangelizzatore uno dei contenuti della sua identità?


Conclusione
«Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi» (At 1, 8)

23. Il fondamento della “nuova evangelizzazione” nella Pentecoste

Con la sua venuta tra noi, Gesù Cristo ci ha comunicato la vita divina che trasfigura la faccia della terra, facendo nuove tutte le cose (cf. Ap 21, 5). La sua Rivelazione ci ha coinvolto non soltanto come destinatari della salvezza che ci è stata donata, ma anche come suoi annunciatori e testimoni. Lo Spirito del Risorto abilita così la nostra vita all’annuncio efficace del Vangelo in tutto il mondo. È l’esperienza della prima comunità cristiana, che vedeva il diffondersi della Parola mediante la predicazione e la testimonianza (cf. At 6, 7).

Cronologicamente, la prima evangelizzazione ebbe inizio nel giorno della Pentecoste, quando gli Apostoli, riuniti tutti insieme nello stesso luogo in preghiera con la Madre di Cristo, ricevettero lo Spirito Santo. Colei, che secondo le parole dell’Arcangelo è “piena di grazia”, si trova così sulla via dell’evangelizzazione apostolica, e su tutte le vie sulle quali i successori degli Apostoli si sono mossi per annunciare il Vangelo.

Nuova evangelizzazione non significa un “nuovo Vangelo”, perché «Gesù Cristo è lo stesso ieri oggi e sempre» (Eb 13, 8). Nuova evangelizzazione vuol dire: una risposta adeguata ai segni dei tempi, ai bisogni degli uomini e dei popoli di oggi, ai nuovi scenari che disegnano la cultura attraverso la quale raccontiamo le nostre identità e cerchiamo il senso delle nostre esistenze. Nuova evangelizzazione significa perciò promozione di una cultura più profondamente radicata nel Vangelo; vuol dire scoprire l’uomo nuovo che è in noi grazie allo Spirito donatoci da Gesù Cristo e dal Padre. Il cammino di preparazione alla prossima Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, la sua celebrazione siano per la Chiesa come un nuovo Cenacolo, in cui i successori degli Apostoli, riuniti in preghiera insieme con la Madre di Cristo – con Colei che è stata invocata come Stella della Nuova Evangelizzazione [84] –, preparano le vie della nuova evangelizzazione.

24. La “nuova evangelizzazione”, visione per la Chiesa di oggi e di domani

In queste pagine abbiamo tante volte parlato di nuova evangelizzazione. Vale la pena richiamare in chiusura il significato profondo di questa definizione, l’appello contenuto in essa. Lasciamo questo compito a Papa Giovanni Paolo II, che ha tanto sostenuto e diffuso questa terminologia. “Nuova evangelizzazione” significa «riaccendere in noi lo slancio delle origini, lasciandoci pervadere dall’ardore della predicazione apostolica seguita alla Pentecoste. Dobbiamo rivivere in noi il sentimento infuocato di Paolo, il quale esclamava: “Guai a me se non predicassi il Vangelo!” (1 Cor 9, 16). Questa passione non mancherà di suscitare nella Chiesa una nuova missionarietà, che non potrà essere demandata ad una porzione di “specialisti”, ma dovrà coinvolgere la responsabilità di tutti i membri del Popolo di Dio. Chi ha incontrato veramente Cristo, non può tenerselo per sé, deve annunciarlo. Occorre un nuovo slancio apostolico che sia vissuto quale impegno quotidiano delle comunità e dei gruppi cristiani» [85].

In questo testo abbiamo parlato molte volte di mutamenti e di trasformazioni. Ci siamo confrontati con scenari che descrivono cambiamenti epocali, che suscitano spesso in noi apprensione e paura. In una tale situazione, ciò di cui avvertiamo il bisogno è di una visione, che ci permetta di guardare al domani con gli occhi della speranza, senza le lacrime della disperazione. Come Chiesa, abbiamo già questa visione. È il Regno che viene, che ci è stato annunciato da Gesù Cristo e descritto nelle sue parabole. È il Regno che è già cominciato con la Sua predicazione, e soprattutto con la Sua morte e resurrezione per noi. Tuttavia, abbiamo spesso l’impressione di non riuscire a dare concretezza a questa visione, di non riuscire a “farla nostra”, di non riuscire a renderla parola viva per noi e per i nostri contemporanei, di non assumerla come fondamento delle nostre azioni pastorali e della nostra vita ecclesiale.

Al riguardo, dal Concilio Vaticano II in poi i Papi ci hanno offerto una chiara parola d’ordine per una pastorale presente e futura: “nuova evangelizzazione”, cioè nuova proclamazione del messaggio di Gesù, che infonde gioia e ci libera. Questa parola d’ordine può essere il fondamento di questa visione di cui sentiamo la necessità: la visione di una Chiesa evangelizzante, da cui siamo partiti in questo testo, è anche il compito che ci viene consegnato alla fine. Tutto il lavoro di discernimento che siamo chiamati a svolgere ha come suo obiettivo che questa visione metta radici profonde nei nostri cuori. Nei cuori di ognuno di noi, nei cuori delle nostre Chiese, per un servizio al mondo.

25. La gioia di evangelizzare

Nuova evangelizzazione vuol dire condividere con il mondo le sue ansie di salvezza, e rendere ragione della nostra fede, comunicando il Logos della speranza (cf. 1 Pt 3, 15). Gli uomini hanno bisogno della speranza per poter vivere il proprio presente. Il contenuto di questa speranza è «quel Dio che possiede un volto umano e che ci ha amati sino alla fine» [86]. Per questo la Chiesa è missionaria nella sua essenza. Non possiamo tenere per noi le parole di vita eterna che ci sono date nell’incontro con Gesù Cristo. Esse sono per tutti, per ogni uomo. Ogni persona del nostro tempo, lo sappia oppure no, ha bisogno di questo annuncio.

Proprio l’assenza di questa consapevolezza genera deserto e sconforto. Tra gli ostacoli alla nuova evangelizzarne c’è proprio la mancanza di gioia e di speranza che simili situazioni creano e diffondono tra gli uomini del nostro tempo. Spesso questa mancanza di gioia e di speranza sono così forti da intaccare lo stesso tessuto delle nostre comunità cristiane. La nuova evangelizzazione si propone in questi contesti non come un dovere, un peso ulteriore da portare, ma come quel farmaco capace di ridare gioia e vita a realtà prigioniere delle proprie paure.

Affrontiamo perciò la nuova evangelizzazione con entusiasmo. Impariamo la dolce e confortante gioia di evangelizzare, anche quando sembra che l’annuncio sia una semina nelle lacrime (cf. Sal 126, 6). «Sia questo per noi – come lo fu per Giovanni Battista, per Pietro e Paolo, per gli altri Apostoli, per una moltitudine di straordinari evangelizzatori lungo il corso della storia della Chiesa – uno slancio interiore che nessuno, né alcuna cosa potrà spegnere. Sia questa la grande gioia delle nostre vite impegnate. Possa il mondo del nostro tempo, che cerca ora nell’angoscia, ora nella speranza, ricevere la Buona Novella non da evangelizzatori tristi e scoraggiati, impazienti e ansiosi, ma da ministri del Vangelo, la cui vita irradi fervore, che abbiano per primi ricevuto in loro la gioia del Cristo, e accettino di mettere in gioco la propria vita affinché il Regno sia annunziato e la Chiesa sia impiantata nel cuore del mondo» [87].


Note

[1] Benedetto XVI, Omelia in occasione della chiusura dell’Assemblea Speciale del Sinodo dei Vescovi per il Medio Oriente (24 ottobre 2010): L’Osservatore Romano, 25-26 ottobre 2010, p. 8.

[2] Benedetto XVI, Lettera apostolica in forma di «motu proprio» Ubicumque et semper con la quale si istituisce il Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione (21 settembre 2010): L’Osservatore Romano, 13 ottobre 2010, pp. 4-5.

[3] Benedetto XVI, Esortazione apostolica postsinodale Verbum Domini (30 settembre 2010), nn. 96.122: All. a L’Osservatore Romano, 12 novembre 2010, pp. 96, 111-112.

[4] Paolo VI, Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi (8 dicembre 1975), n. 80: AAS 68 (1976), 74.

[5] Concilio Ecumenico Vaticano II, Decreto sull’attività missionaria della Chiesa Ad gentes, n. 2.

[6] Cf. Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost. Dogmatica Lumen gentium, n. 2.

[7] Cf. S. Ilario di Poitiers, In Ps. 14: PL 9, 301; Eusebio di Cesarea, In Isaiam 54, 2-3: PG 24, 462-463; S. Cirillo d’Alessandria, In Isaiam V, cap. 54, 1-3: PG 70, 1193.

[8] Paolo VI, Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi (8 dicembre 1975), n. 14: AAS 68 (1976), 13.

[9] Cf. ibid., n. 15: AAS 68 (1976), 13-14.

[10] Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost. Pastorale Gaudium et spes, n. 4.

[11] Cf. Giovanni Paolo II, Omelia tenuta durante la s. Messa nel Santuario di S. Croce, Mogila (9 giugno 1979), 1 : AAS 71 (1979), 865: «Là dove si innalza la croce sorge il segno che v’è giunta ormai la Buona Novella della salvezza dell’uomo mediante l’Amore. […] La nuova croce di legno è stata innalzata non lontano da qui, proprio durante le celebrazioni del millennio. Con essa abbiamo ricevuto un segno, che cioè alla soglia del nuovo millennio – in questi nuovi tempi, in queste nuove condizioni di vita – torna ad essere annunziato il Vangelo. È iniziata una nuova evangelizzazione, quasi si trattasse di un secondo annuncio, anche se in realtà è sempre lo stesso».

[12] Giovanni Paolo II, Discorso alla XIX Assemblea del CELAM (Port au Prince, 9 marzo 1983), n. 3: AAS 75 I (1983), 778.

[13] Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Redemptoris missio (7 dicembre 1990), n. 30: AAS 83 (1991), 276. Cf. anche i nn. 1-3, ibid.: AAS 83 (1991), 249-252.

[14] Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica Christifideles laici (30 dicembre 1988), n. 35: AAS 81 (1989), 458.

[15] Cf. Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica post-sinodale Ecclesia in Africa (14 settembre 1995), nn. 57.63: AAS 85 (1996), 35-36, 39-40; Id., Esortazione apostolica post-sinodale Ecclesia in America (22 gennaio 1999), nn. 6.66: AAS 91 (1999), 10-11, 56; Id., Esortazione apostolica post-sinodale Ecclesia in Asia (6 novembre 1999), n. 2: AAS 92 (2000), 450-451; Id., Esortazione apostolica post-sinodale Ecclesia in Oceania (22 novembre 2001), n. 18: AAS 94 (2002), 386-389.

[16] Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica post-sinodale Ecclesia in Europa (28 giugno 2003), n. 2: AAS 95 (2003), 650, che peraltro rimanda al n. 2 della dichiarazione finale della Prima Assemblea Speciale del Sinodo dei Vescovi per l’Europa (1991). Cf. anche Ecclesia in Europa (28 giugno 2003), n. 45: AAS 95 (2003), 677.

[17] Cf. ibid., n. 32: AAS 95 (2003), 670: «Nello stesso tempo, voglio rassicurare ancora una volta i pastori, i fratelli e le sorelle delle Chiese ortodosse che la nuova evangelizzazione non va confusa in nessun modo con il proselitismo, fermo restando il dovere del rispetto della verità, della libertà e della dignità di ogni persona». La necessità della evangelizzazione, la differenza tra evangelizzazione e proselitismo, il modo di vivere l’evangelizzazione all’interno di una chiara attitudine ecumenica: una chiarificazione di questi temi si ha nel documento della Congregazione per la Dottrina della Fede, Nota dottrinale su alcuni aspetti della evangelizzazione (3 dicembre 2007), nn. 10-12: AAS 100 (2008), 498-503.

[18] Benedetto XVI, Discorso alla Curia Romana (21 dicembre 2009): AAS 102 (2010), 40. La medesima immagine del “cortile dei gentili” viene ripresa da Papa Benedetto XVI nel Messaggio per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali (24 gennaio 2010): AAS 102 (2010) 117. In questo testo i nuovi “cortili delle genti” sono gli spazi di socializzazione che i nuovi media hanno creato, e che vanno popolandosi sempre più: nuova evangelizzazione vuol dire immaginare sentieri per l’annuncio del Vangelo anche in questi spazi ultramoderni.

[19] Cf. ad esempio S. Clemente di Alessandria, Protreptico IX, 87, 3-4 (Sources chrétiennes, 2,154); S. Agostino, Sermo 14, D [= 352 A], 3 (Nuova Biblioteca Agostiniana, XXXV/1, 269-271).

[20] Cf. ad esempio Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Redemptoris missio (7 dicembre 1990), n. 37: AAS 83 (1991), 282-286.

[21] Cf. Benedetto XVI, Discorso ai Partecipanti all’Assemblea Plenaria del Pontificio Consiglio della Cultura (8 marzo 2008): AAS 100 (2008), 245-248.

[22] Benedetto XVI, Esortazione apostolica postsinodale Verbum Domini (30 settembre 2010), n. 102: All. a L’Osservatore Romano, 12 novembre 2010, p. 97.

[23] Cf. Benedetto XVI, Lettera Enciclica Caritas in Veritate (29 giugno 2009), n. 42: AAS 101 (2009), 677-678.

[24] Cf. Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Redemptoris missio (7 dicembre 1990), n. 37: AAS 83 (1991), 282-286; Benedetto XVI, Messaggio per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali 2010 (24 gennaio 2010): AAS 102 (2010) 117.

[25] Cf. Benedetto XVI, Lettera Enciclica Caritas in Veritate (29 giugno2009), n. 42: AAS 101 (2009), 678: «Per molto tempo si è pensato che i popoli poveri dovessero rimanere ancorati a un prefissato stadio di sviluppo e dovessero accontentarsi della filantropia dei popoli sviluppati. Contro questa mentalità ha preso posizione Paolo VI nella Populorum progressio. Oggi le forze materiali utilizzabili per far uscire quei popoli dalla miseria sono potenzialmente maggiori di un tempo, ma di esse hanno finito per avvalersi prevalentemente gli stessi popoli dei Paesi sviluppati, che hanno potuto sfruttare meglio il processo di liberalizzazione dei movimenti di capitali e del lavoro. La diffusione delle sfere di benessere a livello mondiale non va, dunque, frenata con progetti egoistici, protezionistici o dettati da interessi particolari. Infatti il coinvolgimento dei Paesi emergenti o in via di sviluppo, permette oggi di meglio gestire la crisi. La transizione insita nel processo di globalizzazione presenta grandi difficoltà e pericoli, che potranno essere superati solo se si saprà prendere coscienza di quell’anima antropologica ed etica, che dal profondo sospinge la globalizzazione stessa verso traguardi di umanizzazione solidale. Purtroppo tale anima è spesso soverchiata e compressa da prospettive etico-culturali di impostazione individualistica e utilitaristica».

[26] Cf. Benedetto XVI, Lettera Enciclica Spe salvi (30 novembre 2007), n. 22: AAS 99 (2007), 1003-1004.

[27] Cf. Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera su alcuni aspetti della meditazione cristiana Orationis formas (15 ottobre 1989): AAS 82 (1990), 362-379.

[28] Cf. Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica Christifideles laici (30 dicembre 1988), n. 34: AAS 81 (1989), 455.

[29] Ibid., n. 26: AAS 81 (1989), 438.

[30] Ibid., n. 34: AAS 81 (1989), 455, ripreso nel «motu proprio» Ubicumque et semper con cui si è istituito il Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione (21 settembre 2010): L’Osservatore Romano, 13 ottobre 2010, pp. 4-5.

[31] Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Redemptoris missio (7 dicembre 1990), n. 34: AAS 83 (1991), 279-280.

[32] Cf. V Conferenza Generale dell’Episcopato Latino Americano e dei Caraibi, Documento finale, (Aparecida, 13-31 maggio 2007), nn. 365-370: http://www.celam.org/celam.info/download/Documento_Conclusivo_Aparecida.pdf

[33] Cf. Origene, In Evangelium secundum Matthaeum 17, 7: PG 13, 1197 B; S. Girolamo, Translatio homiliarum Origenis in Lucam, 36: PL 26, 324-325.

[34] Come ci richiama la Dei Verbum, Gesù Cristo «vedendo il quale si vede anche il Padre (cf. Gv 14,9), col fatto stesso della sua presenza e con la manifestazione che fa di sé con le parole e con le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte e la sua risurrezione di tra i morti, e infine con l’invio dello Spirito di verità, compie e completa la Rivelazione e la corrobora con la testimonianza divina, che cioè Dio è con noi per liberarci dalle tenebre del peccato e della morte e risuscitarci per la vita eterna» (Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost. Dogmatica Dei Verbum, n. 4).

[35] Cf. Congregazione per la Dottrina della Fede, Nota dottrinale su alcuni aspetti della evangelizzazione (3 dicembre 2007), n. 2: AAS 100 (2008), 490.

[36] Benedetto XVI, Lettera Enciclica Deus caritas est (25 dicembre 2005), n. 1: AAS 98 (2006), 217.

[37] Cf. Congregazione per il Clero, Direttorio Generale per la Catechesi (15 agosto 1997), n. 100.

[38] Cf. ibid., n. 141.

[39] Cf. Giovanni Paolo II, Costituzione apostolica Fidei depositum (11 novembre 1992): AAS 86 (1994), 113-118; ripreso in Congregazione per il Clero, Direttorio Generale per la Catechesi (15 agosto 1997), n. 122.

[40] Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica Christifideles laici (30 dicembre1988), n. 34: AAS 81 (1989), 455. Cf. anche Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica post-sinodale Ecclesia in America (22 gennaio 1999), 66: AAS 91 (1999), 801; Benedetto XVI, Esortazione apostolica postsinodale Verbum Domini (30 settembre 2010), n. 94: All. a L’Osservatore Romano, 12 novembre 2010, pp. 91-92.

[41] Cf. Congregazione per il Clero, Direttorio Generale per la Catechesi (15 agosto 1997), n. 47: «Il decreto conciliare Ad gentes ha ben chiarito la dinamica del processo evangelizzatore: testimonianza cristiana, dialogo e presenza della carità (AG 11-12), annuncio del Vangelo e chiamata alla conversione (AG 13), catecumenato e iniziazione cristiana (AG 14), formazione della comunità cristiana per mezzo dei sacramenti e dei ministeri (AG 15-18). Questo è il dinamismo della impiantazione ed edificazione della Chiesa».

[42] Ibid., n. 48. Il testo del Direttorio costruisce una descrizione lucida e precisa di questi elementi, componendo in una sintesi originale i testi del decreto conciliare Ad gentes, dell’Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi di Paolo VI e l’enciclica Redemptoris missio di Giovanni Paolo II.

[43] Cf. Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost. Dogmatica Dei Verbum, n. 7s.

[44] Cf. XII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, Messaggio al Popolo di Dio (24 ottobre 2008), la parte terza: L’Osservatore Romano, 25 ottobre 2008, p. 4.

[45] Cf. Benedetto XVI, Esortazione apostolica postsinodale Verbum Domini (30 settembre 2010), nn. 10.75: All. a L’Osservatore Romano, 12 novembre 2010, pp. 15, 74.

[46] Cf. ibid., nn. 58-60: All. a L’Osservatore Romano, 12 novembre 2010, pp. 62-64.

[47] Cf. ibid., nn. 90-98.110: All. a L’Osservatore Romano, 12 novembre 2010, pp. 89-95, 103.

[48] Ibid., n. 104: All. a L’Osservatore Romano, 12 novembre 2010, p. 98-99.

[49] XII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, Elenco finale delle Proposizioni (25 ottobre 2008), proposizione 38. Cf. anche Benedetto XVI, Esortazione apostolica postsinodale Verbum Domini (30 settembre 2010), nn. 74.105: All. a L’Osservatore Romano, 12 novembre 2010, pp. 73-74, 99-100.

[50] Benedetto XVI, Esortazione apostolica postsinodale Verbum Domini (30 settembre 2010), n. 93: All. a L’Osservatore Romano, 12 novembre 2010, p 91.

[51] Cf. Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica Catechesi tradendae (16 ottobre 1979), n. 3: AAS 71 (1979), 1279: «Questo sinodo ha lavorato in un’atmosfera eccezionale di gratitudine e di speranza. Esso ha ravvisato nel rinnovamento catechetico un dono prezioso dello Spirito Santo alla chiesa contemporanea, un dono al quale, dappertutto nel mondo, le comunità cristiane, ad ogni livello, rispondono con una generosità e una dedizione inventiva che suscitano ammirazione. Il discernimento necessario poteva, quindi, esercitarsi su di una realtà ben viva e trovare nel popolo di Dio una grande disponibilità alla grazia del Signore ed alle direttive del magistero». Una valutazione della situazione della catechesi, dei suoi progressi e dei punti di fatica la si può trovare nel Direttorio Generale per la Catechesi, nn. 29-30.

[52] Per una presentazione di questi metodi si veda Congregazione per il Clero, Direttorio Generale per la Catechesi (15 agosto 1997), parte terza cap. secondo; parte quarta, capp. quarto e quinto.

[53] Cf. Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica Catechesi tradendae (16 ottobre 1979), n. 55: AAS 71 (1979), 1322-1323.

[54] Cf. ibid., nn. 30-31: AAS 71 (1979), 1302-1304.

[55] Cf. Congregazione per il Clero, Direttorio Generale per la Catechesi (15 agosto 1997), n. 78.

[56] Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica Catechesi tradendae (16 ottobre 1979), n. 58: AAS 71 (1979), 1324-1325: «Ora, vi è anche una pedagogia della fede, e non si parlerà mai abbastanza di quel che una tale pedagogia della fede può arrecare alla catechesi. È normale, infatti, adattare in favore dell’educazione della fede le tecniche sperimentate e perfezionate dell’educazione in quanto tale. Occorre, tuttavia, tener conto in ogni istante della fondamentale originalità della fede. Quando si parla della pedagogia della fede, non si tratta di trasmettere un sapere umano, anche se il più elevato; si tratta di comunicare nella sua integrità la rivelazione di Dio. Dio medesimo, nel corso della storia sacra e soprattutto nel Vangelo, si è servito di una pedagogia, che deve restare come modello per la pedagogia della fede. Una tecnica non ha valore, nella catechesi, se non nella misura in cui si pone al servizio della trasmissione della fede e dell’educazione alla fede; in caso contrario non ha alcun valore». Cf. la ripresa e la rielaborazione fatta in Congregazione per il Clero, Direttorio Generale per la Catechesi (15 agosto 1997), nn. 143-144.

[57] Cf. Congregazione per il Clero, Direttorio Generale per la Catechesi (15 agosto 1997), n. 105. Cf. anche Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 4-10.

[58] Congregazione per il Clero, Direttorio Generale per la Catechesi (15 agosto 1997), n. 68.

[59] Cf. Concilio Ecumenico Vaticano II, Decreto sull’attività missionaria della Chiesa Ad gentes, n. 14: «Coloro che da Dio, tramite la chiesa, hanno ricevuto la fede in Cristo, siano ammessi con cerimonie liturgiche al catecumenato. Questo non è una semplice esposizione di dogmi e di precetti, ma una formazione a tutta la vita cristiana e un tirocinio debitamente esteso nel tempo, mediante i quali i discepoli vengono in contatto con Cristo, loro maestro. Perciò i catecumeni siano convenientemente iniziati al mistero della salvezza e con la pratica delle norme evangeliche, e mediante riti sacri, da celebrare in tempi successivi, siano introdotti nella vita della fede, della liturgia e della carità del popolo di Dio. In seguito, liberati dal potere delle tenebre grazie ai sacramenti dell’iniziazione cristiana, morti, sepolti e risorti con Cristo, ricevono lo Spirito di adozione a figli e celebrano il memoriale della morte e della risurrezione del Signore con tutto il popolo di Dio. […] Tale iniziazione cristiana durante il catecumenato, non deve essere opera soltanto dei catechisti o dei sacerdoti, ma di tutta la comunità dei fedeli, e soprattutto dei padrini, sicché i catecumeni avvertano fin dall’inizio di appartenere al popolo di Dio. E poiché la vita della chiesa è apostolica, i catecumeni imparino anche a cooperare attivamente all’evangelizzazione e alla edificazione della chiesa con la testimonianza della vita e con la professione della fede».

[60] Congregazione per il Clero, Direttorio Generale per la Catechesi (15 agosto 1997), n. 91: «La catechesi post-battesimale, senza dover riprodurre mimeticamente la configurazione al Catecumenato battesimale, e riconoscendo ai catechizzandi la loro realtà di battezzati, farà bene ad ispirarsi a questa “scuola preparatoria alla vita cristiana”, lasciandosi fecondare dai suoi principali elementi caratterizzanti».

[61] Cf. ibid., nn. 90-91.

[62] Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost. Dogmatica Lumen gentium, n. 26. Testo è citato e assunto dal Direttorio Generale per la Catechesi, al n. 217, per aprire la trattazione sui soggetti dell’azione di catechesi nella Chiesa.

[63] Una presentazione del ruolo e dei compiti di ognuno di questi soggetti in ordine all’annuncio della fede è fatta da Congregazione per il Clero, Direttorio Generale per la Catechesi (15 agosto 1997), nn. 219-232.

[64] Cf. Benedetto XVI, Discorso ai Partecipanti al IV Convegno nazionale della Chiesa italiana (Verona, 19 ottobre 2006): AAS 98 (2006), 804-817.

[65] Benedetto XVI, Omelia nella santa Messa per l’inizio del ministero petrino (24 aprile 2005): AAS 97 (2005), 710.

[66] Cf. Concilio Ecumenico Vaticano II, Dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae, n. 6.

[67] Paolo VI, Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi (8 dicembre 1975), n. 46: AAS 68 (1976), 36.

[68] Ibid., n. 15: AAS 68 (1976), 14-15.

[69] Cf. Concilio Ecumenico Vaticano II, Decreto sull'attività missionaria della Chiesa Ad gentes, n. 14.

[70] Grande ruolo ha avuto in questo processo la pubblicazione dell’Ordo Initiationis Christianae Adultorum, editio typica 1972, reimpressio emendata 1974. A questo rituale si è molto ispirata la riflessione catechetica, nel suo lavoro di revisione della prassi catechistica.

[71] Tutti questi sforzi sono stati collocati sotto il termine di “catecumenato battesimale” dal Direttorio Generale per la Catechesi (15 agosto 1997), nn. 88-91.

[72] Cf. Benedetto XVI, Esortazione apostolica postsinodale Sacramentum caritatis (22 febbraio 2007), n. 18: AAS 99 (2007), 119: «A questo riguardo è necessario porre attenzione al tema dell’ordine dei Sacramenti dell’iniziazione. Nella Chiesa vi sono tradizioni differenti. Tale diversità si manifesta con evidenza nelle consuetudini ecclesiali dell’Oriente, e nella stessa prassi occidentale per quanto concerne l’iniziazione degli adulti, rispetto a quella dei bambini. Tuttavia tali differenziazioni non sono propriamente di ordine dogmatico, ma di carattere pastorale. Concretamente, è necessario verificare quale prassi possa in effetti aiutare meglio i fedeli a mettere al centro il sacramento dell’Eucaristia, come realtà cui tutta l’iniziazione tende. In stretta collaborazione con i competenti Dicasteri della Curia Romana le Conferenze Episcopali verifichino l’efficacia degli attuali percorsi di iniziazione, affinché il cristiano dall’azione educativa delle nostre comunità sia aiutato a maturare sempre di più, giungendo ad assumere nella sua vita un’impostazione autenticamente eucaristica, così da essere in grado di dare ragione della propria speranza in modo adeguato per il nostro tempo (cf. 1 Pt 3, 15)».

[73] Cf. Paolo VI, Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi (8 dicembre 1975), n. 51: AAS 68 (1976), 40.

[74] Cf. Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Redemptoris missio (7 dicembre 1990), n. 44: AAS 83 (1991), 290-291.

[75] Cf. Congregazione per il Clero, Direttorio Generale per la Catechesi (15 agosto 1997), nn. 61-62.

[76] Cf. Benedetto XVI, Discorso ai Vescovi del Brasile in visita “ad limina apostolorum” (7 settembre 2009): L’Osservatore Romano, 7-8 settembre 2009, p. 5: «Nei decenni successivi al Concilio Vaticano II alcuni hanno interpretato l’apertura al mondo non come un’esigenza dell’ardore missionario del Cuore di Cristo, ma come un passaggio alla secolarizzazione, scorgendo in essa alcuni valori di grande spessore cristiano, come l’uguaglianza, la libertà e la solidarietà, e mostrandosi disponibili a fare concessioni e a scoprire campi di cooperazione. […] Inconsciamente si è caduti nell’autosecolarizzazione di molte comunità ecclesiali; queste, sperando di compiacere quanti erano lontani, hanno visto andare via, defraudati e disillusi, coloro che già vi partecipavano: i nostri contemporanei, quando s’incontrano con noi, vogliono vedere quello che non vedono in nessun’altra parte, ossia la gioia e la speranza che nascono dal fatto di stare con il Signore risorto».

[77] Il rimando è all’iniziativa promossa dal Pontificio Consiglio della Cultura, su suggerimento di Papa Benedetto XVI. I “Cortili dei Gentili” sono luoghi in cui aprire un confronto reciprocamente arricchente e culturalmente stimolante tra cristiani e quanti sentono distante la religione ma vogliono avvicinare Dio almeno come sconosciuto.

[78] Cf. Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost. Pastorale Gaudium et spes, n. 22.

[79] Benedetto XVI, Discorso agli educatori cattolici (Catholic University of America, Washington D.C., 17 aprile 2008): L’Osservatore Romano, 19 aprile 2008, p. 9.

[80] Benedetto XVI, Discorso all’apertura del Convegno della Diocesi di Roma (Roma, 11 giugno 2007): L’Osservatore Romano, 13 giugno 2007, pp. 4-5.

[81] Benedetto XVI, Lettera Enciclica Caritas in veritate (29 giugno 2009), n. 51: AAS 101 (2009), 687-688.

[82] Paolo VI, Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi (8 dicembre 1975), n. 41: AAS 68 (1976), 31-32. Cf. Benedetto XVI, Esortazione apostolica postsinodale Sacramentum caritatis (22 febbraio 2007), n. 85: AAS 99 (2007), 170-171.

[83] Cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2685.

[84] Cf. Giovanni Paolo II, Udienza Generale (21 ottobre 1992): L’Osservatore Romano, 22 ottobre 1992, p. 5.

[85] Giovanni Paolo II, Lettera Apostolica Novo millennio ineunte (6 gennaio 2001), n. 40: AAS 93 (2001), 294.

[86] Benedetto XVI, Lettera enciclica Spe salvi (30 novembre 2007), n. 31: AAS 99 (2007), 1010.

[87] Paolo VI, Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi (8 dicembre 1975), n. 80: AAS 68 (1976), 75.


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PIANO FONDAMENTALE DI FORMAZIONE SACERDOTALE


INTRODUZIONE

920
Gli sforzi che attualmente si stanno compiendo per rinnovare i seminari " sforzi ai quali il concilio Vaticano II con il decreto sulla formazione sacerdotale ha fornito le norme principali e più generali perché i seminari stessi procedessero con sicurezza e producessero salutare incremento di pietà, scienza, fervore pastorale nei candidati al sacerdozio ", esigono alcune ulteriori determinazioni, perché siano adattate, nel migliore dei modi, alle peculiari necessità delle singole nazioni e, nello stesso tempo, vengano conservate l'unità e la figura del sacerdozio cattolico, come la sua stessa natura richiede e il medesimo concilio ha con forza inculcato. Pertanto, il Piano fondamentale che viene ora presentato, è stato elaborato, tenendo presente questa duplice finalità, dalla Congregazione per l'educazione cattolica in collaborazione con i delegati delle conferenze episcopali non senza la costante sollecitudine e il sincero desiderio che il genuino spirito e la finalità pastorale del concilio Vaticano II vengano fedelmente espressi in questo documento, e, formulati in modo più concreto, possano con maggiore efficacia contribuire all'adattamento dell'educazione nei seminari alle istanze dei nuovi tempi.

1 - In quale senso il concilio Vaticano II ha confermato l'istituzione del seminario

921
La chiesa nel concilio Vaticano II ha decretato che è da ritenersi valida la sua plurisecolare esperienza dei seminari, asserendo che i seminari sono necessari in quanto istituzioni ordinate alla formazione sacerdotale e dotate dei principali mezzi di educazione che, assieme ad altri, sono in grado di promuovere efficacemente la formazione integrale dei futuri sacerdoti. Confermando ancora una volta questa strada, sperimentata, verso il sacerdozio, il concilio non ha però voluto minimamente passare sotto silenzio le varie e molteplici necessità sorte dalla vetustà dei mezzi educativi e dalle mutate condizioni dovute all'evolversi dei tempi, ed ha accettato, o persino prescritto, non pochi cambiamenti per potenziare la forza e l'efficacia pedagogica di questa utilissima istituzione.

922
Anche se il concilio ha parlato in modo diverso dei seminari maggiori e di quelli minori , ha però stabilito alcuni punti che valgono per entrambi. Prima però di prospettarne gli specifici problemi, è necessario anzitutto considerare bene alcuni presupposti, che valgono in qualche modo per tutto ciò che si dirà in seguito. Il seminario, in quanto comunità di giovani, trae la sua prima forza e attitudine a formare i futuri sacerdoti dalle stesse condizioni e costumi dell'ambiente in cui i giovani vivono, di cui respirano l'aria e alla cui composizione e perfezionamento essi hanno parte. Si tratta di vari elementi concorrenti, sia interni sia esterni, dell'intera strutturazione della comunità e del suo spirito, il cui influsso si manifesta in varia misura in tutto e che può inibire o favorire le migliori aspirazioni.

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Per conseguenza il primo compito dei superiori consiste nell'ottenere lo sforzo comune di tutti per creare e perfezionare queste condizioni spirituali, le quali debbono essere tali che, chiunque entra nel seminario, trovi i mezzi necessari per poter coltivare la sua vocazione e per poter seguire senza riserve la volontà di Dio. E per raggiungere tale scopo non si tenga in poco conto tutto ciò che riguarda anche l'aspetto materiale: e cioè la sobria e dignitosa disposizione del luogo, del fabbricato, delle suppellettili e di ogni altra cosa, in sintonia con la vita dei giovani.

2 - La situazione dei giovani contemporanei circa l'educazione

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Inoltre, in qualunque sano rinnovamento dei seminari, è assolutamente necessario tenere presenti le condizioni e le particolari esigenze del tempo circa il problema dell'educazione. I giovani infatti, chiamati dalla divina provvidenza ad esercitare il ministero sacerdotale tra gli uomini della nostra età, portano peculiari disposizioni di animo , consone alla mentalità ed al pensiero degli uomini di oggi. Si nota in loro, per esempio, e nelle varie loro manifestazioni, un ardente desiderio di sincerità e di verità; una grande propensione ad accettare tutto ciò che è nuovo e insolito; una stima del mondo e del suo progresso tecnico e scientifico; una volontà di inserirsi più pienamente in esso, per servirlo; un senso di "solidarietà", con preferenza per gli uomini di condizione più umile e per gli oppressi; uno spirito comunitario. Ma, oltre a tutto ciò, si nota in essi anche una diffidenza per quanto sa di vecchio e di tradizionale; una volubilità nelle decisioni; un'incostanza nel portare a compimento le risoluzioni; una mancanza di docilità, tanto necessaria al vero progresso spirituale; un animo difficile e critico verso l'autorità e le varie istituzioni civili ed ecclesiastiche ecc. L'educatore nel suo lavoro educativo non solo non dovrà trascurare, ma dovrà sforzarsi di capire tutte queste peculiari qualità e, per quanto gli è possibile, cercherà di indirizzarle, con la cooperazione degli stessi futuri sacerdoti, verso le loro finalità formative, distinguendo però sempre molto bene quelle qualità che possono, più o meno, contribuire ad una migliore formazione sacerdotale, o che invece possono ostacolarla. Tutto sommato, non si può ignorare che, specialmente in questi ultimi anni, sono sorte alcune difficoltà sia da parte della gioventù, sia da parte della società moderna, le quali esercitano il loro influsso in tutto il lavoro formativo e pertanto richiedono maggiori sforzi da parte degli educatori.

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Si devono tuttavia segnalare due particolari caratteristiche nei giovani del nostro tempo: una coscienza più viva della propria personalità, ed un senso più accentuato delle cose del mondo e degli uomini, sia che lo si riferisca ai loro indubbi valori, sia che lo si riferisca alla loro particolare situazione spirituale, che dimostra un sempre maggiore indifferentismo religioso. Questi due fattori, uniti ad altri nell'animo dei giovani, creano una certa mentalità comune, la quale esige che nei seminari, oltre ad altre soluzioni, si abbia maggiore stima della persona; venga eliminato tutto ciò che sa di "convenzione" ingiustificata, venga fatto tutto nella verità e nella carità; si stabilisca tra tutti un dialogo autentico; vengano favoriti contatti più frequenti con il mondo, secondo le giuste esigenze della retta formazione, e, infine, ciò che viene comandato e richiesto, sia giustamente motivato e sia eseguito con animo libero.

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E se questi criteri esigono che alcuni aspetti della formazione tradizionale vengano riveduti, richiedono altresì un lavoro educativo autentico il quale, basato sulla mutua fiducia e sulla mutua comprensione, possegga la retta concezione della libertà e sappia soprattutto ben distinguere i mezzi e i fini dell'educazione. Se infatti riguardo ai mezzi si può instaurare un utile dialogo e una fruttuosa ricerca con gli alunni, la finalità del seminario e di tutta l'educazione deve essere sempre ben chiara fin dall'inizio, come base di tutte le considerazioni e come punto di riferimento di ogni discussione. Infatti, quanto più chiaramente verrà proposta ai giovani la sublime finalità della formazione, tanto più volentieri cercheranno essi stessi, concordemente, i mezzi più adatti a raggiungerla, e, guidati dal desiderio del bene comune e della volontà di Dio, scopriranno il vero senso della libertà e dell'autorità.

3 - Il concetto di sacerdozio cattolico come fine proprio dell'educazione sacerdotale

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Il fine specifico dell'educazione sacerdotale si fonda sul concetto di sacerdozio cattolico, quale deriva dalla rivelazione divina interpretata dalla costante tradizione e dal magistero della chiesa. Questa dottrina, che deve informare tutti i Piani di formazione sacerdotale, infondendovi il vero senso e l'efficacia, può desumersi dalle stesse parole del concilio Vaticano II.

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Ogni potere e ogni ministero sacerdotale nella chiesa cattolica trae origine dall'unico ed eterno sacerdozio di Cristo, che dal Padre è stato santificato e mandato nel mondo (cf. Gv 10,36); Cristo ha fatto partecipi del suo sacerdozio anzitutto i suoi apostoli e i vescovi loro successori. A questo unico e medesimo sacerdozio di Cristo i vari membri della chiesa partecipano in diversa misura: un primo grado di tale partecipazione è costituito dal sacerdozio comune dei fedeli, i quali, mediante il battesimo e l'unzione dello Spirito santo, "vengono consacrati a formare un tempio spirituale e un sacerdozio santo, per offrire, mediante tutte le opere del cristiano, spirituali sacrifici".

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In modo diverso dai fedeli, partecipano al sacerdozio di Cristo i presbiteri, i quali, "quantunque non abbiano l'apice del sacerdozio e dipendano dai vescovi nell'esercizio della loro potestà, sono tuttavia a loro congiunti per l'onore sacerdotale, e in virtù del sacramento dell'ordine, ad immagine di Cristo, sommo ed eterno sacerdote (cf. Eb 5,1-10; 7,24; 9,11-28), sono consacrati per predicare il vangelo, pascere i fedeli e celebrare il culto divino, quali veri sacerdoti del Nuovo Testamento". Per tale ragione, dunque, il sacerdozio ministeriale dei presbiteri supera il sacerdozio comune dei fedeli, giacché per mezzo di esso alcuni nel corpo della chiesa sono assimilati a Cristo e promossi "a servire a Cristo maestro, sacerdote e re, partecipando al suo ministero, per il quale la chiesa, qui in terra, è incessantemente edificata in popolo di Dio, corpo di Cristo e tempio dello Spirito santo". "Il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico, quantunque differiscano per essenza e non solo di grado, sono tuttavia ordinati l'uno all'altro; infatti l'uno e l'altro, ognuno a suo proprio modo, partecipano dell'unico sacerdozio di Cristo".

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Elevati al sacerdozio, i presbiteri stringono molteplici relazioni con il proprio vescovo , con gli altri sacerdoti e con il popolo di Dio. Infatti "tutti i presbiteri, assieme ai vescovi, partecipano talmente dello stesso e unico sacerdozio e ministero di Cristo, che la stessa unità di consacrazione e di missione esige la comunione gerarchica dei presbiteri con l'ordine dei vescovi... I vescovi pertanto... hanno in essi dei necessari collaboratori e consiglieri nel ministero e nella funzione di istruire, santificare e governare il popolo di Dio". Essi con il loro vescovo "costituiscono un unico presbiterio, sebbene destinato a diversi uffici. Nelle singole comunità locali dei fedeli rendono, per così dire, presente il vescovo cui sono uniti con animo fiducioso e grande, ne assumono, secondo il loro grado, le funzioni e la sollecitudine, e le esercitano con dedizione quotidiana".

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Questa reale partecipazione all'unico e medesimo presbiterio diocesano fa sorgere intimi e molteplici legami anche fra gli stessi sacerdoti. "I presbiteri, costituiti nell'ordine del presbiterato mediante l'ordinazione, sono uniti fra di loro per una intima fraternità sacerdotale", "che spontaneamente e volentieri deve manifestarsi nel mutuo aiuto, spirituale e materiale, pastorale e personale, nei convegni e nella comunione di vita, di lavoro e di carità", "manifestando così quella unità con cui Cristo volle che i suoi fossero una cosa sola, affinché il mondo sappia che il Figlio è stato inviato dal Padre".

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Tuttavia ogni presbitero viene assunto fra il popolo di Dio per essere costituito per il medesimo popolo. Anche se, in virtù del sacramento dell'ordine, i presbiteri esercitano la funzione di padre e di maestro, "sono tuttavia, come gli altri fedeli, discepoli del Signore, chiamati alla partecipazione del suo regno per la grazia di Dio. In mezzo a tutti coloro che sono stati rigenerati con le acque del battesimo, i presbiteri sono fratelli tra fratelli, come membra dello stesso e unico corpo di Cristo, la cui edificazione è compito di tutti". Perciò "abbiano cura, come padri in Cristo, dei fedeli che hanno spiritualmente generati col battesimo e l'insegnamento (cf. 1Cor 4,15; 1Pt 2,23). Divenuti spontaneamente modelli del gregge (cf. 1Pt 5,3), presiedano e servano alla loro comunità locale, in modo che questa possa degnamente essere chiamata col nome di cui è insignito, tutto e solo, il popolo di Dio, cioè: chiesa di Dio (cf. 1Cor 1,2; 2Cor 1,1). Si ricordino che devono, nella loro quotidiana condotta e sollecitudine, presentare ai fedeli e infedeli, cattolici e non cattolici, l'immagine di un ministero veramente sacerdotale e pastorale , e rendere a tutti la testimonianza della verità e della vita, e, come buoni pastori, ricercare anche quelli (cf. Lc 15,4-7) che, sebbene battezzati nella chiesa cattolica, hanno abbandonato la pratica dei sacramenti, e persino la fede", cosicché, per mezzo del loro lavoro indefesso, "la chiesa come universale sacramento della salvezza" risplenda davanti a tutti e diventi il segno della presenza di Dio nel mondo. Con la vita e la parola, assieme ai religiosi e ai loro fedeli, dimostrino che la chiesa, già con la sola sua presenza, con tutti i doni che contiene, è fonte inesausta di quei valori dei quali il mondo d'oggi ha maggiormente bisogno". "Ma la funzione del pastore non si limita alla cura dei singoli fedeli: essa va estesa alla formazione dell'autentica comunità cristiana", che deve essere pervasa di genuino spirito missionario e di cattolica universalità.

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Il ministero presbiterale , quale viene esposto dal concilio Vaticano II, si esercita principalmente nel ministero della parola e nell'opera della santificazione. "Dato infatti che nessuno può essere salvo se prima non ha creduto, i presbiteri, nella loro qualità di cooperatori dei vescovi, hanno innanzi tutto il dovere di annunziare a tutti il vangelo di Dio", seguendo il comando del Signore: " Andate nel mondo intero e predicate il vangelo ad ogni creatura " (Mc 16,16). Essi esplicano tale mandato "sia che offrano in mezzo alla gente la testimonianza di una vita esemplare, che induca a dare gloria a Dio; sia che annunzino il mistero di Cristo ai non credenti con la predicazione esplicita; sia che svolgano la catechesi cristiana o illustrino la dottrina della chiesa; sia che si applichino a esaminare i problemi del loro tempo alla luce di Cristo".

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Ma il ministero della parola ha come suo scopo di condurre gli uomini alla fede e al sacramento della salvezza, e raggiunge il suo culmine nella celebrazione della eucaristia: "Ma soprattutto esercitano il loro sacro ministero nel culto eucaristico o sinassi, dove, agendo in persona di Cristo e proclamando il suo mistero, uniscono le preghiere dei fedeli al sacrificio del loro capo e nel sacrificio della messa rappresentano ed applicano, fino alla venuta del Signore (cf. 1Cor 11,26), l'unico sacrificio del Nuovo Testamento, quello cioè di Cristo, il quale una volta per tutte offrì se stesso al Padre, quale vittima immacolata (cf. Eb 9,11-28). Esercitano inoltre il ministero della riconciliazione e del conforto con i fedeli pentiti o ammalati, e portano a Dio Padre le necessità e le preghiere dei fedeli (cf. Eb 5,1-3)". E così, la funzione della predicazione ha l'esigenza d'essere completata dal ministero della santificazione, mediante il quale il sacerdote, impersonando Cristo, coopera all'edificazione della chiesa.

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Inoltre il presbitero presiede alla assemblea del popolo di Dio congregato con la predicazione e i sacramenti e principalmente con la celebrazione eucaristica. Deve essere quindi tale da poter venire da tutti riconosciuto come colui che fa le veci di Cristo capo: infatti "esercitando la funzione di Cristo capo e pastore per la parte di autorità che spetta loro, i presbiteri, in nome del vescovo, riuniscono la famiglia di Dio, come fraternità animata nell'unità, e la conducono al Padre, per mezzo di Cristo, nello Spirito santo. Per questo ministero, come per le altre funzioni del presbitero, viene conferita una potestà spirituale ". Per questa potestà il sacerdozio ministeriale o gerarchico differisce non solamente di grado, ma anche di essenza dal sacerdozio comune dei fedeli. Infatti, anche se i fedeli possono e debbono avere qualche parte nella funzione evangelica e pastorale, chi ha ricevuto l'ordine del presbiterato può pienamente esercitare il ministero sacramentale e specialmente eucaristico, dal quale gli altri ministeri sono derivati ed al quale tendono. Perciò segregato per l'evangelo di Dio (Rm 1,1), non abbia timore ad offrire tutta la sua vita al servizio di Dio e degli uomini, ed anzi a dare la sua vita per le anime.

4 - L'azione e la vita del sacerdote nelle circostanze attuali

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Il ministero sacerdotale , quale è stato definito nei suoi elementi essenziali dalla chiesa, è oggi esercitato in una condizione del tutto nuova , che è evidenziata dalle nuove esigenze degli uomini e dal tipo dell'attuale civiltà.

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Le istanze degli uomini vengono oggi determinate in modo particolare dalla promozione della personalità umana e dal progressivo mutamento del senso religioso. Se non sempre di fatto e in modo manifesto, almeno virtualmente, si riconosce a ciascun uomo la dignità umana, il diritto di progredire, di manifestare con libertà il proprio pensiero e di assumere la sua parte attiva nello sviluppo personale e sociale. E man mano si instaura nel mondo una più piena dominazione dell'uomo, unita a profonde mutazioni sociali, minor spazio viene riservato alle forme tradizionali della vita cristiana. Mentre, infatti, in questa trasformazione generale delle cose, alcuni ceti cristiani presentano una maggior personalizzazione della vita religiosa, che si denota dalla particolare stima per la parola di Dio e per la sacra liturgia e da un maggior senso di responsabilità, d'altra parte cresce sempre più il numero di coloro che perdono parzialmente o completamente i contatti con la chiesa, e propendono verso una qualche religione ed etica naturale. Anzi, spesso si arriva al punto che l'ateismo " un tempo ristretto piuttosto ai filosofi " diventi ogni giorno più comune, penetrando lentamente nella mente di molti. Questi vari aspetti della civiltà del nostro tempo debbono essere tenuti costantemente presenti, dovendo tenerne conto la vita e l'azione del sacerdote e la stessa preparazione al sacerdozio.

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Infatti, i giovani che entrano oggi in seminario sono inseriti nella società attraverso svariate forme di comunicazione sociale e le questioni che riguardano la religione, e specialmente l'azione e la vita sacerdotale, hanno profonda risonanza nei loro animi. Spesso accedono agli studi teologici con sincera volontà di servire Dio e gli uomini nella vita sacerdotale, ma senza, come si usava in passato, la chiarezza e la certezza dei valori religiosi, dei quali un giorno dovranno essere araldi e ministri. Queste cose suscitano talvolta gravi difficoltà nel seminario e costituiscono il vero e preminente problema educativo che i superiori debbono tener presente con speciale attenzione. Perciò nel loro lavoro formativo non cerchino in primo luogo di eliminare subito e radicalmente tali svariate difficoltà, quanto piuttosto di rettificare gradualmente la mentalità e le intenzioni, e soprattutto di usare discernimento e moderazione, affinché tutto ciò che c'è di sano nelle aspirazioni dei giovani sempre più progredisca e si irrobustisca, e possa così portare in futuro frutti abbondanti nella loro vita e nel loro ministero sacerdotale.

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In questa opera educativa potranno essere di aiuto non solamente la magnanimità e la disponibilità degli animi giovanili e il loro vivo desiderio di aiutare la società umana, ma talvolta anche gli stessi sforzi compiuti per superare i dubbi e per affrontare un esame critico della fede, giacché gli uomini ai quali saranno inviati da sacerdoti, imbevuti di una religiosità incerta e ambigua, non accettano il loro magistero passivamente e con facilità e non senza pregiudizi credono e ritengono la dottrina che il sacerdote, in forza della sua missione, cerca di insegnare.

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Perciò i giovani devono essere educati in modo tale che la particolare situazione, che essi sperimentano assieme a tutta la chiesa, non solo non li scoraggi, ma piuttosto li stimoli a cercare con fede e speranza in Dio nuovi mezzi e nuove vie per potere più facilmente venire in contatto con gli uomini dei nostri tempi. Il mondo, infatti, "come oggi si presenta all'amore e al ministero dei presbiteri della chiesa, Dio l'ha amato tanto da dare per esso il Figlio suo unigenito (cf. Gv 3,16). Effettivamente questo mondo, vincolato certamente a tanti peccati, ma anche dotato di risorse non irrilevanti, fornisce alla chiesa pietre vive (cf. 1Pt 2,5), che tutte insieme servono ad edificare l'abitazione di Dio nello Spirito (Ef 2,22). E lo stesso Spirito santo, mentre spinge la chiesa ad aprire vie nuove per arrivare al mondo d'oggi, suggerisce e fomenta anche gli opportuni aggiornamenti e adattamenti del ministero sacerdotale".

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Questo nuovo adattamento dell'azione e della vita sacerdotale rende oggi inquieti e preoccupa l'animo di molti e suscita dappertutto problemi di vario genere. Ne deriva pertanto che sulla figura del sacerdote, sulla sua natura, sul suo posto nell'ambito della società, sulla sua condizione di vita e sulla preparazione più adatta per esercitare con maggiore efficacia il suo ministero, sono state agitate e proposte a voce o con gli scritti molte opinioni. Il seminario, è evidente, non dovrà mai ignorare o trascurare queste cose, ma dovrà altresì salvaguardare e conservare con sollecitudine i valori certi e perenni del sacerdozio. Questo Piano fondamentale ha precisamente lo scopo di mettere al sicuro tali valori acquisiti, mentre le conferenze episcopali, con tutta libertà, studieranno l'adattamento degli altri elementi contingenti alle necessità dei luoghi e dei tempi.

Capitolo Primo: NORME GENERALI

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1. Il Piano di formazione sacerdotale stabilito dalla conferenza episcopale, a tenore del n. 1 del decreto Optatam totius e del can. 242 §1 del Codice di diritto canonico , viene dapprima approvato "ad esperimento" dalla Congregazione per l'educazione cattolica. Se nel tempo dell'esperimento sorge l'urgente necessità di adattare qualche parte del piano a nuove situazioni, non si escludono tali mutazioni, purché sia tempestivamente avvertita la Santa Sede.

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Prima della scadenza del tempo di prova, il piano verrà riveduto dalla conferenza episcopale, con l'aiuto della commissione episcopale per i seminari, e di esperti, alla luce dell'esperienza acquisita, e dovrà essere di nuovo sottoposto alla approvazione della medesima congregazione. Tale revisione e approvazione verrà poi periodicamente ripetuta, quando sembrerà necessario o utile alle conferenze episcopali. Il diritto e il dovere di redigere il Piano di formazione sacerdotale e di approvare particolari esperienze nella propria nazione o regione, nel caso che si ravvisi l'opportunità, spetta non già ai singoli vescovi, ma alle conferenze episcopali.

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2. Le norme del piano, così come sono state elaborate, dovranno essere osservate in tutti i seminari regionali o nazionali del clero diocesano, e le loro particolari applicazioni dovranno essere fissate nei piani di ciascun seminario dai rispettivi vescovi interessati. A queste norme dovranno essere conformati, con i dovuti adattamenti, anche i piani degli istituti religiosi. Per quanto riguarda gli studi, quando gli alunni del seminario frequentano i corsi filosofici e teologici presso facoltà o altri istituti di studi superiori, ci si dovrà attenere a quanto è stabilito all'art. 74 §2 della cost. apost. Sapientia christiana.

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3. Il piano deve toccare tutti gli aspetti fondamentali della formazione: umana, spirituale, intellettuale e pastorale; bisogna coordinare bene queste componenti, perché il sacerdote di Cristo sia preparato per le necessità odierne.

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4. E' necessario che tutta l'educazione sacerdotale, tenuti presenti i documenti della Santa Sede che riguardano la formazione sacerdotale, sia informata innanzi tutto dallo spirito e dalle norme del concilio Vaticano II, quali risultano dal decreto Optatam totius e dalle altre costituzioni e decreti, che toccano l'educazione del clero, e inoltre sia adeguata alle vigenti norme del diritto canonico.

Capitolo Secondo: LA PASTORALE DELLE VOCAZIONI

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5. La vocazione al sacerdozio si inserisce nell'ambito più ampio della vocazione cristiana, radicata nel sacramento del battesimo, mediante il quale il popolo di Dio "costituito da Cristo per una comunione di vita, di carità e di verità, è pure da lui assunto ad essere strumento della redenzione di tutti e, quale luce del mondo e sale della terra (cf. Mt 5,13-16), è inviato a tutto il mondo". Questa vocazione, suscitata dallo Spirito santo, "il quale per l'utilità della chiesa distribuisce la varietà dei suoi doni con magnificenza proporzionata alla sua ricchezza e alle necessità dei ministeri (cf. 1Cor 12,1-11)", è ordinata all'edificazione del corpo di Cristo "nella quale vige una diversità di membri e di offici".

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6. Tutte le vocazioni, come manifestazioni delle investigabili ricchezze di Cristo (cf. Ef 3,8), devono essere tenute in grande stima nella chiesa, e quindi da coltivarsi con ogni premura e sollecitudine perché sboccino e maturino. Perciò a tutta la comunità cristiana, ma in modo particolare "ai sacerdoti, nella loro qualità di educatori nella fede, spetta di curare, per proprio conto o per mezzo di altri, che i singoli fedeli siano condotti nello Spirito santo a sviluppare la propria vocazione specifica secondo il vangelo, a praticare una carità sincera ed operante, ad esercitare quella libertà con cui Cristo ci ha liberati", cosicché "raggiungano la loro maturità cristiana".

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7. Fra le molteplici vocazioni incessantemente suscitate dallo Spirito santo nel popolo di Dio, riveste particolare importanza la vocazione allo stato di perfezione e soprattutto al sacerdozio, mediante la quale il cristiano viene scelto da Dio a far parte del sacerdozio gerarchico di Cristo, "per pascere la chiesa con la parola e la grazia di Dio". Questa vocazione si manifesta in vari modi nelle diverse età della vita umana: negli adolescenti, nell'età matura, ed anche, come è attestato dalla costante esperienza della chiesa, nei bambini, nei quali, come un certo germoglio, spesso si manifesta unita ad una singolare pietà, ad un ardente amore di Dio e del prossimo, ad una inclinazione dell'anima all'apostolato.

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8. Considerate le grandi necessità dei fedeli e accogliendo la voce del divin Salvatore che invita tutti: " Pregate il padrone della messe, perché mandi operai alla sua messe " (Mt 9,38; Lc 10,2), è estremamente necessario che tutta la comunità cristiana, con assiduità e fiducia, cerchi di favorire principalmente le vocazioni religiose e sacerdotali. Perciò venga istituita e promossa nelle singole diocesi, regioni e nazioni, l'opera delle vocazioni, a norma delle direttive pontificie, affinché tutto ciò che riguarda l'azione pastorale per l'incremento delle vocazioni sia coordinato in modo adeguato e coerente e venga stimolato con prudenza e zelo, fornendo gli opportuni mezzi. "Questa fattiva partecipazione di tutto il popolo di Dio alla cura delle vocazioni corrisponde all'azione della provvidenza divina, che elargisce le qualità necessarie ed aiuta con la grazia coloro che sono stati scelti da Dio a far parte del sacerdozio gerarchico di Cristo; e, nello stesso tempo, affida ai legittimi ministri della chiesa il compito di chiamare i candidati che aspirino a così grande ufficio con retta intenzione e piena libertà, dopo averne provata l'idoneità e di consacrarli col sigillo dello Spirito santo al culto di Dio e al servizio della chiesa".

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Per promuovere l'opera e favorire le vocazioni, i vescovi si procurino con impegno la cooperazione dei sacerdoti, dei religiosi e dei laici, e anzitutto dei genitori e dei maestri, nonché delle associazioni cattoliche, secondo il piano organico della pastorale d'insieme.

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9. E' necessario promuovere tutto ciò che si ritiene valido per ottenere da Dio le vocazioni, prima di tutto le preghiere richieste da Cristo stesso (cf. Mt 9,38; Lc 10,2). E ciò si deve fare tanto privatamente quanto comunitariamente, in certi tempi opportuni dell'anno liturgico, e in occasioni più solenni che debbono essere fissate dall'autorità ecclesiastica. La Giornata mondiale per le vocazioni , stabilita dalla santa sede, da celebrarsi ogni anno in tutto il mondo, è particolarmente indicata per questo scopo. E' necessario anche promuovere tutto ciò che riesce ad aprire gli animi per discernere e accettare la chiamata divina, come l'esempio dei sacerdoti "che apertamente riflettono la vera gioia pasquale", la pastorale della gioventù ben coordinata nelle diocesi, le sacre predicazioni e la catechesi che trattino espressamente della vocazione, la preparazione spirituale, per esempio gli esercizi spirituali; tutto questo è da considerarsi come primo e principale strumento di tale pastorale. Questa attività, tenuto conto delle leggi della sana psicologia e della pedagogia, deve essere rivolta agli uomini nelle varie età; ma oggi urge un nuovo impegno per trovare, coltivare, formare le vocazioni che molti manifestano nell'età matura (talvolta dopo l'esercizio di qualche professione).

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10. Si favoriscano le vocazioni con animo generoso non solamente per la propria diocesi e nazione, ma anche per le altre diocesi e nazioni, tenendo presenti le necessità della chiesa universale e assecondando l'azione divina, che chiama i singoli a diversi servizi, sia al sacerdozio secolare, sia all'attività missionaria, sia agli istituti religiosi. Per raggiungere più facilmente tale scopo è vivamente auspicabile che si dia vita in ogni diocesi a centri unici, che siano come l'espressione della cooperazione e dell'unità di ambedue i cleri: il diocesano e il religioso, a favore di tutte le vocazioni.

Capitolo Terzo: I SEMINARI MINORI E GLI ALTRI ISTITUTI ERETTI PER IL MEDESIMO SCOPO

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11. Il fine proprio del seminario minore è di aiutare gli adolescenti che sembrano possedere i germi della vocazione, perché più facilmente riconoscano la loro vocazione e siano capaci di corrispondervi. In cosa che richiede tanta prudenza e responsabilità, che non può essere compiuta se non con la luce e la guida dello Spirito santo, il quale distribuisce i suoi doni come vuole (cf. 1Cor 12,11), i candidati siano guidati dai superiori, dai genitori, dalla comunità parrocchiale e dagli altri cui spetta questo compito, affinché, rispondendo fedelmente alle attenzioni della divina provvidenza, vivano e adempiano sempre più pienamente, giorno per giorno, la loro consacrazione battesimale, progrediscano nello spirito di apostolato, diventando in tal modo pronti a ricevere il sublime dono della sacra vocazione nella sua vera natura e ad accettarla liberamente e con letizia, qualora sopravvenga l'approvazione della legittima autorità.

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Siccome poi la vocazione al sacerdozio, quantunque sia un dono soprannaturale e del tutto gratuito, si appoggia necessariamente su doti naturali, così che, se ne manca qualcuna, giustamente si deve dubitare che esista vera vocazione, gli alunni vengano esaminati accuratamente circa le loro famiglie, le loro qualità fisiche, psichiche, morali e intellettuali, per poter avere tempestivamente elementi di giudizio certi circa la loro idoneità.

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12. E' necessario attribuire al seminario minore il dovuto valore nella vita della diocesi, alla quale deve essere prudentemente aperto e nella quale deve essere vitalmente inserito, perché non solo possa attirare l'alacre cooperazione dei fedeli e del clero, ma anche, come fulcro della pastorale vocazionale, possa esercitare un benefico ed efficace influsso sulla gioventù, e contribuire al suo progresso spirituale. Da questo conveniente contatto con il mondo esterno gli alunni imparino a conoscere, secondo la loro capacità, i principali problemi della chiesa e della vita umana e interpretarli con spirito cristiano: in tal modo, giorno per giorno, progrediranno nel genuino spirito ecclesiale e missionario.

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Vengano conservati da parte degli alunni convenienti e anche necessari rapporti con le rispettive famiglie e con i coetanei, avendo bisogno di tali rapporti per un sano sviluppo psicologico, specialmente affettivo. Si aiutino le famiglie, con opportuna assistenza spirituale, perché siano capaci di collaborare sempre più con il seminario per la cura delle vocazioni.

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13. Gli alunni nel seminario conducano una vita consona alla loro età ed al loro sviluppo, e conforme alle sane norme della psicologia e della pedagogia; si eviti diligentemente tutto ciò che in qualunque modo possa diminuire la libera scelta dello stato, avendo sempre presente che tra gli alunni vi sono quelli che apertamente accettano l'idea di diventare sacerdoti, altri che l'ammettono come possibile, altri poi che manifestano esitazioni e dubbi circa la vocazione, ma, essendo dotati di buone qualità, non perdono tutta la speranza di poter un giorno arrivare al sacerdozio. Tutto ciò esige che nel seminario minore vi sia confidenza familiare con i superiori e fraterna amicizia fra alunni, così che tutti, stretti in una sola famiglia, possano abbastanza facilmente coltivare la propria indole in modo conveniente e adatto, secondo le disposizioni della divina provvidenza.

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14. Nella formazione spirituale dei singoli, gli alunni vengano aiutati con una guida capace, perché coltivino armonicamente tutte le loro qualità fisiche, morali, intellettuali e affettive, e vengano sempre più ispirati dal senso della giustizia, della sincerità, dell'amicizia fraterna, della verità, della giusta libertà e della coscienza del dovere, così che, con tutti gli elementi, anche naturali, debitamente coltivati, possano più facilmente disporsi con animo generoso e puro a seguire Cristo redentore e a servirlo nella vita apostolica. Elemento principale e necessario di questa formazione spirituale è la vita liturgica, alla quale gli alunni dovranno prendere parte con sempre più viva consapevolezza, secondo il progredire dell'età, unitamente agli altri esercizi di pietà quotidiana o periodica, che sono da stabilirsi nei piani di ciascun seminario. Questi siano adatti per giovani cristiani, e gli alunni li osservino con animo lieto e volonteroso.

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15. Anche per gli altri aspetti della vita del seminario vi siano norme specifiche, che regolino opportunamente i doveri e le attività degli alunni giorno per giorno durante tutto l'anno.

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16. Gli alunni compiano il corso di studi richiesto nella propria nazione per accedere agli studi accademici, e, per quanto è permesso dall'ordinamento degli studi, coltivino pure le discipline che sono necessarie o utili ai candidati al sacerdozio. Inoltre, cerchino, in linea di principio, di conseguire il titolo civile di studio, per essere pari ai loro coetanei e per godere della libertà e della possibilità di scegliere un altro stato di vita, qualora non vengano ritenuti chiamati al sacerdozio.

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17. Questi studi saranno compiuti nelle scuole proprie del seminario; possono anche essere compiuti presso scuole cattoliche esterne, o presso altre scuole, se i vescovi, per le particolari circostanze di luogo, giudicheranno ciò cosa migliore e attuabile con prudenza.

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18. Al medesimo scopo servono anche gli istituti eretti nelle varie regioni, e cioè i collegi, le scuole, ecc., nei quali, assieme alle altre vocazioni, vengono pure coltivati e sviluppati i germi della vocazione sacerdotale. Per questi istituti si fissino norme analoghe, con le quali si provveda sia alla solida formazione cristiana degli alunni, sia alla congrua istruzione richiesta per accedere agli studi superiori, sia alla loro attività di apostolato per mezzo di varie associazioni e altri sussidi.

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19. Secondo le necessità di ciascuna nazione si erigano e si favoriscano istituti destinati alla formazione di coloro che sono chiamati al sacerdozio in età più avanzata. Queste particolari case di formazione sacerdotale, con l'aiuto dei vescovi della regione o anche della nazione, siano configurate e ordinate in modo tale da poter corrispondere pienamente al loro scopo. E' necessario che tali istituti abbiano un proprio regolamento per la pietà, la disciplina e gli studi, affinché gli alunni di età più matura, tenuto conto della precedente formazione di ciascuno, mediante un opportuno metodo pedagogico e didattico possano ricevere la formazione spirituale e scientifica che loro manca, e che si stimi necessaria per iniziare gli studi ecclesiastici.

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Tenuto conto delle circostanze locali, si dovrà pure giudicare se questi alunni, dopo aver con sufficiente spazio di tempo compiuto gli studi medi, siano in grado di continuare i corsi ordinari dei seminari, oppure debbano frequentare speciali scuole filosofiche e teologiche.

Capitolo Quarto: I SEMINARI MAGGIORI

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20. Il seminario maggiore accoglie gli alunni che, compiuti gli studi medi, desiderano la formazione strettamente sacerdotale. Spetta infatti al seminario maggiore curare in modo più chiaro e completo la vocazione dei candidati, i quali, sull'esempio di nostro signore Gesù Cristo, sacerdote e pastore, devono essere formati come veri pastori delle anime e preparati al ministero di insegnare, santificare e reggere il popolo di Dio.

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21. Non si può fondare e mantenere in attività un seminario maggiore se non si hanno sia un conveniente numero di alunni, sia dei superiori ben preparati al loro compito e fraternamente uniti nel loro lavoro comune, sia " dove l'istituto ha internamente la scuola di filosofia e teologia " gli insegnanti sufficienti per numero e qualità; si deve inoltre avere una sede adatta, dotata della biblioteca e degli altri sussidi, che sono richiesti secondo il grado e la natura della formazione. Dove invece non si possono realizzare queste condizioni in una sola diocesi, è necessaria la costituzione del seminario interdiocesano (regionale, centrale o nazionale) e, secondo le necessità locali, si deve raggiungere una fraterna cooperazione del clero diocesano e religioso, affinché, con l'unione delle forze e dei mezzi, e salvi giustamente i diritti e le competenze di entrambi i cleri, si possano più facilmente costituire centri adatti agli studi ecclesiastici, frequentati dagli alunni dei due cleri, i quali ricevono la propria formazione spirituale e pastorale nelle rispettive case.

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22. Poiché l'educazione e la formazione impartite in seminario tendono a far sì che i candidati, fatti un giorno partecipi dell'unico e identico sacerdozio e ministero di Cristo, vivano in comunione gerarchica con il proprio vescovo e con gli altri fratelli nel sacerdozio, formando un unico presbiterio diocesano, è molto utile che fra gli alunni e il proprio vescovo e il clero diocesano si allaccino già fin dagli anni del seminario stretti vincoli, basati sulla mutua carità, sul dialogo frequente e sulla cooperazione di ogni genere.

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23. Per promuovere maggiormente la formazione personale dei singoli, tenuto presente il numero degli alunni, si possono utilmente costituire gruppi distinti nello stesso edificio o in abitazioni vicine, purché non sia impedita la continuità dei reciproci contatti. Si deve però conservare una efficiente unità di governo, di direzione spirituale e di formazione scientifica. Ogni gruppo dovrà avere un proprio sacerdote come moderatore, ben preparato per questo scopo, che conservi uno stretto e continuo rapporto con il rettore del seminario, con gli alunni del proprio gruppo e con i moderatori degli altri gruppi, affinché, mediante questa comune cooperazione, venga promosso tutto ciò che porta alla migliore formazione degli alunni.

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24. Per organizzare e perfezionare la vita del seminario e per favorire l'iniziativa e il senso di responsabilità negli alunni si stimoli la loro collaborazione con i superiori, la quale, col crescere della loro maturità, verrà gradatamente aumentata per quanto ne riguarda sia l'ambito sia la portata, in modo tale però che, in questo modo comunitario di agire, rimanga chiaramente determinata e salvata la diversa responsabilità dei superiori e degli alunni. Si favorisca quindi in tutti i modi la mutua fiducia tra gli educatori e gli alunni, onde instaurare un autentico ed efficace dialogo, così che le decisioni, che spettano per diritto ai superiori, vengano prese dopo maturo esame del bene comune (cf. n. 49).

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25. Ogni seminario abbia il suo regolamento, approvato dal vescovo (o, se si tratta di seminario interdiocesano, dalla commissione episcopale), nel quale siano precisati i principali punti disciplinari che riguardano la vita quotidiana degli alunni e l'ordinamento di tutto l'istituto.

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26. Ciò che è stabilito nel regolamento del seminario, o, in altre prescrizioni, sia da tutti osservato con generosità e prontezza, convinti che trattasi di cosa indispensabile sia per una vera vita comunitaria sia per lo sviluppo e l'affermazione della propria personalità. Perciò le norme della vita comune o privata " che riserveranno un certo spazio di libertà " non devono essere subite passivamente e per coercizione, ma devono essere accettate spontaneamente e gioiosamente, per intima persuasione e per amore. Con il passare del tempo e secondo la crescita della maturità e del senso di responsabilità degli alunni, esse verranno gradualmente attenuate, perché imparino progressivamente a guidarsi da soli.

Capitolo Quinto: I SUPERIORI

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27. In ogni seminario, secondo la consuetudine del paese, debbono esservi coloro che ne garantiscono la direzione, e cioè: il rettore, il vicerettore, il direttore o i direttori spirituali, il prefetto degli studi, il responsabile delle esercitazioni pastorali, il prefetto di disciplina, l'economo, il bibliotecario; di ognuno siano chiaramente stabiliti: le competenze, i doveri, i diritti e la giusta retribuzione. Non si richiede strettamente che nei seminari di minore entità, con un ristretto numero di alunni, ai singoli uffici siano preposte altrettante persone.

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28. I superiori vengono nominati dal vescovo " a meno che gli statuti del seminario non stabiliscano diversamente " dopo una diligente consultazione. Siano tutti veramente solleciti dell'andamento del seminario e favoriscano un dialogo frequente con il vescovo e con gli alunni, per cercare sempre meglio il bene comune e perfezionare sempre più la loro attività pedagogica.

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29. Il rettore, che ha nel governo del seminario la responsabilità più importante e più pressante, deve essere il coordinatore dei superiori e, salvo sempre scrupolosamente il foro interno, con fraterna carità deve stringere con loro una intima collaborazione, perché la formazione degli alunni venga promossa con impegno solidale. A tal fine può essere molto utile la vita comune dei superiori. Spesso, per es. almeno una volta al mese, si riuniscano per coordinare la loro comune attività, esaminare i problemi del seminario e cercare opportune soluzioni.

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30. I superiori devono essere scelti con la massima cura, dovendosi trattare di uomini animati da spirito sacerdotale e apostolico, capaci di prestare mutua e fraterna collaborazione nel comune impegno d'educazione, alacri e aperti nel percepire le necessità della comunità ecclesiale e civile, dotati di esperienza pastorale nel ministero parrocchiale o in altri ministeri, ed eccellenti conoscitori dell'animo giovanile. Essendo la missione dei superiori del seminario l'arte delle arti, che non permette un modo di agire improvvisato e casuale, essi, oltre alle doti naturali e soprannaturali, devono necessariamente possedere, secondo il compito di ciascuno, la debita preparazione spirituale, pedagogica e tecnica, da compiersi soprattutto negli istituti specializzati, eretti o da erigersi a tal fine nel proprio o in altri paesi.

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31. Bisogna inoltre fare in modo che la preparazione dei superiori si perfezioni con il continuo aggiornamento mediante la frequenza a convegni ed a corsi, che vengono abitualmente organizzati per conoscere i nuovi progressi delle scienze spirituali e pedagogiche e imparare nuovi metodi e nuove esperienze. Né si trascurino esperimenti e iniziative varie, con le quali i superiori possono meglio conoscere e meglio risolvere alla luce della fede le questioni che vengono ora agitate, specialmente quelle riguardanti i giovani.

Capitolo Sesto: I PROFESSORI

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32. Il numero dei professori deve essere sufficiente per rispondere adeguatamente alla natura delle materie da insegnarsi, alle condizioni dell'insegnamento ed al numero degli alunni. In ogni seminario con i corsi filosofico-teologici, si dovrà avere un elenco dei docenti necessari per i diversi corsi e per le diverse discipline.

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33. Per le discipline sacre i professori siano generalmente sacerdoti. Tutti collaborino fraternamente e siano tali da dare agli alunni, secondo il loro stato, esempio di vita cristiana o sacerdotale. Vengono nominati dal vescovo, a meno che non sia disposto diversamente; o, se si tratta di seminari regionali, dai vescovi che ne hanno la responsabilità, consultato però il rettore e il collegio dei professori, i quali possono proporre candidati idonei.

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34. I professori devono essere veramente competenti nelle loro specifiche discipline ed avere una conveniente conoscenza delle discipline affini. Devono pertanto possedere una preparazione appropriata ed essere forniti dei rispettivi gradi accademici: per insegnare le scienze sacre e la filosofia devono possedere almeno la licenza o una qualificazione equivalente, per altre discipline devono avere i gradi accademici corrispondenti.

981 35. Devono inoltre essere dotati di capacità pedagogiche, e a questo fine dovranno ricevere una preparazione conveniente; dovranno inoltre essere formati ai metodi didattici attivi, in modo da poter impartire più efficacemente l'insegnamento grazie alla collaborazione e al dialogo con gli alunni.

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36. I professori abbiano cura di aggiornare continuamente la loro preparazione scientifica con la lettura di periodici e di nuove pubblicazioni, con il frequente contatto con gli esperti e con la partecipazione a convegni scientifici.

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37. I professori non dovranno accettare impegni che impediscano il buon compimento del loro dovere; siano perciò anche equamente remunerati, perché possano totalmente dedicarsi al loro grave impegno. E' auspicabile tuttavia che esercitino qualche ministero, ma con moderazione, per poter disporre d'una esperienza pastorale al fine di conoscere meglio i problemi del nostro tempo, in particolare quelli dei giovani, e poter meglio insegnare le loro discipline e formare più convenientemente i futuri pastori d'anime.

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38. Nell'espletamento del loro compito si considerino veri educatori, e perciò abbiano presenti le norme, più sotto indicate, che riguardano la dottrina da insegnare e il metodo d'insegnamento. Coltivino l'istruzione e l'intera formazione sacerdotale dei singoli alunni, in modo da farli realmente progredire nelle scienze e nella vita spirituale. Si riuniscano spesso, per es., almeno una volta al mese, per esaminare i problemi scolastici e promuovere di comune accordo l'educazione e la formazione degli alunni. Favoriscano anche una stretta e assidua collaborazione con i superiori del seminario, per poter contribuire più efficacemente non solo all'istruzione scientifica degli alunni, ma anche nell'intera loro formazione sacerdotale. Infine i superiori e i professori costituiscano una sola comunità di educatori, così da offrire, insieme agli alunni, l'immagine di una sola famiglia, che adempia il desiderio del Signore: "Che siano una cosa sola" (Gv 17,11).

Capitolo Settimo: GLI ALUNNI

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39. Una idonea formazione degli alunni richiede non solamente una loro prudente selezione, ma anche un serio esame dei singoli giovani, da compiersi con l'aiuto di esperti, durante tutto il periodo degli studi, perché si possa acquisire la certezza della volontà di Dio in merito alla loro vocazione. In questa sincera ricerca della volontà di Dio si richieda volentieri la compartecipazione degli stessi candidati in esame, per procurare più speditamente e con più sicurezza il loro maggiore bene spirituale. In tutto ciò, per poter giudicare se sono adatti o no al ministero sacerdotale, si dovrà tener conto delle loro doti umane e morali (p.e. la sincerità dell'animo, la maturità affettiva, l'urbanità, la fedeltà alle promesse, l'assidua preoccupazione della giustizia, il senso dell'amicizia, della giusta libertà e responsabilità, lo spirito di iniziativa, la capacità di collaborare con gli altri, ecc.), delle loro doti spirituali (p.e. l'amore di Dio e del prossimo, il senso della fraternità e dell'abnegazione, la docilità, la comprovata castità, il senso della fede e della chiesa, lo zelo apostolico e missionario), e delle loro doti intellettuali (p.e. il retto e sano equilibrio di giudizio, la capacità intellettuale sufficiente per compiere gli studi ecclesiastici, la giusta conoscenza della natura del sacerdozio e delle sue esigenze).

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Nello stesso tempo si dovrà far esaminare il loro stato di salute fisica e psichica da medici e da esperti psicologi, tenendo conto delle eventuali eredità familiari. Il vescovo ha l'obbligo grave di fare una ricerca specialmente sulle cause della dimissione di coloro che sono stati dimessi da un altro seminario o da un istituto religioso. Bisogna però innanzitutto aiutare i giovani a riflettere seriamente e sinceramente davanti a Dio se possono considerarsi di essere veramente chiamati al sacerdozio e a capire le ragioni per le quali vi aspirano, affinché, se sarà volontà di Dio, accedano allo stato sacerdotale con retta e libera volontà.

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40. Periodicamente, e con l'aiuto degli stessi alunni la cui vocazione è allo studio, si esamini la situazione di ciascuno, così che coloro che non sono ritenuti idonei dal rettore e dai suoi consiglieri vengano benevolmente invitati, e anche aiutati, a scegliere un altro stato di vita, per il bene della chiesa e dello stesso alunno. Questa sicura scelta dello stato di vita deve essere fatta tempestivamente e appena possibile, perché la troppo lunga e inutile dilazione non si volga in danno del candidato.

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41. Si dia speciale importanza agli scrutini prescritti prima della ammissione agli ordini sacri. Perciò il rettore, per dovere di coscienza, raccolga accurate informazioni di ogni candidato, personalmente e per mezzo di altri che hanno conosciuto bene i giovani, specialmente parroci, sacerdoti e laici scelti (salvo sempre scrupolosamente il foro interno), e le trasmetta al vescovo, perché possa farsi un giudizio sicuro sulla vocazione dei candidati. Nel caso permanga un dubbio, si deve seguire il parere più sicuro.

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42. Per una migliore formazione e per una più matura preparazione degli alunni agli ordini sacri, le conferenze episcopali esaminino se sia il caso di introdurre nel proprio paese speciali esperimenti o prove, per tutti gli alunni o solamente per alcuni, secondo il giudizio del rispettivo ordinario. Fra i vari esperimenti che si possono fare, vengono proposti, come esempi, i seguenti: a ) All'inizio del corso filosofico-teologico, può essere riservato un certo tempo alla riflessione circa l'eccellenza, la natura e i conseguenti obblighi della vocazione sacerdotale, affinché gli alunni siano avviati con più accurato ripensamento e più intensa preghiera a maturare la propria decisione. Questa iniziazione, che può protrarsi per un periodo di tempo più o meno lungo, generalmente si abbina bene con l'introduzione al mistero di Cristo e alla storia della salvezza, che il concilio prescrive all'inizio del corso filosofico-teologico.

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b ) Durante il corso filosofico-teologico, si può avere una interruzione della permanenza in seminario, per es. per un anno o un semestre, durante il quale l'alunno interrompe gli studi e la permanenza in seminario, o solamente la permanenza, proseguendo altrove gli studi filosofico-teologici. Durante tale interruzione l'alunno, guidato da un esperto sacerdote, presta il suo aiuto nel ministero pastorale, venendo a contatto con gli uomini, i problemi e le difficoltà, tra cui dovrà lavorare, e mette alla prova la sua attitudine alla vita e al ministero sacerdotale. Non sono escluse esperienze di vita secolare nel lavoro manuale o nel servizio militare, dove questo è obbligatorio. Oppure dopo il primo anno di seminario maggiore, si può anche concedere agli alunni o di iniziare il secondo anno, o di dedicarsi agli studi profani nelle università, o di compiere fuori del seminario gli studi di qualche disciplina speciale; in tal modo, compiute le prime esperienze in seminario, al candidato verrà offerto un periodo di vera libertà interna ed esterna, per coltivare più solidamente e più diligentemente la sua vocazione.

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c ) Finito il corso filosofico-teologico, gli alunni potranno esercitare, per uno o più anni, le funzioni del diaconato, sia per acquisire, sotto la guida di un esperto sacerdote, una più piena maturazione ed un più pieno consolidamento della vocazione, sia per assimilare meglio le discipline pastorali che i giovani hanno imparato in seminario, sia per facilitare il passaggio al ministero sacerdotale. Si fissino opportune condizioni, circa gli esperimenti di cui ai punti b ) e c ), per garantire dei risultati veramente sicuri.

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43. La conferenza episcopale esamini inoltre, tenuto conto delle condizioni locali, se si debba prorogare l'età richiesta dal diritto per accedere agli ordini sacri.

Capitolo Ottavo: LA FORMAZIONE SPIRITUALE

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44. La formazione spirituale, che è ordinata alla perfezione della carità deve tendere soprattutto ad ottenere che l'alunno, non solamente per il carattere della sacra ordinazione, ma anche per la cooperazione intima di tutta la sua vita, diventi in maniera speciale un altro Cristo e, animato dal suo spirito, celebrando il mistero della morte del Signore , si renda veramente conto di quello che fa, imiti ciò che tratta, segua colui che non è venuto per essere servito, ma per servire (cf. Mt 20,28).

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45. Tenuta sempre presente la finalità pastorale di tutta la formazione sacerdotale, la vita spirituale degli alunni deve svilupparsi, con l'aiuto del direttore spirituale, armonicamente in tutti i suoi aspetti, cosicché assieme alle virtù, che sono tenute in grande conto fra gli uomini, i giovani cerchino di coltivare alla perfezione la loro grazia battesimale, sentano sempre più chiaramente e con maggiore certezza la loro particolare vocazione sacerdotale e così si dispongano più convenientemente ad acquistare le virtù e le attitudini sacerdotali.

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46. Nella formazione spirituale si deve dare la dovuta importanza anche alla comunità; gli alunni, inseriti nella comunità, devono abituarsi a rinunziare alla propria volontà ed a cercare con sforzo di riflessione comune il maggior bene del prossimo, contribuendo così, con tutte le energie, a perfezionare la propria vita e quella comunitaria di tutto il seminario, secondo l'esempio della chiesa primitiva, nella quale la moltitudine dei credenti era un cuor solo e un'anima sola (cf. At 4,32). Mediante la carità infatti la comunità gode della presenza di Dio, osserva pienamente la legge, acquista il vincolo della perfezione, ed esercita un'azione apostolica vigorosa.

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47. Per mezzo della vita comunitaria del seminario i candidati vengano preparati in modo tale che, quando avranno ricevuto l'ordine sacro, si inseriscano nella più ampia comunità del presbiterio diocesano "con fraternità sacramentale... con il vincolo della carità, della preghiera e dell'incondizionata collaborazione... per l'edificazione del corpo di Cristo, la quale esige molteplici funzioni e nuovi adattamenti, soprattutto in questi tempi". Perciò gli alunni vengano gradualmente introdotti nella realtà della diocesi (cf. n. 22), per conoscere i problemi e le necessità spirituali del clero e dei fedeli e possano adempiere con maggiore frutto il loro futuro ministero pastorale.

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48. La chiesa di rito latino si è imposta la legge " raccomandata da una veneranda tradizione " di scegliere per il sacerdozio solamente coloro che, per grazia divina, vogliono liberamente abbracciare il celibato per il regno dei cieli. Questa forma di vita, radicata nella dottrina evangelica e nella genuina tradizione della chiesa, conviene sommamente al sacerdozio. Infatti la missione del sacerdote è tutta consacrata al servizio dell'umanità nuova, che Cristo, vincitore della morte, con il suo Spirito suscita nel mondo; è lo stato nel quale i presbiteri a Cristo "più facilmente aderiscono con cuore indiviso, più liberamente... si dedicano al servizio di Dio e degli uomini... e così diventano più capaci di ricevere una più ampia paternità in Cristo...". In questo modo quindi, scegliendo cioè lo stato verginale per il regno dei cieli (Mt 19,12), "diventano segno vivente di quel mondo futuro, presente già attraverso la fede e la carità, nel quale i figli della risurrezione non si uniscono in matrimonio" (cf. Lc 20,35-36).

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Coloro perciò che si preparano al sacerdozio, riconoscano e accettino il celibato come uno speciale dono di Dio; con la vita spesa nella preghiera e nell'unione a Cristo e nella sincera carità fraterna, creino le condizioni necessarie per poterlo osservare integralmente e con letizia, costantemente solleciti di restare fedeli alla donazione fatta di se stessi. Affinché poi la scelta del celibato sia veramente libera, è necessario che il giovane possa capire con la luce della fede la forza evangelica di tale dono, e nello stesso tempo stimare rettamente i valori dello stato matrimoniale. Il giovane deve inoltre godere della piena libertà psicologica interna ed esterna, e possedere il necessario grado di maturità affettiva, per poter sperimentare e vivere il celibato come completamento della sua persona.

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A tale scopo si richiede una conveniente educazione sessuale, che, negli alunni giunti a una più matura adolescenza, consiste più nella formazione ad un casto amore delle persone, che nel travaglio, talora molestissimo, di evitare i peccati: li deve infatti preparare alle future relazioni del ministero pastorale. Perciò, con una sana prudenza spirituale, i giovani vengano gradatamente invitati e condotti a sperimentare e manifestare, attraverso il contatto con i gruppi e i diversi settori dell'apostolato e della cooperazione sociale, l'amore sincero, umano, fraterno, personale e immolato, sull'esempio di Cristo, verso tutti e verso ciascuno, specialmente verso i poveri, gli afflitti e i loro eguali; in questo modo supereranno la solitudine del cuore. Imparino a discernere questo amore, manifestato con apertura e fiducia davanti al Signore ai direttori spirituali e ai superiori; evitino al contrario le relazioni personali, soprattutto esclusive e prolungate con le persone di altro sesso, ma piuttosto si sforzino di praticare e di impetrare da Dio un amore aperto a tutti e perciò veramente casto.

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Avuta pertanto presente la speciale natura di questo dono, che " viene dall'alto, discendendo dal Padre dei lumi " (Gc 1,17), è necessario che i candidati al sacerdozio, fiduciosi dell'aiuto di Dio e non presumendo dalle proprie forze, "pratichino la mortificazione e la custodia dei sensi. Non trascurino anche i mezzi naturali, che giovano alla sanità mentale e fisica. In tal modo non potranno essere influenzati dalle false teorie che sostengono che la continenza perfetta è impossibile o nociva al perfezionamento dell'uomo e, al contrario, quasi per istinto spirituale, sapranno respingere tutto ciò che può mettere in pericolo la castità".

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49. Gli stessi rapporti di amicizia che l'alunno deve cercare con la persona e la missione di Cristo, che ha compiuto la sua opera nell'umile ossequio alla volontà del Padre (cf. Gv 4,34), esigono che il candidato al sacerdozio sappia con fede sincera far dono della "propria volontà per mezzo della obbedienza nel servizio di Dio e dei fratelli". E' sommamente necessario infatti che chi desidera partecipare insieme a Cristo crocifisso alla edificazione del suo corpo impari non soltanto ad accettare, ma anche ad amare la croce e, con spirito volonteroso e pastorale, si assuma tutti i pesi che sono richiesti per svolgere la missione dell'apostolato.

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Spetta quindi ai superiori formare i giovani ad una vera e matura obbedienza, confidando in Cristo, che richiede dai suoi l'obbedienza, ma prima si presentò come esempio della medesima virtù e fece di se stesso, con la sua grazia, il principio in noi di questa obbedienza. E' necessario perciò che esercitino l'autorità con prudenza e con rispetto delle persone. I giovani non mancheranno certo di prestarvi la loro collaborazione, purché l'obbedienza venga loro presentata nella vera luce, mostrando cioè come sia necessario che tutti concorrano al conseguimento del bene comune e che l'autorità sia a ciò ordinata (cf. n. 24). Devono prestare questa piena e sincera obbedienza con umile ossequio e pietà filiale prima di tutto al sommo pontefice, vicario di Cristo, e con lo stesso spirito al proprio vescovo, per diventare, con il sacerdozio, cooperatori fedeli che danno generosamente la loro opera unita a quella degli altri sacerdoti nel presbiterio diocesano.

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50. Imparino a coltivare, non solamente a parole, ma a fatti, lo spirito di povertà richiesta oggi con tanta insistenza dalla chiesa e necessaria per svolgere la missione pastorale, così che fidando nella provvidenza del Padre sappiano, sull'esempio dell'apostolo, essere giustamente indifferenti " nell'abbondanza e nella privazione " (Fil 4,13). Quantunque non siano tenuti, diversamente dai religiosi, a rinunziare totalmente ai beni materiali, cerchino tuttavia di acquistare, come uomini dello spirito, la vera libertà e docilità dei figli di Dio e di giungere a quella padronanza spirituale che è necessaria per avere un giusto rapporto con il mondo ed i beni terreni. Anzi, seguendo l'esempio di Cristo, il quale, " essendo ricco, si è fatto povero per noi " (2Cor 8,9), abbiano a cuore in modo particolare i più poveri e i più deboli, e già abituati alla rinunzia generosa del superfluo, siano capaci di dare testimonianza di povertà, con la semplicità e l'austerità della vita.

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51. La formazione spirituale deve abbracciare tutto l'uomo (cf. nn. 14, 45). Poiché la grazia non distrugge ma eleva la natura, e nessuno può essere vero cristiano se non possiede ed esercita le virtù necessarie all'uomo e che sono richieste dalla carità, il futuro sacerdote, per viverle e praticarle, impari ad esercitare: la schiettezza d'animo, il rispetto costante della giustizia, la gentilezza del tratto, la fedeltà alla parola data, la discrezione e la carità nel conversare, il desiderio del servizio fraterno, l'operosità, la capacità di collaborare con gli altri, ecc., al fine di pervenire a quella armonica conciliazione fra i valori umani e soprannaturali, che è necessaria per poter offrire un'autentica testimonianza di vita cristiana nella società.

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Dovendo poi il sacerdote evangelizzare tutti gli uomini, il candidato al sacerdozio si premuri di coltivare più a fondo la capacità di venire in contatto con uomini di diversa condizione. Impari soprattutto l'arte di parlare agli altri in modo conveniente, di ascoltare pazientemente e di comunicare con loro, col massimo rispetto di ogni genere di persone, animato di umile amore, per poter svelare agli altri il mistero di Cristo vivente nella chiesa.

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52. La celebrazione quotidiana dell'eucaristia che si completa con la comunione sacramentale, ricevuta con piena libertà e degnamente, deve essere il centro di tutta la vita del seminario, e gli alunni devono parteciparvi devotamente. Partecipando infatti al sacrificio della messa, "fonte e culmine di tutta la vita cristiana", gli alunni partecipano all'amore di Cristo, ricevendo da questa fonte ricchissima la forza soprannaturale per la propria vita spirituale e per l'apostolato.

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Perciò il sacrificio eucaristico, come tutta la sacra liturgia, secondo la costituzione Sacrosanctum concilium , deve avere nel seminario tale importanza da apparire veramente come "la vetta alla quale tende l'azione della chiesa e allo stesso tempo la fonte dalla quale fluisce la sua virtù". Si procuri anche una saggia varietà nel modo di partecipare alla sacra liturgia, affinché gli alunni non soltanto ne ricevano un maggior profitto spirituale, ma già dagli anni del seminario si preparino praticamente al futuro ministero e all'apostolato liturgico.

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53. Alla formazione al culto eucaristico deve essere unita intimamente la formazione all'ufficio divino, mediante il quale i sacerdoti "pregano Dio in nome della chiesa e in favore di tutto il popolo loro affidato, anzi in favore di tutto il mondo". Gli alunni perciò imparino il modo di pregare della chiesa per mezzo di una più adatta introduzione alla sacra liturgia, ai salmi e alle preghiere penetrate di sacra Scrittura, mediante la frequente recita comune di qualche parte dell'ufficio (p.e., delle lodi o dei vespri ), affinché comprendano con maggiore capacità e venerazione la parola di Dio che parla nei salmi e in tutta la liturgia e, al tempo stesso, vengano educati ad osservare fedelmente l'obbligo dell'ufficio divino durante tutta la loro vita sacerdotale. Questa formazione liturgica non potrà però dirsi perfetta, se non svelerà agli alunni gli stretti rapporti tra la sacra liturgia e la vita quotidiana di lavoro, con le sue esigenze di apostolato e la vera testimonianza della fede viva, operante per mezzo della carità.

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54. Per condurre una retta e fedele vita sacerdotale, è necessario che gli alunni acquistino gradualmente, a seconda delle rispettive età e maturità, uno stabile stile di vita, fondato su solide virtù, senza il quale non saranno capaci di aderire realmente e con perseveranza a Cristo e alla chiesa.
E' necessario infatti che il sacerdote:
a ) impari a "vivere in intima unione e familiarità col Padre per mezzo del suo Figlio Gesù Cristo nello Spirito santo";
b ) possa abitualmente trovare Cristo nella familiare comunione della preghiera;
c ) abbia imparato a tenere in mano con fede amorosa la parola di Dio nella sacra Scrittura e, quindi, a trasmetterla agli altri;
d ) desideri e goda di visitare e adorare Cristo sacramentalmente presente nell'eucaristia;
e ) ami ardentemente, secondo lo spirito della chiesa, la vergine Maria, madre di Cristo, a lui associata in modo speciale nell'opera della redenzione;
f ) consulti volentieri i documenti della sacra tradizione, le opere dei padri e gli esempi dei santi;
g ) sappia scrutare e giudicare se stesso, cioè la sua coscienza e i suoi criteri, con retta e sincera intenzione.

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Il sacerdote potrà mantenere fede a tutto questo, solamente se, mentre è alunno del seminario, si è applicato fedelmente agli esercizi di pietà raccomandati dalla veneranda tradizione e prescritti dal piano del seminario, e ne ha capito esattamente l'importanza e l'efficacia. Se sarà necessario adattare alle nuove esigenze l'uno o l'altro di tali esercizi, si deve fare in modo che le finalità essenziali legate a tale esercizio siano sempre ben presenti nell'animo, cercando di farle raggiungere in altra maniera adatta.

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55. Essendo ogni giorno necessaria la conversione dell'anima alla sequela di Cristo e allo spirito evangelico, deve essere inculcata ai futuri sacerdoti la virtù della penitenza, per mezzo di comuni atti penitenziali, sia per la loro formazione personale sia in vista dell'educazione degli altri. Si sforzino costantemente per ottenere il gusto della vita di unione a Cristo crocifisso e la purezza del cuore. A tal fine pertanto chiedano con fervore l'aiuto della grazia necessaria, e si abituino in modo particolare ad accostarsi con frequenza al sacramento della penitenza, che consacra in qualche modo lo sforzo penitenziale di ciascuno; perciò ognuno abbia il suo direttore spirituale, al quale aprirà con umiltà e confidenza la propria coscienza per essere più sicuramente diretto nella strada del Signore. Il direttore spirituale e il confessore siano scelti con piena libertà dagli alunni fra quelli che il vescovo ha ritenuto idonei per tale ministero.

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56. Al sacerdozio si giunge solamente per gradi: questi sono indicati dagli ordini minori, che dispongono a determinate funzioni ecclesiastiche, dopo aver compiuta una buona iniziazione pedagogica e spirituale. In realtà la formazione spirituale degli alunni procede per gradi ed esige idonei adattamenti secondo l'età, l'esperienza e la capacità dei singoli. Per promuoverla più efficacemente giovano molto alcuni tempi determinati di più intenso tirocinio, come per es., in occasione dell'ingresso in seminario, all'inizio del corso teologico o in occasione dell'approssimarsi dell'ordinazione sacerdotale, ecc. Perché poi gli sforzi dei giovani nella vita spirituale siano costantemente stimolati e ordinati nel senso di una spiritualità sacerdotale vera ed adulta secondo lo spirito della chiesa, si darà agli alunni, oltre alla direzione spirituale individuale, in determinati periodi fissati dal piano di ciascun seminario, una istruzione ed un insegnamento spirituale adatto ai problemi e alla mentalità dei giovani d'oggi; si pratichino, inoltre, la revisione di vita, il ritiro spirituale periodico e altre simili iniziative spirituali; ogni anno per alcuni giorni tutti facciano gli esercizi spirituali.

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57. Secondo l'esempio e i consigli di Cristo (cf. Mt 6,6; 14,13; Mc 6,31.46), che fra le occupazioni quotidiane volentieri cercava la solitudine per potere più intensamente pregare il Padre, gli alunni cerchino di favorire "la vita nascosta con Cristo in Dio (cf. Col 3,3), donde scaturisce e riceve impulso l'amore del prossimo per la salvezza del mondo e la edificazione della chiesa". Siano perciò solleciti di conservare il silenzio esterno necessario al silenzio interiore, alla riflessione, al lavoro e alla quiete di tutta la comunità.

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58. Il conveniente contatto con gli uomini, fra i quali il Salvatore, mandato dall'amore del Padre (cf. 1Gv 4,9), ha compiuto la sua opera di redenzione, permetterà all'alunno di formarsi al giusto discernimento dei segni dei tempi, a dare un giudizio degli avvenimenti alla luce del vangelo, alla retta interpretazione delle varie circostanze e necessità della vita umana, che contengono veri "germi del Verbo, in esse nascosti", e che richiedono "di essere illuminati alla luce del vangelo, e di essere liberati e riferiti al dominio di Dio salvatore". In questo contatto con il mondo è necessario essere vigilanti perché tutte queste esperienze siano ordinate al fine pastorale del seminario e gli alunni vengano preparati spiritualmente in modo tale che l'attività futura non sia di impedimento, ma piuttosto di aiuto a incrementare e irrobustire la vita spirituale.

Capitolo Nono: LA FORMAZIONE INTELLETTUALE IN GENERE

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59. La formazione intellettuale ha come fine l'acquisizione da parte degli alunni di un'ampia e solida istruzione nelle scienze sacre insieme con una cultura generale proporzionata alle necessità dei nostri tempi, affinché siano in grado, dopo aver fondato e nutrito la loro stessa fede sulle scienze sacre, di annunziare convenientemente il messaggio evangelico agli uomini d'oggi e di inserirlo nella loro cultura.
Tale informazione intellettuale abbraccia:
a ) un supplemento di formazione letteraria e scientifica, ove ce ne sia bisogno, dopo il corso di cui al n. 16;
b ) la formazione filosofica;
c ) la formazione teologica.

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60. La varietà di criteri con i quali questi studi possono essere coordinati, si può ridurre a tre specifici modelli:
A ) In periodi distinti e successivi vengono compiuti: gli studi letterari e scientifici (secondo la loro necessità); gli studi filosofici; gli studi teologici.
B ) Gli studi letterari e scientifici vengono condotti insieme con gli studi filosofici (cf. American College ); dopo si compiono gli studi teologici.
C ) Dopo gli studi letterari e scientifici, gli studi filosofici vengono compiuti unitamente agli studi teologici, in modo che la filosofia venga insegnata insieme con la teologia; in tal caso, tuttavia, bisognerà curare che la filosofia sia insegnata come disciplina distinta e col suo metodo specifico, evitando che sia ridotta a una trattazione frammentaria e saltuaria dei problemi, svolta unicamente in funzione di speciali questioni teologiche. Questi modelli, qui riportati a titolo esemplificativo, non escludono altri e diversi criteri di impostazione degli studi. In ciascun Piano di formazione sacerdotale si indichino le modalità scelte ed approvate dalla conferenza episcopale, tenendo conto riguardo anche delle situazioni concrete del paese.

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61. Qualunque sia l'ordinamento degli studi adottato, è necessario notare accuratamente quanto segue:
a ) si inizi sempre con il corso introduttivo al mistero di Cristo, di cui si tratta nel numero seguente;
b ) nel caso che la filosofia e la teologia siano insegnate in periodi distinti, si dovranno coordinare alcune discipline filosofiche e teologiche, soprattutto per quanto riguarda la teodicea e il trattato dogmatico su Dio; l'etica e la teologia morale; la storia della filosofia, della chiesa, dei dogmi, ecc.;
c ) il tempo destinato agli studi filosofici deve corrispondere ad almeno un biennio (oppure ad un congruo numero di cosiddette ore semestrali , secondo i sistemi scolastici vigenti in alcune nazioni); agli studi teologici si deve dedicare almeno un quadriennio (ovvero un proporzionato numero di ore semestrali ), in modo tale che complessivamente gli studi teologici e filosofici abbraccino almeno un sessennio (oppure, secondo altri ordinamenti degli studi, quella quantità di materia scolastica che viene trattata comunemente nel sessennio).

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62. L'introduzione al mistero di Cristo e alla storia della salvezza, che deve essere insegnata all'inizio del corso filosofico e teologico, tende a far comprendere agli alunni il significato degli studi ecclesiastici, la loro struttura e il loro fine pastorale; nel contempo tende anche ad aiutare gli alunni perché possano dare solido fondamento alla loro fede, capire più profondamente e abbracciare con maggiore maturità la vocazione sacerdotale. In ciascun Piano di formazione sacerdotale saranno determinati la durata e le materie del corso, tenendo conto delle esperienze delle rispettive nazioni e della chiesa universale. E' necessario altresì dare a questo corso una intima coerenza rispetto agli studi teologici e garantire la continuità, soprattutto attraverso una meditata lettura della sacra Scrittura sotto la guida dei professori.

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63. I professori nell'insegnamento delle rispettive discipline saranno pertanto continuamente attenti all'intrinseca unità e armonia dell'intera dottrina della fede (cf. n. 90), badando a porre un particolare accento sul suo aspetto salvifico. A tale scopo, sarà opportuno (verso la fine del normale corso degli studi oppure, se le conferenze episcopali lo riterranno preferibile, dopo qualche anno di esperienza pastorale) riservare un congruo periodo di tempo, anche sufficientemente protratto, durante il quale gli alunni possano, sotto la guida di insegnanti e in forza della formazione culturale-teologica già ricevuta, meglio comprendere e quasi contemplare ed esperimentare la parola di Dio nella sua semplice unità, come è necessario trasmetterla ai fedeli per la loro salvezza, in quanto sarà possibile far convergere su ciascuna parte la luce di tutte le discipline che prima venivano insegnate separatamente. Si raccomanda vivamente questo periodo di sintesi, affinché le nozioni acquisite non rimangano frammentarie e avulse l'una dall'altra, ma siano adeguatamente collegate a vantaggio spirituale dei fedeli e degli stessi sacerdoti, i quali, consci ormai della utilità della scienza ricevuta, sentiranno un maggiore amore verso le discipline sacre.

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Nel caso che i vescovi " o singolarmente o per comune disposizione della conferenza " abbiano secondo l'opportunità stabilito d'instaurare per uno o più anni l'esercizio del diaconato alla fine del normale corso di studi (cf. n. 42 c ), sarà più utile trasferire la suddetta sintesi di tutte le discipline (e cioè la visione armonica ed unitaria delle varie discipline) quando i diaconi ritorneranno in seminario per prepararsi al sacerdozio. Questo periodo poi dovrà essere sufficientemente lungo, affinché la preparazione immediata al sacerdozio sia veramente efficace.

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64. Durante tutta la formazione intellettuale si abbia diligente cura di adattarla alle diverse culture, affinché gli alunni siano in grado di approfondire ed esprimere il messaggio di Cristo secondo le modalità e le caratteristiche di ciascuna, e di potere conseguentemente adattare la vita cristiana alla mentalità e all'indole delle rispettive culture. Pertanto i professori di filosofia e di teologia nelle loro lezioni non omettano di istituire un confronto sistematico tra la dottrina cristiana e le più profonde concezioni su Dio, sul mondo e sull'uomo, che i popoli hanno elaborato secondo le proprie tradizioni religiose. Anzi, per quanto è possibile, non omettano di arricchire la sapienza filosofica e l'intelligenza della fede con tali concezioni.

Capitolo Decimo: GLI STUDI LETTERARI E SCIENTIFICI

1022 65. E' necessario che gli alunni, prima di accedere agli studi specificamente sacerdotali, abbiano condotto a termine i normali studi secondari (cf. n. 16) nella misura richiesta in ciascuna nazione per l'ammissione agli studi accademici, e abbiano possibilmente ottenuto il titolo civile corrispondente.

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66. Sia prima che durante i corsi di filosofia, come è stato indicato al n. 60, bisognerà ovviare alle eventuali lacune che si riscontrassero nei candidati al sacerdozio al termine degli studi secondari circa materie necessarie per i medesimi candidati al sacerdozio (ad esempio, una adeguata conoscenza del latino secondo il permanente desiderio della chiesa). Struttura e programma di tali discipline dovranno essere indicati nel Piano di formazione sacerdotale.

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67. Gli alunni imparino altresì quelle lingue (oltre alla lingua nazionale) che siano necessarie e utili per il futuro ministero pastorale, tenendo conto anche dei relativi programmi delle scuole statali. Venga anche insegnato un modo di esprimersi adatto agli uomini di oggi, come anche l'arte " davvero necessaria per i sacerdoti " di parlare, di scrivere e di penetrare la natura dei problemi. Sia inoltre data agli alunni una conveniente formazione musicale, per quanto concerne la musica sia sacra che profana.

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68. Poiché nella società d'oggi la mentalità corrente degli uomini è influenzata e ispirata non soltanto dai libri e dai maestri ma sempre più largamente dai mezzi audiovisivi, è sommamente necessario che i sacerdoti sappiano usarli bene, non restando passivi di fronte a tali mezzi, ma sempre capaci di giudizio critico. Ciò sarà impossibile se in seminario non saranno stati educati da persone competenti, con idonee esercitazioni teoriche e pratiche, sempre tuttavia con la doverosa prudenza e misura. In tal modo i sacerdoti " in riferimento ai suddetti mezzi audiovisivi " potranno regolarsi, e formare i fedeli, e anche usarne efficacemente nell'attività pastorale.

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69. Già sin dai primi anni di seminario, e più diffusamente man mano che vanno avanti nell'età e nella formazione, gli alunni siano iniziati alle necessità della vita sociale delle rispettive nazioni, cosicché dallo studio delle varie discipline e dall'attenzione prestata ai rapporti con gli uomini e con la realtà e agli eventi quotidiani, gli alunni imparino a conoscere in giusta misura i problemi e le controversie sociali, a investigarne la natura, le reciproche relazioni, difficoltà e conseguenze, e finalmente trovare le giuste soluzioni alla luce della legge naturale e dei precetti evangelici.

Capitolo Undicesimo: GLI STUDI DI FILOSOFIA E DELLE SCIENZE AFFINI

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70. Gli studi di filosofia e delle scienze affini, che " in qualsiasi modo siano ordinate le discipline durante gli anni della formazione (cf. n. 60) " devono corrispondere a un intero biennio, hanno come scopo di perfezionare la formazione umana dei giovani, stimolando in loro il senso dell'intelligenza critica e procurando una più profonda conoscenza della cultura antica e moderna di cui la famiglia umana si è venuta arricchendo lungo il corso dei secoli. Tali studi siano condotti in modo tale da aiutare l'alunno a penetrare e a vivere più profondamente la propria fede, e, nello stesso tempo, a prepararlo agli studi teologici, a disporlo ad esercitare convenientemente il ministero apostolico, cosicché possa essere stabilito un dialogo con gli uomini del nostro tempo nelle forme più adeguate.

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71. Particolare importanza sia attribuita alla filosofia sistematica , e a tutte le sue parti, che porta ad acquistare una solida e coerente conoscenza dell'uomo, del mondo e di Dio. Questa formazione filosofica deve basarsi sul patrimonio filosofico perennemente valido, di cui sono testimoni i più grandi filosofi cristiani, i quali hanno trasmesso i primi principi filosofici dotati di perenne valore, in quanto hanno fondamento nella stessa natura. Poste queste salde premesse, si deve tener conto delle ricerche filosofiche della nostra età in evoluzione, soprattutto di quelle che esercitano un maggiore influsso nel proprio paese, e inoltre del progresso delle scienze moderne, di modo che gli alunni, giustamente coscienti dei caratteri dell'epoca moderna, siano adeguatamente preparati al dialogo con gli uomini.

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72. Con uguale diligenza deve essere insegnata la Storia della filosofia , affinché siano chiari sia la genesi che lo sviluppo dei più importanti problemi, e gli alunni, tra le diverse soluzioni proposte nel corso dei secoli, siano capaci di discernere gli elementi veri e di scoprire e respingere quelli falsi.

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73. Si insegnino anche le scienze affini , quali sono le scienze naturali e la matematica, quanto ai problemi connessi con la filosofia, tenuto conto tuttavia delle debite proporzioni, in modo che offrano un utile complemento alle discipline principali e sia evitata una erudizione enciclopedica e superficiale.

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74. Nell'esposizione di tutte le discipline si deve tener conto sia dell'importanza intrinseca dei singoli problemi, sia dell'interesse che possono avere al presente per gli alunni e per la situazione specifica del paese.

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75. Nel Piano di formazione sacerdotale (o nell'appendice) si riporti il prospetto di tutte le discipline che riguardano il corso filosofico, indicando brevemente il programma delle singole discipline, il numero degli anni o di semestri e l'orario settimanale delle lezioni. Se poi, per varie circostanze (come, ad es., può accadere in paesi grandi e molto estesi, dove vige una diversità di sistemi), questo non si può attuare se non a prezzo di grandi difficoltà o non può essere assolutamente attuato, si indichino almeno alcuni modelli di programmi che possano offrire degli indirizzi sicuri ad utilità di tutti.

Capitolo Dodicesimo: GLI STUDI TEOLOGICI

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76. Gli studi teologici, che debbono durare almeno per un intero quadriennio, mirano a far sì che gli alunni penetrino più profondamente la dottrina diligentemente attinta dalla divina rivelazione nella luce della fede e sotto l'autorevole guida del magistero; la convertano in alimento della propria vita spirituale; la custodiscano nel ministero sacerdotale e siano in grado di annunciarla e di esporla per il bene spirituale dei fedeli.

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77. Le discipline teologiche, avuti presenti i vari aspetti (ecumenico, missionario, ecc.), siano insegnate in modo tale da fare chiaramente risaltare la loro intima connessione; da mettere nella debita luce il mistero della chiesa; e da farle armonicamente convergere tutte insieme " ciascuna a suo modo " nella spiegazione della storia della salvezza, che di continuo si attua nella vita della chiesa e nelle vicende del mondo.

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78. La sacra Scrittura è come l'anima di tutta la teologia e deve informare tutte le discipline teologiche. Sia attribuita pertanto la debita importanza alla formazione biblica. Premessa una conveniente introduzione, gli alunni siano accuratamente iniziati ai metodi esegetici con l'aiuto delle discipline ausiliarie. Siano idoneamente edotti da professori circa la natura e la soluzione dei principali problemi e vengano efficacemente aiutati ad acquistare uno sguardo d'insieme dell' intera sacra Scrittura ed a capire con maggiore profondità i punti più salienti della storia della salvezza. Si sforzino parimenti i professori di offrire ai seminaristi una sintesi teologica della divina rivelazione, per assicurare dei solidi fondamenti alla loro vita spirituale ed alla loro futura predicazione.

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79. La sacra liturgia deve essere ora considerata una delle discipline principali; perciò deve essere presentata non soltanto sotto l'aspetto giuridico, ma soprattutto sotto l'aspetto teologico, spirituale e pastorale in connessione con le altre discipline, di modo che gli alunni conoscano prima di tutto in qual modo i misteri della salvezza siano presenti ed operino nelle azioni liturgiche. Inoltre, spiegati i testi e i riti sia dell'oriente che dell'occidente, la sacra liturgia sia illustrata come un "luogo teologico" di particolare importanza, attraverso il quale si esprime la fede della chiesa e la sua vita spirituale. Infine devono essere esposte agli alunni le norme riguardanti la riforma liturgica, affinché capiscano meglio gli adattamenti o i cambiamenti stabiliti dalla chiesa; siano anche in grado di discernere le cose che possono essere legittimamente mutate e, in mezzo ai problemi più gravi e più difficili oggi spesso dibattuti, sappiamo distinguere la parte immutabile della liturgia, in quanto di istituzione divina, dalle altre parti che possono andare soggette a mutamenti.

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La teologia dogmatica sia insegnata integralmente ed ordinatamente, in modo tale che prima di tutto siano esposti i testi biblici, poi si facciano conoscere gli apporti dei padri della chiesa di oriente e di occidente ai fini della trasmissione e dello sviluppo delle verità rivelate; si esponga il progresso storico dei dogmi; ed infine, mediante l'indagine speculativa, sotto la guida di s. Tommaso, gli alunni imparino ad approfondire i misteri della salvezza e a capire i loro legami; si insegni che questi misteri sono sempre presenti e operanti nelle azioni liturgiche; imparino inoltre gli alunni a cercare le soluzioni ai problemi umani con l'aiuto della rivelazione, a vedere le eterne verità inserite nelle condizioni mutabili della realtà umana, e a comunicarle convenientemente agli uomini. Nulla tuttavia impedisce che l'esposizione dei dogmi cominci dalle definizioni conciliari col cosiddetto metodo regressivo , risalendo attraverso la dottrina dei padri alla sacra Scrittura, che in tal modo può essere letta e capita nella luce della tradizione viva della chiesa.

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Nei modi idonei e fin dall'inizio della formazione teologica sia presentata la chiara dottrina circa le fonti teologiche; né si ometta, nello spirito ecumenico e in forme adatte alle odierne circostanze, tutto ciò che andava sotto il nome di apologetica , e che riguarda la preparazione alla fede ed i suoi fondamenti razionali ed esistenziali, tenuti pure presenti gli elementi di ordine sociologico che esercitano particolare influsso sulla vita cristiana.

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Anche la teologia morale dovrà essere ancorata alla sacra Scrittura. Illustrerà la vocazione cristiana dei fedeli fondata sulla carità, esponendo in modo scientifico i loro obblighi. Cercherà di trovare una soluzione ai problemi umani alla luce della rivelazione e di applicare le verità eterne alle diverse condizioni della realtà umana. Si preoccuperà pure di restaurare nella coscienza degli uomini il senso della virtù e del peccato, senza trascurare, a questo fine, le scoperte più recenti della sana antropologia. Questa dottrina morale ha il suo completamento nella teologia spirituale , che, tra le altre cose, deve abbracciare anche lo studio della teologia e della spiritualità del sacerdozio e della vita consacrata mediante l'esercizio dei consigli evangelici, affinché si possano dirigere gli uomini, ciascuno secondo il proprio stato, verso la via della perfezione.

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La teologia pastorale dovrà illustrare i principi teologici dell'azione con cui la volontà salvifica di Dio può essere portata ad effetto nella chiesa di oggi per mezzo di diversi ministeri e istituzioni.

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E poiché una solida formazione in materia sociale porta un non piccolo contributo al buon successo del compito pastorale, si deve curare che almeno un numero determinato e sufficiente di lezioni sia riservato all'insegnamento della dottrina sociale della chiesa , affinché gli alunni imparino come la dottrina e i princìpi evangelici debbano essere adattati alla vita sociale.

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La storia ecclesiastica deve illustrare l'origine e lo sviluppo della chiesa come popolo di Dio che si diffonde nel tempo e nello spazio, esaminando scientificamente le fonti storiche. Nell'esposizione della materia è necessario che si tenga conto del progresso delle dottrine teologiche e della concreta situazione della realtà sociale, economica e politica, nonché delle opinioni e delle dottrine che hanno esercitato più forte influsso, dopo averne studiato a fondo la reciproca interdipendenza, la connessione, l'evoluzione. Si dovrà infine mettere in risalto il mirabile incontro dell'azione divina e dell'azione umana, e favorire negli alunni il genuino senso della chiesa e della tradizione. E' necessario anche che sia accordata la dovuta attenzione alla storia della propria regione.

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Il diritto canonico sia insegnato tenendo conto del mistero della chiesa, dal concilio Vaticano II più profondamente scrutato. Nell'esporre i princìpi e le leggi si dovrà, tra l'altro, far vedere come tutto l'ordinamento e la disciplina ecclesiastica debbano essere rispondenti alla volontà salvifica di Dio, cercando in tutto il bene delle anime.

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80. Siano pure determinate le discipline ausiliarie e i corsi speciali, e quali debbano essere necessariamente o liberamente scelti. Nello stesso tempo sia data agli alunni l'opportunità di imparare le lingue ebraica e greco-biblica, per mezzo delle quali possano accostare, capire e spiegare i testi biblici originali. Più che moltiplicare il numero delle discipline bisognerà cercare di inserire adeguatamente in quelle già prescritte nuove questioni o nuovi aspetti.

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Si faccia pure in modo che gli alunni siano guidati ad una più profonda conoscenza delle chiese e delle comunità ecclesiali separate dalla sede apostolica, per poter contribuire al ristabilimento della unità, tenendo conto del decreto Sull'ecumenismo e del Direttorio ecumenico promulgato dalla Santa Sede. Si provveda parimenti perché gli alunni siano introdotti alla conoscenza delle altre religioni che sono più diffuse in ogni paese, perché riconoscano quanto vi è in esse di buono e di vero, rifiutino gli errori, e possano comunicare la piena luce della verità a quanti non la posseggono. Né deve essere posta minor cura nel trattare anche sotto i vari aspetti le questioni relative all'ateismo moderno, perché i futuri sacerdoti diventino più capaci di adempiere i gravi compiti pastorali che ne derivano.

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81. Nel Piano di formazione sacerdotale (o in appendice) sia riportato il prospetto di tutte le discipline del corso teologico, indicandone brevemente il programma, il numero degli anni o dei semestri, nonché l'orario settimanale delle lezioni. Se questo risultasse molto difficile o non potesse assolutamente essere fatto nelle nazioni più grandi, molto estese per territorio, ove è in atto una legittima diversità nell'ordinamento degli studi, approvata dalla conferenza episcopale, siano almeno indicati, come esempio, alcuni punti più generali degli studi.

Capitolo Tredicesimo: STUDI DI SPECIALIZZAZIONE IN VISTA DI COMPITI PARTICOLARI

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82. L'apostolato moderno esige sempre più, oltre alla formazione generale a tutti comune, di cui sopra s'è detto, che ci sia una preparazione specializzata con riferimento specifico alla diversità dei compiti che saranno svolti dai singoli.

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83. Assicurata su salde basi una formazione generale filosofico-teologica per tutti, una tale preparazione specializzata può essere di duplice tipo:
A ) Un primo tipo di specializzazione è molto utile ai sacerdoti in vista dell'attività pastorale, e può essere acquisita già in seminario, soprattutto durante l'ultimo anno, senza che sia necessaria la frequenza di istituti specializzati; ad es., la preparazione all'apostolato con particolari categorie di persone (operai, contadini, ecc.).
B ) Un secondo tipo di specializzazione è necessaria ai sacerdoti destinati a compiti e uffici che esigono una specifica preparazione in istituti specializzati, ad es., la preparazione all'insegnamento delle scienze sacre o profane.

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84. Si dovrà fare in modo che quanto riguarda il punto A) sia svolto durante il sessennio filosofico e teologico. E questo si può ottenere, ad esempio:
a ) mediante l'insegnamento, in idoneo e armonico legame con la formazione generale, di particolari discipline, sia durante l'anno scolastico (soprattutto durante gli ultimi anni), sia durante le vacanze, seguendo un preciso programma e conservando la dovuta proporzione con le discipline principali;
b ) strutturando il primo quinquennio in modo tale che vi siano comprese tutte o quasi tutte le discipline comuni, e riservando il sesto anno a corsi e discipline speciali.

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Con questi ed altri criteri possibili gli alunni avranno una diversa specializzazione secondo le rispettive attitudini e soprattutto secondo le necessità della diocesi, di cui il vescovo sarà giudice. Nel Piano di formazione sacerdotale sia indicato quanto in proposito avranno stabilito le conferenze episcopali per le rispettive regioni e secondo le possibilità dei seminari.

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85. Per quanto concerne il punto B ) è necessario che i candidati, compiuta la loro formazione generale e anche dopo aver acquisito una certa esperienza pastorale, siano inviati in quegli istituti superiori o facoltà dove è possibile ottenere tale formazione specializzata, con i corrispondenti diplomi o gradi accademici. A tal fine si dovranno scegliere alunni davvero capaci per indole, virtù e ingegno; si deve curare altresì con diligenza che venga portata a pieno compimento la loro formazione spirituale e pastorale, soprattutto se ancora non sono sacerdoti.

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Nelle rispettive regioni le conferenze episcopali stabiliscano a tale proposito norme opportune e, dove esistono seminari maggiori nei quali gli studi teologici siano strutturati con metodo scientifico, esaminino la possibilità di affiliarsi a qualche facoltà teologica, affinché parecchi alunni del seminario possano conseguire il primo grado accademico in teologia (baccellierato), sotto la direzione della medesima facoltà. Data la significativa importanza dei collegi romani in quanto offrono una grande possibilità e varietà di indirizzi di studio, siano conservati gli stretti vincoli tra le conferenze episcopali e i rispettivi collegi, affinché il loro specifico compito venga incrementato dal comune sforzo e risponda nel modo migliore alle necessità delle nazioni e della chiesa universale.

Capitolo Quattordicesimo: L'INSEGNAMENTO DOTTRINALE

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86. Il primo fondamento e il contesto autentico dell'intera formazione sacerdotale è la divina rivelazione, della quale gli alunni devono diventare ministri devoti e fedeli. Perciò i professori e gli alunni aderiscano fedelmente alla parola di Dio scritta e tramandata, la amino, la meditino assiduamente e la rendano alimento spirituale della propria vita. Attingano il vivo senso della tradizione " che insieme con la sacra Scrittura costituisce un solo sacro deposito della parola di Dio affidato alla chiesa " anzitutto dalle opere dei santi padri, stimando la loro dottrina e quella degli altri dottori che nella chiesa sono tenuti in gran conto. Ritengano s. Tommaso d'Aquino come uno dei massimi maestri della chiesa e diano anche il giusto rilievo agli autori più recenti.

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87. I professori delle scienze ecclesiastiche, che hanno nella chiesa un compito onorifico ma anche carico di responsabilità, insegnano non in nome proprio ma della chiesa, dalla quale hanno ricevuto il mandato. Tenendo quindi presente la propria peculiare situazione all'interno del corpo di Cristo, rendano sempre manifesto il senso ecclesiale con docile ossequio verso il magistero, in modo da contribuire all'edificazione della fede sia degli alunni sia di tutti i fedeli.

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88. I professori si tengano al corrente dello stato presente e del progresso della teologia; godano della giusta libertà di ricerca e di esprimere il loro pensiero, avendo cura tuttavia di procedere a proposito delle nuove problematiche come leali "cooperatori della verità", sempre con l'equilibrio e la prudenza che sono richiesti dalla dignità del proprio compito e della stessa verità rivelata. Secondo i diversi gradi di certezza teologica, i professori distinguano nell'insegnamento quanto è dottrina di fede e quanto è provato dal consenso dei dottori; e ciò non può essere efficacemente fatto se non si usa un valido testo di base. Dopo aver anzitutto esposto chiaramente la dottrina certa, i professori propongano con modestia le spiegazioni probabili, nuove, e anche le proprie.

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89. Pur coltivando sempre più profondamente la dottrina della chiesa, si deve pure fare in modo che gli alunni siano giustamente e con misura aperti alla cultura moderna. I professori, pertanto, tenendo presente questo obiettivo, procurino di formare nei candidati al sacerdozio un doveroso equilibrio e un sano senso critico. In tal modo gli alunni impareranno a procedere criticamente nel giudizio della cultura d'oggi e nella lettura degli autori, appropriandosi di ciò che è buono e rigettando ciò che non lo è. A tal fine sarà molto utile la lettura, insieme con i professori, di riviste e libri, seguita da una discussione critica.

Capitolo Quindicesimo: METODO D'INSEGNAMENTO

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90. Si riesamini periodicamente la struttura delle discipline, omettendo le questioni non più attuali e dando maggiore e più idoneo spazio a quelle che continuano ad essere di attualità. Come è già stato suggerito (cf. n. 80), non si introducano facilmente nuove discipline, ma piuttosto i nuovi problemi vengano inseriti al punto giusto nei trattati già esistenti. I professori abbiano coscienza e volontà di formare un unico organismo: infatti la auspicata unità di insegnamento verrà ottenuta solo quando la stessa unità sia presente, al tempo stesso, nei docenti. Si preoccupino delle reciproche relazioni tra le discipline e della loro unità, affinché gli alunni imparino ed esperimentino non molte dottrine, ma una sola, quella cioè della fede e del vangelo. Per conseguire più facilmente tale scopo, ci sia in seminario un responsabile dell'intero corso degli studi.

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91. Siano anche riesaminati i metodi didattici; in questo lavoro si tenga conto di quanto segue:
a ) Nei corsi istituzionali di tutte le discipline si deve avere, stando al parere comune dei professori, un determinato numero di lezioni per poter esporre dettagliatamente le norme generali per lo studio privato e indicare la bibliografia.
b ) Si istituiscano seminari ed esercitazioni per stimolare l'attiva partecipazione degli alunni. I professori che devono dirigere queste esercitazioni siano consci dell'importanza del loro compito, che deve essere svolto con diligenza pari a quella dovuta alle lezioni.
c ) Si favorisca il lavoro svolto in piccoli gruppi sotto la direzione di un docente, e lo studio privato guidato dai professori con frequenti colloqui, di modo che gli alunni imparino pure un metodo personale per il lavoro scientifico.
d ) Infine, i candidati al sacerdozio siano introdotti a studiare con metodo scientifico i vari problemi pastorali della diocesi, in modo che attraverso il comune studio teologico degli avvenimenti, appaia loro più manifesto l'intimo legame tra la vita stessa e la pietà e la scienza attinta nelle lezioni; e detto studio contribuisca ad una più completa preparazione teologica degli alunni. Per poter rispondere degnamente alle istanze di tutti questi metodi e dello studio personale, è necessario che i professori siano in numero sufficiente e preparati per il loro compito.

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92. Strumento necessario per lo studio sia dei professori che degli alunni è la biblioteca; un bibliotecario capace e preparato a tale ufficio ne curi in ciascun seminario l'ordine e la conservazione. Con l'aiuto di coloro cui compete, deve essere continuamente accresciuta mediante lo stanziamento di una somma annua fissata con liberalità.
Gli alunni siano edotti sull'uso della biblioteca secondo la metodologia recente.

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93. Periodicamente gli alunni devono dare prova del loro profitto negli studi con colloqui, dissertazioni scritte ed esami, il cui preciso metodo deve essere fissato dalle conferenze episcopali.

Capitolo Sedicesimo: FORMAZIONE PROPRIAMENTE PASTORALE

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94. Poiché il fine del seminario è di formare pastori di anime (cf. n. 20), tutta la formazione sacerdotale deve essere caratterizzata dallo spirito pastorale, che perciò deve essere messo in luce particolare in tutte le discipline. Deve però essere data anche una formazione strettamente pastorale, adatta alle diverse condizioni delle regioni, poiché in alcune di esse la vita religiosa è fervente, altre si fanno notare per la trascurata e inesistente religiosità, altre ancora sono divise in più confessioni o religioni. Questa formazione deve riguardare anzitutto la catechesi e l'omiletica, la celebrazione dei sacramenti, la direzione spirituale secondo i vari stati di vita, l'amministrazione della parrocchia (incluse le questioni economiche), il dialogo pastorale con gli acattolici e i non credenti, e quanto altro sia necessario per l'edificazione del corpo di Cristo.

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Gli alunni, tuttavia, assieme a questa istruzione cerchino di acquistare la capacità di saper essere presenti nella vita dei fedeli con reale attenzione e con animo pastorale. Per questa più piena conoscenza degli uomini e delle cose non poco potranno essere aiutati dalle scienze psicologiche, pedagogiche, nelle quali però dovranno essere istruiti secondo i retti metodi e le norme dell'autorità ecclesiastica.

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95. Gli alunni devono essere istruiti anche sulle varie forme dell'apostolato moderno: sull'azione cattolica e le altre associazioni, sulla cooperazione con i diaconi, sul modo di agire con i laici per risvegliare e favorire la loro specifica attività apostolica e promuovere ogni giorno più la loro collaborazione, sul modo di andare incontro a tutti gli uomini secondo le diverse circostanze di luogo e condizioni di vita, e inoltre sull'arte di impostare con loro un fruttuoso dialogo.

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Particolare attenzione sia pure data alla preparazione degli alunni circa i retti e sani rapporti con le donne, perché, bene istruiti sul loro specifico carattere e psicologia a seconda del diverso stato di vita e le diverse età, nell'adempiere il ministero pastorale possano offrire loro una cura spirituale più efficace e si possano comportare con quella sobrietà e prudenza che conviene ai ministri di Cristo.

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96. Gli alunni siano animati da spirito veramente cattolico, per cui sappiano trascendere i confini della propria diocesi, nazione o rito, e siano disposti ad aiutare gli altri con animo generoso. Per questo siano resi coscienti delle necessità di tutta la chiesa, come sono i problemi ecumenici, missionari e gli altri più urgenti delle diverse parti del mondo. Con speciale cura gli alunni siano preparati anche a stabilire il dialogo con i non credenti.

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97. Col prudente giudizio dei vescovi siano introdotte per tutto il corso degli studi, sia durante l'anno scolastico sia durante le vacanze, attività pastorali, necessarie alla formazione pastorale propriamente detta secondo l'età degli alunni e le circostanze ambientali. Poiché oggi accade spesso che, durante le vacanze, gli alunni si rechino nei paesi stranieri per fare esperienze pastorali, è molto conveniente che le conferenze episcopali interessate stabiliscano di comune accordo opportune norme, perché si ottenga più efficacemente il fine specifico di simili esperienze.

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98. Durante l'anno scolastico, tenuto conto dell'ubicazione del seminario, del numero degli alunni e di altre circostanze, siano scelte quelle attività che sembrano più convincenti, quali: fare catechismo, avere una parte attiva nelle celebrazioni liturgiche della parrocchia nei giorni festivi, visitare gli ammalati, i poveri e carcerati, aiutare i sacerdoti che hanno cura spirituale dei giovani e degli operai, ecc.

1068
Il tempo da attribuirsi a queste attività tenga però giusto conto delle necessità degli studi; inoltre siano condotte alla luce dei princìpi teologici e con riflessione, sotto la guida di sacerdoti veramente esperti e prudenti, che assegnino a ciascuno un compito, li istruiscano nel modo di agire, siano presenti durante lo svolgimento delle attività, facciano riflettere gli alunni sul lavoro svolto, cosicché vengano dati loro gli opportuni consigli. Queste attività, anziché nuocere alla formazione spirituale e intellettuale, le aiuteranno validamente.

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99. Attività di questo tipo potranno essere svolte più facilmente durante il tempo delle vacanze, secondo i criteri fissati dai superiori del seminario, o fornendo aiuto ai sacerdoti nel ministero pastorale o aiutando gli operai, ecc., sempre sotto la guida di persone esperte, come è detto nel numero precedente.

Capitolo Diciassettesimo: FORMAZIONE DA CONTINUARSI DOPO IL SEMINARIO

1070
100. La formazione sacerdotale per sua natura è tale da dover essere continuata durante tutta la vita, particolarmente nei primi anni dopo la sacra ordinazione. Per questa ragione il decreto Optatam totius (n. 22) prescrive che la formazione sacerdotale deve essere proseguita e perfezionata dopo il seminario, per quanto riguarda l'aspetto spirituale, intellettuale e soprattutto pastorale, affinché i nuovi sacerdoti possano meglio intraprendere e proseguire il compito apostolico. A questo proposito si favorisca fra i sacerdoti l'attività svolta in équipe , che specialmente oggi può offrire molti vantaggi al ministero pastorale.

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101. Per perfezionare la formazione dopo il seminario, nel Piano di formazione sacerdotale siano indicate le iniziative che, secondo le necessità locali, la conferenza episcopale sceglie e raccomanda. Ne vengono proposte alcune più consuete come esempi:
a ) L'anno o il biennio pastorale, durante il quale i novelli sacerdoti abitano assieme e, ogni settimana, per alcuni giorni si dedicano alla scuola e allo studio pastorale e, negli altri giorni, esercitano il ministero nelle parrocchie.
b ) La formazione pastorale protratta per alcuni anni, durante i quali i giovani sacerdoti già addetti al ministero si radunano ogni settimana per uno o due giorni, per corsi e per studi aventi per oggetto la pastorale.
c ) I corsi da tenersi durante le vacanze o in altro tempo opportuno, mediante i quali i giovani sacerdoti esaminano i problemi pastorali, ne ricercano una soluzione, e inoltre preparano gli esami triennali.
d ) Il mese sacerdotale dopo circa cinque anni di ministero durante il quale i giovani sacerdoti si rinnovano spiritualmente con gli esercizi spirituali e si perfezionano ulteriormente, assistiti da esperti, sia nella scienza con corsi di aggiornamento, sia nella pratica pastorale, mediante discussione dei problemi relativi.

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Tutto questo però non avrà la desiderata efficacia, qualora non si abbia un coordinamento tra il seminario e i corsi del dopo-seminario e la direzione di questi non sia affidata ad un sacerdote davvero eminente per scienza, virtù ed esperienza. Infine è necessario che in tutte queste iniziative si abbia una fraterna collaborazione dei parroci e dei sacerdoti di età più matura e di maggiore esperienza, collaborazione che, perfezionando la formazione pastorale dei giovani sacerdoti, incrementi quella fraternità raccomandata dal decreto Presbyterorum ordinis (n. 8) e impedisca la frattura tra le nuove e le vecchie generazioni di sacerdoti. Il sommo pontefice Giovani Paolo II ha ratificato, confermato e ordinato di pubblicare il presente "Piano fondamentale di formazione sacerdotale", revisionato a norma del nuovo Codice di diritto canonico.

Roma, dal palazzo delle Congregazioni, 19 marzo 1985, solennità di san Giuseppe, sposo della b.v. Maria.

William card. Baum , prefetto.

Antonio M. Javierre Ortas ,
arciv. tit. di Meta, segretario

LA PERMANENTE VALIDITA' DEL MANDATO MISSIONARIO
Redemptoris Missio


INTRODUZIONE

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1. La missione di Cristo redentore, affidata alla chiesa, è ancora ben lontana dal suo compimento. Al termine del secondo millennio dalla sua venuta uno sguardo d'insieme all'umanità dimostra che tale missione è ancora agli inizi e che dobbiamo impegnarci con tutte le forze al suo servizio. E' lo Spirito che spinge ad annunziare le grandi opere di Dio: "Non è infatti per me un vanto predicare il vangelo; è per me un dovere: guai a me se non predicassi il vangelo!" (1Cor 9,16).

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A nome di tutta la chiesa, sento imperioso il dovere di ripetere questo grido di san Paolo. Già dall'inizio del mio pontificato ho scelto di viaggiare fino agli estremi confini della terra per manifestare la sollecitudine missionaria, e proprio il contatto diretto con i popoli che ignorano Cristo mi ha ancor più convinto dell'urgenza di tale attività, a cui dedico la presente enciclica.

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Il concilio Vaticano II ha inteso rinnovare la vita e l'attività della chiesa secondo le necessità del mondo contemporaneo: ne ha sottolineato la "missionarietà", fondandola dinamicamente sulla stessa missione trinitaria. L'impulso missionario, quindi, appartiene all'intima natura della vita cristiana e ispira anche l'ecumenismo: "Che tutti siano una cosa sola..., perché il mondo creda che tu mi hai mandato" (Gv 17,21).

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2. Molti sono già stati i frutti missionari del concilio: si sono moltiplicate le chiese locali fornite di propri vescovi, clero e personale apostolico; si verifica un più profondo inserimento delle comunità cristiane nella vita dei popoli; la comunione fra le chiese porta a un vivace scambio di beni spirituali e di doni; l'impegno evangelizzatore dei laici sta cambiando la vita ecclesiale; le chiese particolari si aprono all'incontro, al dialogo e alla collaborazione con i membri di altre chiese cristiane e religioni. Soprattutto si sta affermando una coscienza nuova: cioè che la missione riguarda tutti i cristiani, tutte le diocesi e parrocchie, le istituzioni e associazioni ecclesiali.

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Tuttavia, in questa "nuova primavera" del cristianesimo non si può nascondere una tendenza negativa, che questo documento vuol contribuire a superare: la missione specifica ad gentes sembra in fase di rallentamento, non certo in linea con le indicazioni del concilio e del magistero successivo. Difficoltà interne ed esterne hanno indebolito lo slancio missionario della chiesa verso i non cristiani, ed è un fatto, questo, che deve preoccupare tutti i credenti in Cristo. Nella storia della chiesa, infatti, la spinta missionaria è sempre stata segno di vitalità, come la sua diminuzione è segno di una crisi di fede.

552
A venticinque anni dalla conclusione del concilio e dalla pubblicazione del decreto sull'attività missionaria Ad gentes, a quindici anni dall'esortazione apostolica Evangelii nuntiandi del pontefice Paolo VI di v. m., desidero invitare la chiesa a un rinnovato impegno missionario, continuando il magistero dei miei predecessori a tale riguardo. Il presente documento ha una finalità interna: il rinnovamento della fede e della vita cristiana. La missione, infatti, rinnova la chiesa, rinvigorisce la fede e l'identità cristiana, dà nuovo entusiasmo e nuove motivazioni. La fede si rafforza donandola! La nuova evangelizzazione dei popoli cristiani troverà ispirazione e sostegno nell'impegno per la missione universale.

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Ma ciò che ancor più mi spinge a proclamare l'urgenza dell'evangelizzazione missionaria è che essa costituisce il primo servizio che la chiesa può rendere a ciascun uomo e all'intera umanità nel mondo odierno, il quale conosce stupende conquiste, ma sembra avere smarrito il senso delle realtà ultime e della stessa esistenza. "Cristo redentore - ho scritto nella prima enciclica - rivela pienamente l'uomo a se stesso... L'uomo che vuol comprendere se stesso fino in fondo... deve avvicinarsi a Cristo... La redenzione, avvenuta per mezzo della croce, ha ridato definitivamente all'uomo la dignità e il senso della sua esistenza nel mondo".

554
Né mancano altre motivazioni e finalità: rispondere alle molte richieste per un documento di questo genere; dissipare dubbi e ambiguità circa la missione ad gentes , confermando nel loro impegno i benemeriti fratelli e sorelle dediti all'attività missionaria e tutti coloro che li aiutano; promuovere le vocazioni missionarie; incoraggiare i teologi ad approfondire ed esporre sistematicamente i vari aspetti della missione; rilanciare la missione in senso specifico, impegnando le chiese particolari, specie quelle giovani, a mandare e ricevere missionari; assicurare i non cristiani e, in particolare, le autorità dei paesi verso cui si rivolge l'attività missionaria, che questa ha un unico fine: servire l'uomo rivelandogli l'amore di Dio, che si è manifestato in Gesù Cristo.

555
3. Popoli tutti, aprite le porte a Cristo! Il suo vangelo nulla toglie alla libertà dell'uomo, al dovuto rispetto delle culture, a quanto c'è di buono in ogni religione. Accogliendo Cristo, voi vi aprite alla parola definitiva di Dio, a colui nel quale Dio si è fatto pienamente conoscere e ci ha indicato la via per arrivare a lui. Il numero di coloro che ignorano Cristo e non fanno parte della chiesa è in continuo aumento, anzi dalla fine del concilio è quasi raddoppiato. Per questa umanità immensa, amata dal Padre che per essa ha inviato il suo Figlio, è evidente l'urgenza della missione.

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D'altra parte, in questo campo il nostro tempo offre nuove occasioni alla chiesa: il crollo di ideologie e di sistemi politici oppressivi; l'apertura delle frontiere e il formarsi di un mondo più unito grazie all'incremento delle comunicazioni; l'affermarsi tra i popoli di quei valori evangelici, che Gesù ha incarnato nella sua vita (pace, giustizia, fraternità, dedizione ai più piccoli); un tipo di sviluppo economico e tecnico senz'anima, che pur sollecita a ricercare la verità su Dio, sull'uomo, sul significato della vita. Dio apre alla chiesa gli orizzonti di un'umanità più preparata alla semina evangelica. Sento venuto il momento di impegnare tutte le forze ecclesiali per la nuova evangelizzazione e per la missione ad gentes. Nessun credente in Cristo, nessuna istituzione della chiesa può sottrarsi a questo dovere supremo: annunziare Cristo a tutti i popoli.

Capitolo Primo GESU' CRISTO UNICO SALVATORE

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4. "Il compito fondamentale della chiesa di tutte le epoche e, in modo particolare, della nostra - ricordavo nella prima enciclica programmatica - è di dirigere lo sguardo dell'uomo, di indirizzare la coscienza e l'esperienza di tutta l'umanità verso il mistero di Cristo". La missione universale della chiesa nasce dalla fede in Gesù Cristo, come si dichiara nella professione della fede trinitaria: "Credo in un solo Signore, Gesù Cristo, unigenito Figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli... Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo, e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo". Nell'evento della redenzione è la salvezza di tutti, "perché ognuno è stato compreso nel mistero della redenzione e con ognuno Cristo si è unito, per sempre, attraverso questo mistero". Soltanto nella fede si comprende e si fonda la missione.

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Eppure, anche a causa dei cambiamenti moderni e del diffondersi di nuove idee teologiche, alcuni si chiedono: E' ancora attuale la missione tra i non cristiani? Non è forse sostituita dal dialogo inter-religioso? Non è un suo obiettivo sufficiente la promozione umana? Il rispetto della coscienza e della libertà non esclude ogni proposta di conversione? Non ci si può salvare in qualsiasi religione? Perché quindi la missione?

"Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me" (Gv 14,6)


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5. Risalendo alle origini della chiesa, troviamo chiaramente affermato che Cristo è l'unico salvatore di tutti, colui che solo è in grado di rivelare Dio e di condurre a Dio. Alle autorità religiose giudaiche che interrogano gli apostoli in merito alla guarigione dello storpio, da lui operata, Pietro risponde: "Nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta innanzi sano e salvo... In nessun altro c'è salvezza: non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo, nel quale sia stabilito che possiamo essere salvati" (At 4,10.12). Quest'affermazione, rivolta al sinedrio, ha un valore universale, poiché per tutti - giudei e gentili - la salvezza non può venire che da Gesù Cristo.

560
L'universalità di questa salvezza in Cristo è affermata in tutto il Nuovo Testamento. San Paolo riconosce in Cristo risorto il Signore: "In realtà - scrive - anche se ci sono cosiddetti dèi sia nel cielo sia sulla terra, e difatti ci sono molti dèi e molti signori, per noi c'è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene, e noi siamo per lui; e c'è un solo Signore, Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui" (1Cor 8,5-6). L'unico Dio e l'unico Signore sono affermati in contrasto con la moltitudine di "dèi" e "signori" che il popolo ammetteva. Paolo reagisce contro il politeismo dell'ambiente religioso del suo tempo e pone in rilievo la caratteristica della fede cristiana: fede in un solo Dio e in un solo Signore, inviato da Dio.

561
Nel Vangelo di san Giovanni questa universalità salvifica di Cristo comprende gli aspetti della sua missione di grazia, di verità e di rivelazione: "Il Verbo è la luce vera, che illumina ogni uomo" (cf. Gv 1,9). E ancora: "Dio nessuno l'ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato" (Gv 1,18; cf. Mt 11,27). La rivelazione di Dio si fa definitiva e completa a opera del suo Figlio unigenito: "Dio, che nei tempi antichi aveva già parlato molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo" (Eb 1,1-2; cf. Gv 14,6). In questa Parola definitiva della sua rivelazione, Dio si è fatto conoscere nel modo più pieno: egli ha detto all'umanità chi è. E questa autorivelazione definitiva di Dio è il motivo fondamentale per cui la chiesa è per sua natura missionaria. Essa non può non proclamare il vangelo, cioè la pienezza della verità che Dio ci ha fatto conoscere intorno a se stesso.

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Cristo è l'unico mediatore tra Dio e gli uomini: "Uno solo, infatti, è Dio, e uno solo il mediatore tra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti. Questa testimonianza egli l'ha data nei tempi stabiliti, e di essa io sono stato fatto messaggero e apostolo - dico la verità, non mentisco -, maestro dei pagani nella fede e nella verità" (1Tm 2,5-7; cf. Eb 4,14-16). Gli uomini, quindi, non possono entrare in comunione con Dio se non per mezzo di Cristo, sotto l'azione dello Spirito. Questa sua mediazione unica e universale, lungi dall'essere di ostacolo al cammino verso Dio, è la via stabilita da Dio stesso, e di ciò Cristo ha piena coscienza. Se non sono escluse mediazioni partecipate di vario tipo e ordine, esse tuttavia attingono significato e valore unicamente da quella di Cristo e non possono essere intese come parallele e complementari.

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6. E' contrario alla fede cristiana introdurre una qualsiasi separazione tra il Verbo e Gesù Cristo. San Giovanni afferma chiaramente che il Verbo, che "era in principio presso Dio", è lo stesso che "si fece carne" (Gv 1,2.14): Gesù è il Verbo incarnato, persona una e indivisibile. Non si può separare Gesù da Cristo, né parlare di un "Gesù della storia", che sarebbe diverso dal "Cristo della fede". La chiesa conosce e confessa Gesù come "il Cristo, il Figlio del Dio vivente" (Mt 16,16): Cristo non è altro che Gesù di Nazaret, e questi è il Verbo di Dio fatto uomo per la salvezza di tutti. In Cristo "abita corporalmente tutta la pienezza della divinità" (Col 2,9) e "dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto" (Gv 1,16). "Il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre" (Gv 1,18), è "il Figlio diletto, per opera del quale abbiamo la redenzione... Piacque a Dio di far abitare in lui ogni pienezza e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose, pacificando col sangue della sua croce, cioè per mezzo di lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli" (Col 1,13-14.19-20). E' proprio questa singolarità unica di Cristo che a lui conferisce un significato assoluto e universale, per cui, mentre è nella storia, è il centro e il fine della stessa storia: "Io sono l'Alfa e l'Omega, il primo e l'ultimo, il principio e la fine" (Ap 22,13).

564
Se, dunque, è lecito e utile considerare i vari aspetti del mistero di Cristo, non bisogna mai perdere di vista la sua unità. Mentre andiamo scoprendo e valorizzando i doni di ogni genere, soprattutto le ricchezze spirituali, che Dio ha elargito a ogni popolo, non possiamo disgiungerli da Gesù Cristo, il quale sta al centro del piano divino di salvezza. Come "con l'incarnazione il Figlio di Dio s'è unito in un certo modo ad ogni uomo", così "dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire in contatto, nel modo che Dio conosce, col mistero pasquale". Il disegno divino è "di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra" (Ef 1,10).

La fede in Cristo è una proposta alla libertà dell'uomo

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7. L'urgenza dell'attività missionaria emerge dalla radicale novità di vita, portata da Cristo e vissuta dai suoi discepoli. Questa nuova vita è dono di Dio, e all'uomo è richiesto di accoglierlo e di svilupparlo, se vuole realizzarsi secondo la sua vocazione integrale in conformità a Cristo. Tutto il Nuovo Testamento è un inno alla vita nuova per colui che crede in Cristo e vive nella sua chiesa. La salvezza in Cristo, testimoniata e annunziata dalla chiesa, è autocomunicazione di Dio: "E' l'amore che non soltanto crea il bene, ma fa partecipare alla vita stessa di Dio: Padre, Figlio e Spirito Santo. Infatti, colui che ama, desidera donare se stesso". Dio offre all'uomo questa novità di vita. "Si può rifiutare Cristo e tutto ciò che egli ha portato nella storia dell'uomo? Certamente si può. L'uomo è libero. L'uomo può dire a Dio: no. L'uomo può dire a Cristo: no. Ma rimane la domanda fondamentale: E' lecito farlo? e in nome di che cosa è lecito?".

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8. Nel mondo moderno c'è la tendenza a ridurre l'uomo alla sola dimensione orizzontale. Ma che cosa diventa l'uomo senza apertura verso l'Assoluto? La risposta sta nell'esperienza di ogni uomo, ma è anche inscritta nella storia dell'umanità col sangue versato in nome di ideologie e da regimi politici, che hanno voluto costruire un' "umanità nuova" senza Dio. Del resto, a quanti sono preoccupati di salvare la libertà di coscienza, risponde il concilio Vaticano II: "La persona umana ha il diritto alla libertà religiosa... Tutti gli uomini devono essere immuni dalla coercizione da parte di singoli individui, di gruppi sociali e di qualsivoglia potestà umana, così che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la coscienza, né sia impedito, entro certi limiti, di agire in conformità a essa: privatamente o pubblicamente, in forma individuale o associata".

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L'annunzio e la testimonianza di Cristo, quando sono fatti in modo rispettoso delle coscienze, non violano la libertà. La fede esige la libera adesione dell'uomo, ma deve essere proposta, poiché "le moltitudini hanno il diritto di conoscere la ricchezza del mistero di Cristo, nel quale crediamo che tutta l'umanità può trovare, in una pienezza insospettabile, tutto ciò che essa cerca a tentoni su Dio, sull'uomo e sul suo destino, sulla vita e sulla morte, sulla verità... Per questo la chiesa mantiene il suo slancio missionario e vuole, altresì, intensificarlo nel nostro momento storico". Bisogna dire anche, però, sempre col concilio, che "a motivo della loro dignità tutti gli esseri umani, in quanto sono persone, dotati cioè di ragione e di libera volontà e perciò investiti di personale responsabilità, sono dalla loro stessa natura e per obbligo morale tenuti a cercare la verità, in primo luogo quella concernente la religione. Essi sono pure tenuti ad aderire alla verità una volta conosciuta e a ordinare tutta la loro vita secondo le sue esigenze".

La chiesa segno e strumento di salvezza

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9. Prima beneficiaria della salvezza è la chiesa: il Cristo se l'è acquistata col suo sangue (cf. At 20,28) e l'ha fatta sua collaboratrice nell'opera della salvezza universale. Infatti, Cristo vive in essa; è il suo sposo; opera la sua crescita; compie la sua missione per mezzo di essa. Il concilio ha ampiamente richiamato il ruolo della chiesa per la salvezza dell'umanità. Mentre riconosce che Dio ama tutti gli uomini e accorda loro la possibilità della salvezza (cf. 1Tm 2,4), la chiesa professa che Dio ha costituito Cristo come unico mediatore e che essa stessa è posta come sacramento universale di salvezza: "Tutti gli uomini, quindi, sono chiamati a questa cattolica unità del popolo di Dio..., e a essa in vario modo appartengono o sono ordinati sia i fedeli cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, sia tutti gli uomini universalmente chiamati a salvezza dalla grazia di Dio". E' necessario tener congiunte queste due verità, cioè la reale possibilità della salvezza in Cristo per tutti gli uomini e la necessità della chiesa in ordine a tale salvezza. Ambedue favoriscono la comprensione dell 'unico mistero salvifico , sì da poter sperimentare la misericordia di Dio e la nostra responsabilità. La salvezza, che è sempre dono dello Spirito, esige la collaborazione dell'uomo per salvare sia se stesso che gli altri. Così ha voluto Dio, e per questo ha stabilito e coinvolto la chiesa nel piano della salvezza: "Questo popolo messianico - dice il concilio - costituito da Cristo per una comunione di vita, di carità e di verità, è pure da lui assunto quale strumento della redenzione di tutti e, come luce del mondo e sale della terra, è inviato a tutto il mondo".

La salvezza è offerta a tutti gli uomini

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10. L'universalità della salvezza non significa che essa è accordata solo a coloro che, in modo esplicito, credono in Cristo e sono entrati nella chiesa. Se è destinata a tutti, la salvezza deve essere messa in concreto a disposizione di tutti. Ma è evidente che, oggi come in passato, molti uomini non hanno la possibilità di conoscere o di accettare la rivelazione del vangelo, di entrare nella chiesa. Essi vivono in condizioni socio-culturali che non lo permettono, e spesso sono stati educati in altre tradizioni religiose. Per essi la salvezza di Cristo è accessibile in virtù di una grazia che, pur avendo una misteriosa relazione con la chiesa, non li introduce formalmente in essa, ma li illumina in modo adeguato alla loro situazione interiore e ambientale. Questa grazia proviene da Cristo, è frutto del suo sacrificio ed è comunicata dallo Spirito Santo: essa permette a ciascuno di giungere alla salvezza con la sua libera collaborazione. Per questo il concilio, dopo aver affermato la centralità del mistero pasquale, afferma: "E ciò non vale solo per i cristiani, ma anche per tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore opera invisibilmente la grazia. Cristo, infatti, è morto per tutti, e la vocazione ultima dell'uomo è effettivamente una sola, quella divina; perciò, dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire in contatto, nel modo che Dio conosce, col mistero pasquale".

"Noi non possiamo tacere" (At 4,20)

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11. Che dire allora delle obiezioni, già ricordate, in merito alla missione ad gentes ? Nel rispetto di tutte le credenze e di tutte le sensibilità, dobbiamo anzitutto affermare con semplicità la nostra fede in Cristo, unico salvatore dell'uomo, fede che abbiamo ricevuto come dono dall'alto senza nostro merito. Noi diciamo con Paolo: "Io non mi vergogno del vangelo, poiché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede" (Rm 1,16). I martiri cristiani di tutti i tempi - anche del nostro - hanno dato e continuano a dare la vita per testimoniare agli uomini questa fede, convinti che ogni uomo ha bisogno di Gesù Cristo, il quale ha sconfitto il peccato e la morte e ha riconciliato gli uomini con Dio. Cristo si è proclamato Figlio di Dio, intimamente unito al Padre e, come tale, è stato riconosciuto dai discepoli, confermando le sue parole con i miracoli e la risurrezione da morte. La chiesa offre agli uomini il vangelo, documento profetico, rispondente alle esigenze e aspirazioni del cuore umano: esso è sempre "buona novella". La chiesa non può fare a meno di proclamare che Gesù è venuto a rivelare il volto di Dio e a meritare, con la croce e la risurrezione, la salvezza per tutti gli uomini.

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All'interrogativo: perché la missione? noi rispondiamo con la fede e con l'esperienza della chiesa che aprirsi all'amore di Cristo è la vera liberazione. In lui, soltanto in lui siamo liberati da ogni alienazione e smarrimento, dalla schiavitù al potere del peccato e della morte. Cristo è veramente "la nostra pace" (Ef 2,14), e "l'amore di Cristo ci spinge" (2Cor 5,14), dando senso e gioia alla nostra vita. La missione è un problema di fede, è l'indice esatto della nostra fede in Cristo e nel suo amore per noi. La tentazione oggi è di ridurre il cristianesimo a una sapienza meramente umana, quasi scienza del buon vivere. In un mondo fortemente secolarizzato è avvenuta una "graduale secolarizzazione della salvezza", per cui ci si batte, sì, per l'uomo, ma per un uomo dimezzato, ridotto alla sola dimensione orizzontale. Noi, invece, sappiamo che Gesù è venuto a portare la salvezza integrale, che investe tutto l'uomo e tutti gli uomini, aprendoli ai mirabili orizzonti della filiazione divina.

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Perché la missione? Perché a noi, come a san Paolo, "è stata concessa la grazia di annunciare ai pagani le imperscrutabili ricchezze di Cristo" (Ef 3,8). La novità di vita in lui è la "buona novella" per l'uomo di tutti i tempi: a essa tutti gli uomini sono chiamati e destinati. Tutti di fatto la cercano, anche se a volte in modo confuso, e hanno il diritto di conoscere il valore di tale dono e di accedervi. La chiesa e, in essa, ogni cristiano non può nascondere né conservare per sé questa novità e ricchezza, ricevuta dalla bontà divina per essere comunicata a tutti gli uomini. Ecco perché la missione, oltre che dal mandato formale del Signore, deriva dall'esigenza profonda della vita di Dio in noi. Coloro che sono incorporati nella chiesa cattolica devono sentirsi dei privilegiati, e per ciò stesso maggiormente impegnati a testimoniare la fede e la vita cristiana come servizio ai fratelli e doverosa risposta a Dio, memori che "la loro eccellente condizione non è da ascrivere ai loro meriti, ma ad una speciale grazia di Cristo; per cui, se non vi corrispondono col pensiero, con le parole e con le opere, lungi dal salvarsi, saranno più severamente giudicati".

Capitolo II: IL REGNO DI DIO

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12. "Dio, ricco di misericordia, è colui che Gesù Cristo ci ha rivelato come Padre: proprio il suo Figlio, in se stesso, ce l'ha manifestato e fatto conoscere". Questo scrivevo all'inizio dell'enciclica Dives in misericordia , mostrando come il Cristo è la rivelazione e l'incarnazione della misericordia del Padre. La salvezza consiste nel credere e accogliere il mistero del Padre e del suo amore, che si manifesta e si dona in Gesù mediante lo Spirito. Così si compie il regno di Dio, preparato già dall'antica alleanza, attuato da Cristo e in Cristo, annunciato a tutte le genti dalla chiesa, che opera e prega affinché si realizzi in modo perfetto e definitivo.

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L'Antico Testamento attesta che Dio si è scelto e formato un popolo, per rivelare e attuare il suo disegno d'amore. Ma, nello stesso tempo, Dio è creatore e padre di tutti gli uomini, di tutti si prende cura, a tutti estende la sua benedizione (cf. Gn 12,3) e con tutti ha stretto un'alleanza (Gn 9,1-17). Israele fa l'esperienza di un Dio personale e salvatore (cf. Dt 4,37; 7,6-8; Is 43,1-7), del quale diventa il testimone e il portavoce in mezzo alle nazioni. Nel corso della sua storia Israele prende coscienza che la sua elezione ha un significato universale (cf., ad esempio, Is 2,2-5; 25,6-8; 60,1-6; Ger 3,17; 16,19-21).

Cristo rende presente il Regno

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13. Gesù di Nazaret porta a compimento il disegno di Dio. Dopo aver ricevuto lo Spirito Santo nel battesimo, egli manifesta la sua vocazione messianica: percorre la Galilea "predicando il vangelo di Dio e dicendo: "Il tempo è compiuto, il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo"" (Mc 1,14-15; cf. Mt 4,17; Lc 4,43). La proclamazione e l'instaurazione del regno di Dio sono l'oggetto della sua missione: "E' per questo che sono stato inviato" (Lc 4,43). Ma c'è di più: Gesù è lui stesso la "buona novella", come afferma già all'inizio della missione nella sinagoga del suo paese, applicando a sé le parole di Isaia sull'Unto, inviato dallo Spirito del Signore (cf. Lc 4,14-21). Essendo la "buona novella", in Cristo c'è identità tra messaggio e messaggero, tra il dire, l'agire e l'essere. La sua forza, il segreto dell'efficacia della sua azione sta nella totale identificazione col messaggio che annunzia: egli proclama la "buona novella" non solo con quello che dice o fa, ma con quello che è.

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Il ministero di Gesù è descritto nel contesto dei viaggi nella sua terra. L'orizzonte della missione prima della pasqua è centrato su Israele; tuttavia, Gesù offre un elemento nuovo di importanza capitale. La realtà escatologica non è rinviata a una fine remota del mondo, ma si fa vicina e comincia ad attuarsi. Il regno di Dio si avvicina (cf. Mc 1,15), si prega perché venga (cf. Mt 6,10), la fede lo scorge già operante nei segni, quali i miracoli (cf. Mt 11,4-5), gli esorcismi (cf. Mt 12,25-28), la scelta dei Dodici (cf. Mc 3,13-19), l'annuncio della buona novella ai poveri (cf. Lc 4,18). Negli incontri di Gesù con i pagani è chiaro che l'accesso al Regno avviene mediante la fede e la conversione (cf. Mc 1,15), non per semplice appartenenza etnica.

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Il regno che Gesù inaugura è il regno di Dio: Gesù stesso rivela chi è questo Dio, che chiama col termine familiare di "abbà", Padre (Mc 14,36). Il Dio, rivelato soprattutto nelle parabole (cf. Lc 15,3-32; Mt 20,1-16), è sensibile alle necessità e alle sofferenze di ogni uomo: è un Padre amoroso e pieno di compassione, che perdona e dà gratuitamente le grazie richieste. San Giovanni ci dice che "Dio è amore" (1Gv 4,8.16). Ogni uomo, perciò, è invitato a "convertirsi" e a "credere" all'amore misericordioso di Dio per lui: il Regno crescerà nella misura in cui ogni uomo imparerà a rivolgersi a Dio nell'intimità della preghiera come a un Padre (cf. Lc 11,2; Mt 23,9) e si sforzerà di compiere la sua volontà (cf. Mt 7,21).

Caratteristiche ed esigenze del Regno

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14. Gesù rivela progressivamente le caratteristiche ed esigenze del Regno mediante le sue parole, le sue opere e la sua persona. Il regno di Dio è destinato a tutti gli uomini, essendo tutti chiamati a esserne membri. Per sottolineare questo aspetto, Gesù si è avvicinato soprattutto a quelli che erano ai margini della società, dando ad essi la preferenza, quando annunziava la "buona novella". All'inizio del suo ministero egli proclama di essere stato mandato per annunziare ai poveri il lieto messaggio (cf. Lc 4,18). A tutte le vittime del rifiuto e del disprezzo dichiara: "Beati voi poveri" (Lc 6,20); inoltre, a questi emarginati fa già vivere un'esperienza di liberazione stando con loro, andando a mangiare con loro (cf. Lc 5,30; 15,2), trattandoli come uguali e amici (cf. Lc 7,34), facendoli sentire amati da Dio e rivelando così la sua immensa tenerezza verso i bisognosi e i peccatori (cf. Lc 15,1-32).

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La liberazione e la salvezza, portate dal regno di Dio, raggiungono la persona umana nelle sue dimensioni sia fisiche che spirituali. Due gesti caratterizzano la missione di Gesù: il guarire e il perdonare. Le molteplici guarigioni dimostrano la sua grande compassione di fronte alle miserie umane; ma significano pure che nel Regno non vi saranno più né malattie né sofferenze e che la sua missione mira fin dall'inizio a liberare le persone da esse. Nella prospettiva di Gesù le guarigioni sono anche segno della salvezza spirituale, cioè della liberazione dal peccato. Compiendo gesti di guarigione, Gesù invita alla fede, alla conversione, al desiderio di perdono (cf. Lc 5,24). Ricevuta la fede, la guarigione spinge a proseguire più lontano: introduce nella salvezza (cf. Lc 18,42-43). I gesti di liberazione dalla possessione del demonio, male supremo e simbolo del peccato e della ribellione contro Dio, sono segni che "il Regno di Dio è giunto fra voi" (Mt 12,28).

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15. Il Regno mira a trasformare i rapporti tra gli uomini e si attua progressivamente, man mano che essi imparano ad amarsi, a perdonarsi, a servirsi a vicenda. Gesù riprende tutta la Legge, incentrandola sul comandamento dell'amore (cf. Mt 22,34-40; Lc 10,25-28). Prima di lasciare i suoi, dà loro un "comandamento nuovo": "Amatevi gli uni gli altri, come io vi ho amato" (Gv 13,34; cf. 15,12). L'amore, con cui Gesù ha amato il mondo, trova l'espressione più alta nel dono della sua vita per gli uomni (cf. Gv 15,13), che manifesta l'amore che il Padre ha per il mondo (cf. Gv 3,16). Perciò, la natura del Regno è la comunione di tutti gli esseri umani tra di loro e con Dio. Il Regno riguarda tutti: le persone, la società, il mondo intero. Lavorare per il Regno vuol dire riconoscere e favorire il dinamismo divino, che è presente nella storia umana e la trasforma. Costruire il Regno vuol dire lavorare per la liberazione dal male in tutte le sue forme. In sintesi, il regno di Dio è la manifestazione e l'attuazione del suo disegno di salvezza in tutta la sua pienezza.

Nel Risorto il regno di Dio si compie ed è proclamato

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16. Risuscitando Gesù dai morti, Dio ha vinto la morte e in lui ha inaugurato definitivamente il suo Regno. Durante la vita terrena Gesù è il profeta del Regno e, dopo la sua passione, risurrezione e ascensione al cielo, partecipa della potenza di Dio e del suo dominio sul mondo (cf. Mt 28,18; At 2,36; cf. Ef 1,18-21). La risurrezione conferisce una portata universale al messaggio di Cristo, alla sua azione e a tutta la sua missione. I discepoli avvertono che il Regno è già presente nella persona di Gesù e viene a poco a poco instaurato nell'uomo e nel mondo mediante un misterioso legame con lui.

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Dopo la risurrezione, infatti, essi predicavano il Regno annunziando Gesù morto e risorto. Filippo in Samaria "recava la buona novella del Regno di Dio e del nome di Gesù Cristo" (At 8,12). Paolo a Roma "annunziava il Regno di Dio e insegnava le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo" (cf. At 28,31). Anche i primi cristiani annunziavano "il Regno di Cristo e di Dio" (Ef 5,5; cf. Ap 11,15; 12,10), oppure "il Regno eterno del Signore nostro e Salvatore Gesù Cristo" (2Pt 1,11). E' sull'annunzio di Gesù Cristo, con cui il Regno si identifica, che è incentrata la predicazione della chiesa primitiva. Come allora, oggi bisogna unire l'annunzio del regno di Dio( il contenuto del kèrygma di Gesù) e la proclamazione dell'evento Gesù Cristo (che è il kèrygma degli apostoli). I due annunzi si completano e si illuminano a vicenda.

Il Regno in rapporto a Cristo e alla chiesa

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17. Oggi si parla molto del Regno, ma non sempre in consonanza col sentire ecclesiale. Ci sono, infatti, concezioni della salvezza e della missione che si possono chiamare "antropocentriche" nel senso riduttivo del termine, in quanto sono incentrate sui bisogni terreni dell'uomo. In questa visione il Regno tende a diventare una realtà del tutto umana e secolarizzata, in cui ciò che conta sono i programmi e le lotte per la liberazione socio-economica, politica e anche culturale, ma in un orizzonte chiuso al trascendente. Senza negare che anche a questo livello ci siano valori da promuovere, tuttavia tale concezione rimane nei confini di un regno dell'uomo decurtato delle sue autentiche e profonde dimensioni, e si traduce facilmente in una delle ideologie di progresso puramente terreno. Il regno di Dio, invece, "non è di questo mondo..., non è di quaggiù" (cf. Gv 18,36). Ci sono, poi, concezioni che di proposito pongono l'accento sul Regno e si qualificano come "regno-centriche", le quali dànno risalto all'immagine di una chiesa che non pensa a se stessa, ma è tutta occupata a testimoniare e a servire il Regno. E' una "chiesa per gli altri", si dice, come Cristo è l'"uomo per gli altri". Si descrive il compito della chiesa come se debba procedere in una duplice direzione: da un lato, promuovere i cosiddetti "valori del Regno", quali la pace, la giustizia, la libertà, la fraternità; dall'altro, favorire il dialogo fra i popoli, le culture, le religioni, affinché in un vicendevole arricchimento aiutino il mondo a rinnovarsi e a camminare sempre più verso il Regno.

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Accanto ad aspetti positivi, queste concezioni ne rivelano spesso di negativi. Anzitutto, passano sotto silenzio Cristo: il Regno, di cui parlano, si fonda su un "teocentrismo", perché - dicono - Cristo non può essere compreso da chi non ha la fede cristiana, mentre popoli, culture e religioni diverse si possono ritrovare nell'unica realtà divina, quale che sia il suo nome. Per lo stesso motivo esse privilegiano il mistero della creazione, che si riflette nella diversità delle culture e credenze, ma tacciono sul mistero della redenzione. Inoltre, il Regno, quale essi lo intendono, finisce con l'emarginare o sottovalutare la chiesa, per reazione a un supposto "ecclesiocentrismo" del passato e perché considerano la chiesa stessa solo un segno, non privo peraltro di ambiguità.

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18. Ora, non è questo il regno di Dio, quale conosciamo dalla rivelazione: esso non può essere disgiunto né da Cristo né dalla chiesa. Come si è detto, Cristo non soltanto ha annunziato il Regno, ma in lui il Regno stesso si è fatto presente e si è compiuto. E non solo mediante le sue parole e le sue opere: "Innanzitutto, il Regno si manifesta nella stessa persona di Cristo, Figlio di Dio e Figlio dell'uomo, il quale è venuto "a servire e a dare la sua vita in riscatto per molti" (Mc 10,45)". Il regno di Dio non è un concetto, una dottrina, un programma soggetto a libera elaborazione, ma è innanzitutto una persona che ha il volto e il nome di Gesù di Nazaret, immagine del Dio invisibile. Se si distacca il Regno da Gesù, non si ha più il regno di Dio da lui rivelato, e si finisce per distorcere sia il senso del Regno, che rischia di trasformarsi in un obiettivo puramente umano o ideologico, sia l'identità di Cristo, che non appare più il Signore, a cui tutto deve esser sottomesso (cf. 1Cor 15,27).

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Parimenti, non si può disgiungere il Regno dalla chiesa. Certo, questa non è fine a se stessa, essendo ordinata al regno di Dio, di cui è germe, segno e strumento. Ma, mentre si distingue dal Cristo e dal Regno, la chiesa è indissolubilmente unita a entrambi. Cristo ha dotato la chiesa, suo corpo, della pienezza dei beni e dei mezzi di salvezza; lo Spirito Santo dimora in essa, la vivifica con i suoi doni e carismi, la santifica, guida e rinnova continuamente. Ne deriva una relazione singolare e unica, che, pur non escludendo l'opera di Cristo e dello Spirito fuori dei confini visibili della chiesa, conferisce a essa un ruolo specifico e necessario. Di qui anche lo speciale legame della chiesa col regno di Dio e di Cristo, che essa ha "la missione di annunziare e di instaurare in tutte le genti".

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19. E' in questa visione d'insieme che si comprende la realtà del Regno. Certo, esso esige la promozione dei beni umani e dei valori che si possono ben dire "evangelici", perché sono intimamente legati alla "buona novella". Ma questa promozione, che pure sta a cuore alla chiesa, non deve essere distaccata né contrapposta agli altri suoi compiti fondamentali, come l'annunzio del Cristo e del suo vangelo, la fondazione e lo sviluppo di comunità che attuano tra gli uomini l'immagine viva del Regno. Non si tema di cadere con ciò in una forma di "ecclesiocentrismo". Paolo VI, che ha affermato l'esistenza di "un legame profondo tra il Cristo, la chiesa e l'evangelizzazione", ha pure detto che la chiesa "non è fine a se stessa, ma fervidamente sollecita di essere tutta di Cristo, in Cristo e per Cristo, e tutta degli uomini, fra gli uomini e per gli uomini".

La chiesa a servizio del Regno


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20. La chiesa è effettivamente e concretamente a servizio del Regno. Lo è, anzitutto, con l'annunzio che chiama alla conversione: è, questo, il primo e fondamentale servizio alla venuta del Regno nelle singole persone e nella società umana. La salvezza escatologica inizia già ora nella novità di vita in Cristo: "A quanti lo hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio, a quelli che credono nel suo nome" (Gv 1,12). La chiesa, poi, serve il Regno fondando comunità e istituendo chiese particolari e portandole alla maturazione della fede e della carità nell'apertura verso gli altri, nel servizio alla persona e alla società, nella comprensione e stima delle istituzioni umane.

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La chiesa, inoltre, serve il Regno diffondendo nel mondo i "valori evangelici", che del Regno sono espressione e aiutano gli uomini ad accogliere il disegno di Dio. E' vero, dunque, che la realtà incipiente del Regno può trovarsi anche al di là dei confini della chiesa nell'umanità intera, in quanto questa viva i "valori evangelici" e si apra all'azione dello Spirito che spira dove e come vuole (cf. Gv 3,8); ma bisogna subito aggiungere che tale dimensione temporale del Regno è incompleta se non è coordinata col regno di Cristo, presente nella chiesa e proteso alla pienezza escatologica.

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Le molteplici prospettive del regno di Dio non indeboliscono i fondamenti e le finalità dell'attività missionaria, ma piuttosto li fortificano e allargano. La chiesa è sacramento di salvezza per tutta l'umanità, e la sua azione non si restringe a coloro che ne accettano il messaggio. Essa è forza dinamica nel cammino dell'umanità verso il regno escatologico, è segno e promotrice dei valori evangelici tra gli uomini. A questo itinerario di conversione al progetto di Dio la chiesa contribuisce con la sua testimonianza e con le sue attività, quali il dialogo, la promozione umana, l'impegno per la giustizia e la pace, l'educazione e la cura degli infermi, l'assistenza ai poveri e ai piccoli, tenendo sempre ferma la priorità delle realtà trascendenti e spirituali, premesse della salvezza escatologica.

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La chiesa, infine, serve il Regno anche con la sua intercessione, essendo esso per sua natura dono e opera di Dio, come ricordano la parabole evangeliche e la preghiera stessa insegnataci da Gesù. Noi dobbiamo chiederlo, accoglierlo, farlo crescere in noi; ma dobbiamo anche cooperare perché sia accolto e cresca tra gli uomini, fino a quando Cristo "consegnerà il Regno a Dio Padre" e "Dio sarà tutto in tutti" (cf. 1Cor 15,24.28).

Capitolo III: LO SPIRITO SANTO PROTAGONISTA DELLA MISSIONE

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21. "Al culmine della missione messianica di Gesù, lo Spirito Santo diventa presente nel mistero pasquale in tutta la sua soggettività divina, come colui che deve ora continuare l'opera salvifica, radicata nel sacrificio della croce. Senza dubbio quest'opera viene affidata da Gesù a uomini: agli apostoli, alla chiesa. Tuttavia, in questi uomini e per mezzo di essi, lo Spirito Santo rimane il trascendente soggetto protagonista della realizzazione di tale opera nello spirito dell'uomo e nella storia del mondo". Lo Spirito Santo invero è il protagonista di tutta la missione ecclesiale: la sua opera rifulge eminentemente nella missione ad gentes , come appare nella chiesa primitiva per la conversione di Cornelio (cf. At 10), per le decisioni circa i problemi emergenti (cf. At 15), per la scelta dei territori e dei popoli (cf. At 16,6ss). Lo Spirito opera per mezzo degli apostoli, ma nello stesso tempo opera anche negli uditori: "Mediante la sua azione, la buona novella prende corpo nelle coscienze e nei cuori umani e si espande nella storia. In tutto ciò è lo Spirito Santo che dà la vita".

L'invio "fino agli estremi confini della terra" (At 1,8)


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22. Tutti gli evangelisti, quando narrano l'incontro del Risorto con gli apostoli, concludono col mandato missionario: "Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni... Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo" (Mt 28,18-20; cf. Mc 16,15-18; Lc 24,46-49; Gv 20,21-23). Questo invio è invio nello Spirito, come appare chiaramente nel testo di san Giovanni: Cristo manda i suoi nel mondo, come il Padre ha mandato lui, e per questo dona loro lo Spirito. A sua volta, Luca collega strettamente la testimonianza che gli apostoli dovranno rendere a Cristo con l'azione dello Spirito, che li metterà in grado di attuare il mandato ricevuto.

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23. Le varie forme del "mandato missionario" contengono punti in comune e accenti caratteristici; due elementi, però, si ritrovano in tutte le versioni. Anzitutto, la dimensione universale del compito affidato agli apostoli: "tutte le nazioni" (Mt 28,19); "in tutto il mondo, ad ogni creatura" (Mc 16,15); "tutte le genti" (Lc 24,47); "fino agli estremi confini della terra" (At 1,8). In secondo luogo, l'assicurazione data loro dal Signore che in questo compito non rimarranno soli, ma riceveranno la forza e i mezzi per svolgere la loro missione. E' in ciò la presenza e la potenza dello Spirito e l'assistenza di Gesù: "Essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro" (Mc 16,20).

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Quanto alle differenze di accento nel mandato, Marco presenta la missione come proclamazione, o kérygma : "Proclamate il vangelo" (Mc 16,15). Scopo dell'evangelista è di condurre i lettori a ripetere la confessione di Pietro: "Tu sei il Cristo" (Mc 8,29) e a dire, come il centurione romano dinanzi a Gesù morto in croce: "Veramente quest'uomo era Figlio di Dio" (Mc 15,39). In Matteo l'accento missionario è posto sulla fondazione della chiesa e sul suo insegnamento (cf. Mt 28,19-20; 16,18); in lui, dunque, il mandato evidenzia che la proclamazione del vangelo dev'essere completata da una specifica catechesi di ordine ecclesiale e sacramentale. In Luca la missione è presentata come testimonianza (cf. Lc 24,48; At 1,8), che verte soprattutto sulla risurrezione (cf. At 1,22). Il missionario è invitato a credere alla potenza trasformatrice del vangelo e ad annunziare ciò che Luca illustra bene, cioè la conversione all'amore e alla misericordia di Dio, l'esperienza di una liberazione integrale fino alla radice di ogni male, il peccato.

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Giovanni è il solo a parlare esplicitamente di "mandato" - parola che equivale a "missione" - collegando direttamente la missione che Gesù affida ai suoi discepoli con quella che egli stesso ha ricevuto dal Padre: "Come il Padre ha mandato me, così io mando voi" (Gv 20,21). Gesù dice rivolto al Padre: "Come tu mi hai mandato nel mondo anch'io li ho mandati nel mondo" (Gv 17,18). Tutto il senso missionario del Vangelo di Giovanni si trova espresso nella "preghiera sacerdotale": la vita eterna è che "conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo" (Gv 17,3). Scopo ultimo della missione è di far partecipare della comunione che esiste tra il Padre e il Figlio: i discepoli devono vivere l'unità tra loro, rimanendo nel Padre e nel Figlio, perché il mondo conosca e creda (cf. Gv 17,21-23). E', questo, un significativo testo missionario, il quale fa capire che si è missionari prima di tutto per ciò che si è, come chiesa che vive profondamente l'unità nell'amore, prima di esserlo per ciò che si dice o si fa.

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I quattro Vangeli, dunque, nell'unità fondamentale della stessa missione, attestano un certo pluralismo, che riflette esperienze e situazioni diverse nelle prime comunità cristiane. Esso è anche frutto della spinta dinamica dello stesso Spirito; invita a essere attenti ai diversi carismi missionari e alle diverse condizioni ambientali e umane. Tutti gli evangelisti, però, sottolineano che la missione dei discepoli è collaborazione con quella di Cristo: "Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo" (Mt 28,20). La missione, pertanto, non si fonda sulle capacità umane, ma sulla potenza del Risorto.

Lo Spirito guida la missione

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24. La missione della chiesa, come quella di Gesù, è opera di Dio o- come spesso dice Luca - opera dello Spirito. Dopo la risurrezione e l'ascensione di Gesù gli apostoli vivono un'esperienza forte che li trasforma: la pentecoste. La venuta dello Spirito Santo fa di essi dei testimoni e dei profeti (cf. At 1,8; 2,17-18), infondendo in loro una tranquilla audacia che li spinge a trasmettere agli altri la loro esperienza di Gesù e la speranza che li anima. Lo Spirito dà loro la capacità di testimoniare Gesù con "franchezza". Quando gli evangelizzatori escono da Gerusalemme, lo Spirito assume ancor più la funzione di "guida" nella scelta sia delle persone, sia delle vie della missione. La sua azione si manifesta specialmente nell'impulso dato alla missione che di fatto, secondo le parole di Cristo, si allarga da Gerusalemme a tutta la Giudea e Samaria e fino agli estremi confini della terra.

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Gli Atti riportano sei sintesi dei "discorsi missionari" che sono rivolti ai giudei agli inizi della chiesa (cf. At 2,22-39; 3,12-26; 4,9-12; 5,29-32; 10,34-43; 13,16-41). Questi discorsi-modello, pronunciati da Pietro e da Paolo, annunziano Gesù, invitano a "convertirsi", cioè ad accogliere Gesù nella fede e a lasciarsi trasformare in lui dallo Spirito. Paolo e Barnaba sono spinti dallo Spirito verso i pagani (cf. At 13,46-48), il che non avviene senza tensioni e problemi. Come devono vivere la loro fede in Gesù i pagani convertiti? Sono essi vincolati alla tradizione del giudaismo e alla legge della circoncisione? Nel primo concilio, che riunisce a Gerusalemme intorno agli apostoli i membri di diverse chiese, viene presa una decisione riconosciuta come derivante dallo Spirito: non è necessario che il gentile si sottometta alla legge giudaica per diventare cristiano (cf. At 15,5.11.28). Da quel momento la chiesa apre le sue porte e diventa la casa in cui tutti possono entrare e sentirsi a proprio agio, conservando la propria cultura e le proprie tradizioni, purché non siano in contrasto col vangelo.

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25. I missionari hanno proceduto lungo questa linea, tenendo ben presenti le attese e speranze, le angosce e sofferenze, la cultura dei popoli per annunziare loro la salvezza in Cristo. I discorsi di Listra e di Atene (cf. At 14,15-17; 17,22-31) sono riconosciuti come modelli per l'evangelizzazione dei pagani: in essi Paolo "entra in dialogo" con i valori culturali e religiosi dei diversi popoli. Agli abitanti della Licaonia, che praticavano una religione cosmica, egli ricorda esperienze religiose che si riferiscono al cosmo: con i greci discute di filosofia e cita i loro poeti (cf. At 17,18.26-28). Il Dio che vuol rivelare è già presente nella loro vita: è lui infatti, che li ha creati e dirige misteriosamente i popoli e la storia; tuttavia, per riconoscere il vero Dio, bisogna che abbandonino i falsi dèi che essi stessi hanno fabbricato e si aprano a colui che Dio ha inviato per colmare la loro ignoranza e soddisfare l'attesa del loro cuore. Sono discorsi che offrono un esempio di inculturazione del vangelo.

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Sotto la spinta dello Spirito, la fede cristiana si apre decisamente alle "genti", e la testimonianza del Cristo si allarga ai centri più importanti del Mediterraneo orientale per arrivare poi a Roma e all'estremo occidente. E' lo Spirito che spinge ad andare sempre oltre, non solo in senso geografico, ma anche al di là delle barriere etniche e religiose, per una missione veramente universale.

Lo Spirito rende missionaria tutta la chiesa

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26. Lo Spirito spinge il gruppo dei credenti a "fare comunità", ad essere chiesa. Dopo il primo annunzio di Pietro, il giorno di pentecoste e le conversioni che ne seguirono, si forma la prima comunità (cf. At 2,42-47; 4,32-35). Uno degli scopi centrali della missione, infatti, è di riunire il popolo nell'ascolto del vangelo, nella comunione fraterna, nella preghiera e nell'eucaristia. Vivere la "comunione fraterna" ( koinonيa ) significa avere "un cuor solo e un'anima sola" (At 4,32), instaurando una comunione sotto tutti gli aspetti: umano, spirituale e materiale. Difatti, la vera comunità cristiana è impegnata anche a distribuire i beni terreni, affinché non ci siano indigenti e tutti possano avere accesso a quei beni "secondo le necessità" (At 2,45; 4,35). Le prime comunità, in cui regnavano "la letizia e la semplicità di cuore" (At 2,46), erano dinamicamente aperte e missionarie: "Godevano la stima di tutto il popolo" (At 2,47). Prima ancora di essere azione, la missione è testimonianza e irradiazione.

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27. Gli Atti indicano che la missione, indirizzata prima a Israele e poi alle genti, si sviluppa a molteplici livelli. C'è, innanzitutto, il gruppo dei Dodici che, come un unico corpo guidato da Pietro, proclama la buona novella. C'è, poi, la comunità dei credenti che, col suo modo di vivere e di operare, rende testimonianza al Signore e converte i pagani (cf. At 2,46-47). Ci sono, ancora, gli inviati speciali, destinati ad annunziare il vangelo. Così la comunità cristiana di Antiochia invia i suoi membri in missione: dopo aver digiunato, pregato e celebrato l'eucaristia, essa avverte che lo Spirito ha scelto Paolo e Barnaba per essere inviati (cf. At 13,1-4). Alle sue origini, dunque, la missione è vista come un impegno comunitario e una responsabilità della chiesa locale, che ha bisogno appunto di "missionari" per spingersi verso nuove frontiere. Accanto a quelli inviati ce n'erano altri che testimoniavano spontaneamente la novità che aveva trasformato la loro vita e collegavano poi le comunità in formazione alla chiesa apostolica. La lettura degli Atti ci fa capire che all'inizio della chiesa la missione ad gentes , pur avendo anche missionari "a vita" che vi si dedicavano per una speciale vocazione, era di fatto considerata come il frutto normale della vita cristiana, l'impegno per ogni credente mediante la testimonianza personale e l'annunzio esplicito, quando possibile.

Lo Spirito è presente e operante in ogni tempo e luogo

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28. Lo Spirito si manifesta in maniera particolare nella chiesa e nei suoi membri; tuttavia, la sua presenza e azione sono universali, senza limiti né di spazio né di tempo. Il concilio Vaticano II ricorda l'opera dello Spirito nel cuore di ogni uomo mediante i "semi del Verbo", nelle iniziative anche religiose, negli sforzi dell'attività umana tesi alla verità, al bene, a Dio. Lo Spirito offre all'uomo "luce e forza per rispondere alla suprema sua vocazione"; mediante lo Spirito "l'uomo può arrivare nella fede a contemplare e gustare il mistero del piano divino"; anzi, "dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire in contatto, nel modo che Dio conosce, col mistero pasquale". In ogni caso la chiesa sa che l'uomo, "sollecitato incessantemente dallo Spirito di Dio, non potrà mai essere del tutto indifferente al problema della religione", e "avrà sempre desiderio di sapere, almeno confusamente, quale sia il significato della sua vita, della sua attività e della sua morte". Lo Spirito, dunque, è all'origine stessa della domanda esistenziale e religiosa dell'uomo, la quale nasce non soltanto da situazioni contingenti, ma dalla struttura stessa del suo essere.

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La presenza e l'attività dello Spirito non toccano solo gli individui, ma la società e la storia, i popoli, le culture, le religioni. Lo Spirito, infatti, sta all'origine dei nobili ideali e delle iniziative di bene dell'umanità in cammino: "Con mirabile provvidenza egli dirige il corso dei tempi e rinnova la faccia della terra". Il Cristo risorto "opera nel cuore degli uomini con la virtù del suo Spirito, non solo suscitando il desiderio del mondo futuro, ma per ciò stesso anche ispirando, purificando e fortificando quei generosi propositi con i quali la famiglia degli uomini cerca di rendere più umana la propria vita e di sottomettere a questo fine tutta la terra". E' ancora lo Spirito che sparge i "semi del Verbo", presenti nei riti e nelle culture, e li prepara a maturare in Cristo.

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29. Così lo Spirito, che "soffia dove vuole" (Gv 3,8) e "operava nel mondo prima ancora che Cristo fosse glorificato", che "riempie l'universo abbracciando ogni cosa e conosce ogni voce" (Sap 1,7), ci induce ad allargare lo sguardo per considerare la sua azione presente in ogni tempo e in ogni luogo. E' un richiamo che io stesso ho fatto ripetutamente e che mi ha guidato negli incontri con i popoli più diversi. Il rapporto della chiesa con le altre religioni è dettato da un duplice rispetto: "Rispetto per l'uomo nella sua ricerca di risposte alle domande più profonde della vita e rispetto per l'azione dello Spirito nell'uomo". L'incontro inter-religioso di Assisi, esclusa ogni equivoca interpretazione, ha voluto ribadire la mia convinzione che "ogni autentica preghiera è suscitata dallo Spirito Santo, il quale è misteriosamente presente nel cuore di ogni uomo".

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Questo Spirito è lo stesso che ha operato nell'incarnazione, nella vita, morte e risurrezione di Gesù e opera nella chiesa. Non è, dunque, alternativo a Cristo, né riempie una specie di vuoto, come talvolta si ipotizza esserci tra Cristo e il Logos. Quanto lo Spirito opera nel cuore degli uomini e nella storia dei popoli, nelle culture e religioni, assume un ruolo di preparazione evangelica e non può non avere riferimento a Cristo, Verbo fatto carne per l'azione dello Spirito, "per operare lui, l'Uomo perfetto, la salvezza di tutti e la ricapitolazione universale".

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L'azione universale dello Spirito non va poi separata dall'azione peculiare che egli svolge nel corpo di Cristo ch'è la chiesa. Infatti, è sempre lo Spirito che agisce sia quando vivifica la chiesa e la spinge ad annunziare il Cristo, sia quando semina e sviluppa i suoi doni in tutti gli uomini e i popoli, guidando la chiesa a scoprirli, promuoverli e recepirli mediante il dialogo. Qualsiasi presenza dello Spirito va accolta con stima e gratitudine, ma il discernerla spetta alla chiesa, alla quale Cristo ha dato il suo Spirito per guidarla alla verità tutta intera (cf. Gv 16,13).

L'attività missionaria è solo agli inizi

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30. Il nostro tempo, con l'umanità in movimento e in ricerca, esige un rinnovato impulso nell'attività missionaria della chiesa. Gli orizzonti e le possibilità della missione si allargano, e noi cristiani siamo sollecitati al coraggio apostolico, fondato sulla fiducia nello Spirito. E' lui il protagonista della missione! Sono numerose nella storia dell'umanità le svolte epocali che stimolano il dinamismo missionario, e la chiesa, guidata dallo Spirito, vi ha sempre risposto con generosità e lungimiranza. Né i frutti sono mancati. Da poco è stato celebrato il millennio dell'evangelizzazione della Rus' e dei popoli slavi, mentre si sta per celebrare il cinquecentesimo anniversario dell'evangelizzazione delle Americhe. Parimenti, sono stati di recente commemorati i centenari delle prime missioni in diversi paesi dell'Asia, dell'Africa e dell'Oceania. Oggi la chiesa deve affrontare altre sfide, proiettandosi verso nuove frontiere sia nella prima missione ad gentes , sia nella nuova evangelizzazione di popoli che hanno già ricevuto l'annunzio di Cristo. Oggi a tutti i cristiani, alle chiese particolari e alla chiesa universale sono richiesti lo stesso coraggio che mosse i missionari del passato e la stessa disponibilità ad ascoltare la voce dello Spirito.

Capitolo IV: GLI IMMENSI ORIZZONTI DELLA MISSIONE AD GENTES


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31. Il Signore Gesù inviò i suoi apostoli a tutte le persone, a tutti i popoli e a tutti i luoghi della terra. Negli apostoli la chiesa ricevette una missione universale, che non ha confini e riguarda la salvezza nella sua integrità, secondo quella pienezza di vita che Cristo è venuto a portare (cf. Gv 10,10): essa fu "inviata a rivelare e a comunicare la carità di Dio a tutti gli uomini e a tutti i popoli della terra". Tale missione è unica, avendo la stessa origine e finalità; ma all'interno di essa si danno compiti e attività diverse. Anzitutto, c'è l'attività missionaria, che chiamiamo "missione ad gentes " in riferimento al decreto conciliare: si tratta di un'attività primaria della chiesa, essenziale e mai conclusa. Infatti, la chiesa "non può sottrarsi alla missione permanente di portare il vangelo a quanti - sono milioni e milioni di uomini e donne - ancora non conoscono Cristo, redentore dell'uomo. E' questo il compito più specificamente missionario che Gesù ha affidato e quotidianamente affida alla sua chiesa".

Un quadro religioso complesso e in movimento

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32. Oggi ci si trova di fronte a una situazione religiosa assai diversificata e cangiante: i popoli sono in movimento; realtà sociali e religiose, che un tempo erano chiare e definite, oggi evolvono in situazioni complesse. Basti pensare ad alcuni fenomeni, come l'urbanesimo, le migrazioni di massa, il movimento dei profughi, la scristianizzazione di paesi di antica cristianità, l'influsso emergente del vangelo e dei suoi valori in paesi a grandissima maggioranza non cristiana, il pullulare di messianismi e di sètte religiose. E' un rivolgimento di situazioni religiose e sociali che rende difficile applicare in concreto certe distinzioni e categorie ecclesiali, a cui si era abituati. Già prima del concilio si diceva di alcune metropoli o terre cristiane che erano diventate "paesi di missione", né la situazione è certo migliorata negli anni successivi. D'altra parte, l'opera missionaria ha prodotto abbondanti frutti in tutte le parti del mondo, per cui esistono chiese impiantate, a volte tanto solide e mature da ben provvedere ai bisogni delle proprie comunità e inviare anche personale per l'evangelizzazione in altre chiese e territori. Di qui il contrasto con aree di antica cristianità, che è necessario rievangelizzare. Alcuni, pertanto, si chiedono se sia ancora il caso di parlare di attività missionaria specifica o di ambiti precisi di essa, o se non si debba ammettere che esiste un'unica situazione missionaria, per cui non c'è che un'unica missione, dappertutto eguale.

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La difficoltà di interpretare questa realtà complessa e mutevole in ordine al mandato di evangelizzazione si manifesta già nel "vocabolario missionario": ad esempio, c'è una certa esitazione a usare i termini "missioni" e "missionari", giudicati superati e carichi di risonanze storiche negative; si preferisce usare il sostantivo "missione" al singolare e l'aggettivo "missionario" per qualificare ogni attività della chiesa. Questo travaglio denota un cambiamento reale, che ha aspetti positivi. Il cosiddetto rientro o "rimpatrio" delle missioni nella missione della chiesa, il confluire della missiologia nell'ecclesiologia e l'inserimento di entrambe nel disegno trinitario di salvezza, hanno dato un respiro nuovo alla stessa attività missionaria, concepita non già come un compito ai margini della chiesa, ma inserito nel cuore della sua vita, quale impegno fondamentale di tutto il popolo di Dio. Occorre, però, guardarsi dal rischio di livellare situazioni molto diverse e di ridurre, se non far scomparire, la missione e i missionari ad gentes. Dire che tutta la chiesa è missionaria non esclude che esista una specifica missione ad gentes , come dire che tutti i cattolici debbono essere missionari non esclude, anzi richiede che ci siano i "missionari ad gentes e a vita" per vocazione specifica.

La missione "ad gentes" conserva il suo valore

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33. Le differenze nell'attività all'interno dell'unica missione della chiesa nascono non da ragioni intrinseche alla missione stessa, ma dalle diverse circostanze in cui essa si svolge. Guardando al mondo d'oggi dal punto di vista dell'evangelizzazione, si possono distinguere tre situazioni. Anzitutto, quella a cui si rivolge l'attività missionaria della chiesa: popoli, gruppi umani, contesti socio-culturali in cui Cristo e il suo vangelo non sono conosciuti, o in cui mancano comunità cristiane abbastanza mature da poter incarnare la fede nel proprio ambiente e annunziarla ad altri gruppi. E', questa, propriamente, la missione ad gentes.

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Ci sono, poi, comunità cristiane che hanno adeguate e solide strutture ecclesiali, sono ferventi di fede e di vita, irradiano la testimonianza del vangelo nel loro ambiente e sentono l'impegno della missione universale. In esse si svolge l'attività o cura pastorale della chiesa. Esiste, infine, una situazione intermedia, specie nei paesi di antica cristianità, ma a volte anche nelle chiese più giovani, dove interi gruppi di battezzati hanno perduto il senso vivo della fede, o addirittura non si riconoscono più come membri della chiesa, conducendo un'esistenza lontana da Cristo e dal suo vangelo. In questo caso c'è bisogno di una "nuova evangelizzazione", o "ri-evangelizzazione".

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34. L'attività missionaria specifica, o missione ad gentes , ha come destinatari "i popoli e i gruppi che ancora non credono in Cristo", "coloro che sono lontani da Cristo", tra i quali la chiesa "non ha ancora messo radici" e la cui cultura non è stata ancora influenzata dal vangelo. Essa si distingue dalle altre attività ecclesiali, perché si rivolge a gruppi e ad ambienti non cristiani per l'assenza o insufficienza dell'annunzio evangelico e della presenza ecclesiale. Pertanto, si caratterizza come opera di annunzio del Cristo e del suo vangelo, di edificazione della chiesa locale, di promozione dei valori del Regno. La peculiarità di questa missione ad gentes deriva dal fatto che si rivolge ai non cristiani. Occorre, perciò, evitare che tale "compito più specificamente missionario, che Gesù ha affidato e quotidianamente riaffida alla sua chiesa", subisca un appiattimento nella missione globale di tutto il popolo di Dio e, quindi, sia trascurato o dimenticato.

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D'altronde, i confini fra cura pastorale dei fedeli, nuova evangelizzazione e attività missionaria specifica non sono nettamente definibili, e non è pensabile creare tra di esse barriere o compartimenti stagni. Bisogna, tuttavia, non perdere la tensione per l'annunzio e per la fondazione di nuove chiese presso popoli o gruppi umani, in cui ancora non esistono, poiché questo è il compito della chiesa che è inviata a tutti i popoli, fino agli ultimi confini della terra. Senza la missione ad gentes la stessa dimensione missionaria della chiesa sarebbe priva del suo significato fondamentale e della sua attuazione esemplare. E' da notare, altresì, una reale e crescente interdipendenza tra le varie attività salvifiche della chiesa: ciascuna influisce sull'altra, la stimola e l'aiuta. Il dinamismo missionario crea scambio tra le chiese e orienta verso il mondo esterno, con influssi positivi in tutti i sensi. Le chiese di antica cristianità, ad esempio, alle prese col drammatico compito della nuova evangelizzazione, comprendono meglio che non possono essere missionarie verso i non cristiani di altri paesi e continenti, se non si preoccupano seriamente dei non cristiani in casa propria: la missionarietà ad intra è segno credibile e stimolo per quella ad extra , e viceversa.

A tutti i popoli, nonostante le difficoltà


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35. La missione ad gentes ha davanti a sé un compito immane che non è per nulla in via di estinzione. Essa, anzi, sia dal punto di vista numerico per l'aumento demografico, sia dal punto di vista socio-culturale per il sorgere di nuove relazioni, contatti e il variare delle situazioni, sembra destinata ad avere orizzonti ancora più vasti. Il compito di annunziare Gesù Cristo presso tutti i popoli appare immenso e sproporzionato rispetto alle forze umane della chiesa. Le difficoltà sembrano insormontabili e potrebbero scoraggiare, se si trattasse di un'opera soltanto umana. In alcuni paesi è proibito l'ingresso dei missionari; in altri è vietata non solo l'evangelizzazione, ma anche la conversione e persino il culto cristiano. Altrove gli ostacoli sono di natura culturale: la trasmissione del messaggio evangelico appare irrilevante o incomprensibile, e la conversione è vista come l'abbandono del proprio popolo e della propria cultura.

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36. Né mancano le difficoltà interne al popolo di Dio, le quali anzi sono le più dolorose. Già il mio predecessore Paolo VI indicava in primo luogo "la mancanza di fervore, tanto più grave perché nasce dal di dentro; essa si manifesta nella stanchezza, nella delusione, nell'accomodamento, nel disinteresse e, soprattutto, nella mancanza di gioia e di speranza". Grandi ostacoli alla missionarietà della chiesa sono anche le divisioni passate e presenti tra i cristiani, la scristianizzazione in paesi cristiani, la diminuzione delle vocazioni all'apostolato, le contro-testimonianze di fedeli e di comunità cristiane, che non seguono nella loro vita il modello di Cristo. Ma una delle ragioni più gravi dello scarso interesse per l'impegno missionario è la mentalità indifferentista, largamente diffusa, purtroppo, anche tra cristiani, spesso radicata in visioni teologiche non corrette e improntata a un relativismo religioso che porta a ritenere che "una religione vale l'altra". Possiamo aggiungere- come diceva lo stesso pontefice - che ci sono anche "alibi che possono sviare dall'evangelizzazione. I più insidiosi sono certamente quelli, per i quali si pretende di trovare appoggio nel tale o tal altro insegnamento del concilio".

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Al riguardo, raccomando vivamente ai teologi e ai professionisti della stampa cristiana di intensificare il proprio servizio alla missione, per trovare il senso profondo del loro importante lavoro lungo la retta via del sentire con la chiesa. Le difficoltà interne ed esterne non debbono renderci pessimisti o inattivi. Ciò che conta - qui come in ogni settore della vita cristiana - è la fiducia che viene dalla fede, cioè dalla certezza che non siamo noi i protagonisti della missione, ma Gesù Cristo e il suo Spirito. Noi siamo soltanto collaboratori e, quando abbiamo fatto tutto quello che ci è possibile, dobbiamo dire: "Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare" (Lc 17,10).

Ambiti della missione "ad gentes"

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37. La missione ad gentes , in forza del mandato universale di Cristo, non ha confini. Si possono, tuttavia, delineare vari ambiti in cui essa si attua, in modo da avere il quadro reale della situazione.

a ) Ambiti territoriali. L'attività missionaria è stata normalmente definita in rapporto a territori precisi. Il concilio Vaticano II ha riconosciuto la dimensione territoriale della missione ad gentes , anche oggi importante al fine di determinare responsabilità, competenze e limiti geografici d'azione. E' vero che a una missione universale deve corrispondere una prospettiva universale: la chiesa, infatti, non può accettare che confini geografici e impedimenti politici ostacolino la sua presenza missionaria. Ma è anche vero che l'attività missionaria ad gentes , essendo diversa dalla cura pastorale dei fedeli e dalla nuova evangelizzazione dei non praticanti, si esercita in territori e presso gruppi umani ben delimitati. Il moltiplicarsi delle giovani chiese nei tempi recenti non deve illudere. Nei territori affidati a queste chiese, specie in Asia, ma anche in Africa e in America Latina e Oceania, ci sono vaste zone non evangelizzate: interi popoli e aree culturali di grande importanza in non poche nazioni non sono ancora raggiunte dall'annunzio evangelico e dalla presenza della chiesa locale. Anche in paesi tradizionalmente cristiani ci sono regioni affidate al regime speciale della missione ad gentes con gruppi e aree non evangelizzate. Si impone, quindi, anche in questi paesi non solo una nuova evangelizzazione, ma in certi casi una prima evangelizzazione.

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Le situazioni, però, non sono omogenee. Pur riconoscendo che le affermazioni circa la responsabilità missionaria della chiesa non sono credibili se non sono autenticate da un serio impegno di nuova evangelizzazione nei paesi di antica cristianità, non pare giusto equiparare la situazione di un popolo che non ha mai conosciuto Gesù Cristo con quella di un altro che l'ha conosciuto, accettato e poi rifiutato, pur continuando a vivere in una cultura che ha assorbito in gran parte i princيpi e i valori evangelici. Sono due condizioni, in rapporto alla fede, sostanzialmente diverse. Pertanto, il criterio geografico, anche se non molto preciso e sempre provvisorio, vale ancora per indicare le frontiere verso cui deve rivolgersi l'attività missionaria. Ci sono paesi e aree geografiche e culturali in cui mancano comunità cristiane autoctone; altrove queste sono talmente piccole, da non essere un segno chiaro di presenza cristiana; oppure queste comunità mancano di dinamismo per evangelizzare le loro società o appartengono a popolazioni minoritarie, non inserite nella cultura nazionale dominante. Nel continente asiatico, in particolare, verso cui dovrebbe orientarsi principalmente la missione ad gentes , i cristiani sono una piccola minoranza, anche se a volte vi si verificano significativi movimenti di conversione ed esemplari modi di presenza cristiana.

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b ) Mondi e fenomeni sociali nuovi. Le rapide e profonde trasformazioni che caratterizzano oggi il mondo, in particolare il sud, influiscono fortemente sul quadro missionario: dove prima c'erano situazioni umane e sociali stabili, oggi tutto è in movimento. Si pensi, ad esempio, all'urbanizzazione e al massiccio incremento delle città, soprattutto dove più forte è la pressione demografica. Già ora in non pochi paesi più della metà della popolazione vive in alcune megalopoli, dove i problemi dell'uomo spesso peggiorano anche per l'anonimato in cui si sentono immerse le moltitudini.

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Nei tempi moderni l'attività missionaria si è svolta soprattutto in regioni isolate, lontane dai centri civilizzati e impervie per difficoltà di comunicazione, di lingua, di clima. Oggi l'immagine della missione ad gentes sta forse cambiando: luoghi privilegiati dovrebbero essere le grandi città, dove sorgono nuovi costumi e modelli di vita, nuove forme di cultura e comunicazione, che poi influiscono sulla popolazione. E' vero che la "scelta degli ultimi" deve portare a non trascurare i gruppi umani più marginali e isolati, ma è anche vero che non si possono evangelizzare le persone o i piccoli gruppi, trascurando i centri dove nasce, si può dire, un'umanità nuova con nuovi modelli di sviluppo. Il futuro delle giovani nazioni si sta formando nelle città. Parlando del futuro, non si possono dimenticare i giovani, i quali in numerosi paesi costituiscono già più della metà della popolazione. Come far giungere il messaggio di Cristo ai giovani non cristiani, che sono il futuro di interi continenti? Evidentemente i mezzi ordinari della pastorale non bastano più: occorrono associazioni e istituzioni, gruppi e centri speciali, iniziative culturali e sociali per i giovani. Ecco un campo, dove i moderni movimenti ecclesiali hanno ampio spazio per impegnarsi.

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Fra le grandi mutazioni del mondo contemporaneo, le migrazioni hanno prodotto un fenomeno nuovo: i non cristiani giungono assai numerosi nei paesi di antica cristianità, creando occasioni nuove di contatti e scambi culturali, sollecitando la chiesa all'accoglienza, al dialogo, all'aiuto e, in una parola, alla fraternità. Fra i migranti occupano un posto del tutto particolare i rifugiati, i quali meritano la massima attenzione. Essi sono ormai molti milioni nel mondo e non cessano di aumentare: sono fuggiti da condizioni di oppressione politica e di miseria disumana, da carestie e siccità di dimensioni catastrofiche. La chiesa deve assumerli nell'ambito della sua sollecitudine apostolica. Infine, si possono ricordare le condizioni di povertà, spesso intollerabile, che vengono a crearsi in non pochi paesi e sono spesso all'origine delle migrazioni di massa. La comunità dei credenti in Cristo è provocata da queste situazioni disumane: l'annunzio di Cristo e del regno di Dio deve diventare strumento di riscatto umano per queste popolazioni.

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c ) Aree culturali, o areopaghi moderni. Paolo, dopo aver predicato in numerosi luoghi, giunto ad Atene, si reca all'areopago, dove annunzia il vangelo, usando un linguaggio adatto e comprensibile in quell'ambiente (cf. At 17,22-31). L'areopago rappresentava allora il centro della cultura del dotto popolo ateniese, e oggi può essere assunto a simbolo dei nuovi ambienti in cui si deve proclamare il vangelo. Il primo areopago del tempo moderno è il mondo della comunicazione, che sta unificando l'umanità rendendola - come si suol dire - "un villaggio globale". I mezzi di comunicazione sociale hanno raggiunto una tale importanza da essere per molti il principale strumento informativo e formativo, di guida e di ispirazione per i comportamenti individuali, familiari, sociali. Le nuove generazioni soprattutto crescono in modo condizionato da essi. Forse è stato un po' trascurato questo areopago: si privilegiano generalmente altri strumenti per l'annunzio evangelico e per la formazione, mentre i mass-media sono lasciati all'iniziativa di singoli o di piccoli gruppi ed entrano nella programmazione pastorale in linea secondaria. L'impegno nei mass-media, tuttavia, non ha solo lo scopo di moltiplicare l'annunzio: si tratta di un fatto più profondo, perché l'evangelizzazione stessa della cultura moderna dipende in gran parte dal loro influsso. Non basta, quindi, usarli per diffondere il messaggio cristiano e il magistero della chiesa, ma occorre integrare il messaggio stesso in questa "nuova cultura" creata dalla comunicazione moderna. E' un problema complesso, poiché questa cultura nasce, prima ancora che dai contenuti, dal fatto stesso che esistono nuovi modi di comunicare con nuovi linguaggi, nuove tecniche e nuovi atteggiamenti psicologici. Il mio predecessore Paolo VI diceva che "la rottura fra il vangelo e la cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca", e il campo dell'odierna comunicazione conferma in pieno questo giudizio.

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Molti altri sono gli areopaghi del mondo moderno, verso cui si deve orientare l'attività missionaria della chiesa. Ad esempio, l'impegno per la pace, lo sviluppo e la liberazione dei popoli; i diritti dell'uomo e dei popoli, soprattutto quelli delle minoranze; la promozione della donna e del bambino; la salvaguardia del creato sono altrettanti settori da illuminare con la luce del vangelo. E' da ricordare, inoltre, il vastissimo areopago della cultura, della ricerca scientifica, dei rapporti internazionali che favoriscono il dialogo e portano a nuovi progetti di vita. Conviene essere attenti e impegnati in queste istanze moderne. Gli uomini avvertono di essere come naviganti nel mare della vita, chiamati a sempre maggiore unità e solidarietà: le soluzioni ai problemi esistenziali vanno studiate, discusse, sperimentate col concorso di tutti. Ecco perché organismi e convegni internazionali si dimostrano sempre più importanti in molti settori della vita umana, dalla cultura alla politica, dall'economia alla ricerca. I cristiani, che vivono e lavorano in questa dimensione internazionale, debbono sempre ricordare il loro dovere di testimoniare il vangelo.

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38. Il nostro tempo è drammatico e insieme affascinante. Mentre da un lato gli uomini sembrano rincorrere la prosperità materiale e immergersi sempre più nel materialismo consumistico, dall'altro si manifestano l'angosciosa ricerca di significato, il bisogno di interiorità, il desiderio di apprendere nuove forme e modi di concentrazione e di preghiera. Non solo nelle culture impregnate di religiosità, ma anche nelle società secolarizzate è ricercata la dimensione spirituale della vita come antidoto alla disumanizzazione. Questo cosiddetto fenomeno del "ritorno religioso" non è privo di ambiguità, ma contiene anche un invito. La chiesa ha un immenso patrimonio spirituale da offrire all'umanità, in Cristo che si proclama "la via, la verità e la vita" (Gv 14,6). E' il cammino cristiano all'incontro con Dio, alla preghiera, all'ascesi, alla scoperta del senso della vita. Anche questo è un areopago da evangelizzare.

Fedeltà a Cristo e promozione della libertà dell'uomo

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39. Tutte le forme dell'attività missionaria sono contrassegnate dalla consapevolezza di promuovere la libertà dell'uomo annunciando a lui Gesù Cristo. La chiesa deve essere fedele a Cristo, di cui è il corpo e continua la missione. E' necessario che essa "segua la stessa strada seguita da Cristo, la strada della povertà, dell'obbedienza, del servizio e del sacrificio di sé fino alla morte, da cui poi risorgendo uscì vincitore". La chiesa, quindi, ha il dovere di fare di tutto per svolgere la sua missione nel mondo e raggiungere tutti i popoli; e ne ha anche il diritto, che le è stato dato da Dio per l'attuazione del suo piano. La libertà religiosa, talvolta ancora limitata o coartata, è la premessa e la garanzia di tutte le libertà che assicurano il bene comune delle persone e dei popoli. E' da auspicare che l'autentica libertà religiosa sia concessa a tutti in ogni luogo, ed a questo scopo la chiesa si adopera nei vari paesi, specie in quelli a maggioranza cattolica, dove essa ha un maggiore influsso. Ma non si tratta di un problema della religione di maggioranza o di minoranza, bensì di un diritto inalienabile di ogni persona umana.

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D'altra parte, la chiesa si rivolge all'uomo nel pieno rispetto della sua libertà: la missione non coarta la libertà, ma piuttosto la favorisce. La chiesa propone, non impone nulla: rispetta le persone e le culture, e si ferma davanti al sacrario della coscienza. A coloro che si oppongono con i più vari pretesti all'attività missionaria della chiesa ripeto: "Aprite le porte a Cristo!". Mi rivolgo a tutte le chiese particolari, giovani e antiche. Il mondo va sempre più unificandosi, lo spirito evangelico deve portare al superamento di barriere culturali e nazionalistiche, evitando ogni chiusura. Benedetto XV ammoniva già i missionari del suo tempo se mai, "dimentichi della propria dignità, pensassero più alla loro patria terrestre che a quella del cielo". La stessa raccomandazione vale oggi per le chiese particolari: Aprite le porte ai missionari, poiché "ogni chiesa particolare, che si separasse volontariamente dalla chiesa universale, perderebbe il suo riferimento al disegno di Dio e si impoverirebbe nella sua dimensione ecclesiale".

Rivolgere l'attenzione verso il sud e l'oriente

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40. L'attività missionaria rappresenta ancor oggi la massima sfida per la chiesa. Mentre si avvicina la fine del secondo millennio della redenzione, si fa sempre più evidente che le genti che non hanno ancora ricevuto il primo annunzio di Cristo sono la maggioranza dell'umanità. Il bilancio dell'attività missionaria nei tempi moderni è certo positivo: la chiesa è stata fondata in tutti i continenti, anzi oggi la maggioranza dei fedeli e delle chiese particolari non è più nella vecchia Europa, ma nei continenti che i missionari hanno aperto alla fede. Rimane, però, il fatto che gli "ultimi confini della terra", a cui si deve portare il vangelo, si allontanano sempre più, e la sentenza di Tertulliano, secondo cui il vangelo è stato annunziato in tutta la terra e a tutti i popoli, è ben lontana dalla sua concreta attuazione: la missione ad gentes è ancora agli inizi. Nuovi popoli compaiono sulla scena mondiale e hanno anch'essi il diritto di ricevere l'annunzio della salvezza. La crescita demografica del sud e dell'oriente, in paesi non cristiani, fa aumentare di continuo il numero delle persone che ignorano la redenzione di Cristo. Bisogna, dunque, rivolgere l'attenzione missionaria verso quelle aree geografiche e quegli ambienti culturali che sono rimasti al di fuori dell'influsso evangelico. Tutti i credenti in Cristo debbono sentire, come parte integrante della loro fede, la sollecitudine apostolica di trasmetterne ad altri la gioia e la luce. Tale sollecitudine deve diventare, per così dire, fame e sete di far conoscere il Signore, quando si allarga lo sguardo agli immensi orizzonti del mondo non cristiano.

Capitolo V: LE VIE DELLA MISSIONE

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41. "L'attività missionaria non è né più né meno che la manifestazione, o epifania, e la realizzazione del disegno di Dio nel mondo e nella storia, nella quale Dio, proprio mediante la missione, attua all'evidenza la storia della salvezza". Quali vie segue la chiesa per giungere a questo risultato? La missione è una realtà unitaria, ma complessa, e si esplica in vari modi, tra cui alcuni sono di particolare importanza nella presente condizione della chiesa e del mondo.

La prima forma di evangelizzazione è la testimonianza


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42. L'uomo contemporaneo crede più ai testimoni che ai maestri, più all'esperienza che alla dottrina, più alla vita e ai fatti che alle teorie. La testimonianza della vita cristiana è la prima e insostituibile forma della missione: Cristo, di cui noi continuiamo la missione, è il "testimone" per eccellenza (Ap 1,5; 3,14) e il modello della testimonianza cristiana. Lo Spirito Santo accompagna il cammino della chiesa e l'associa alla testimonianza che egli rende a Cristo (cf. Gv 15,26-27). La prima forma di testimonianza è la vita stessa del missionario, della famiglia cristiana e della comunità ecclesiale, che rende visibile un modo nuovo di comportarsi. Il missionario che, pur con tutti i limiti e difetti umani, vive con semplicità secondo il modello di Cristo, è un segno di Dio e delle realtà trascendenti. Ma tutti nella chiesa, sforzandosi di imitare il divin Maestro, possono e debbono dare tale testimonianza, che in molti casi è l'unico modo possibile di essere missionari. La testimonianza evangelica, a cui il mondo è più sensibile, è quella dell'attenzione per le persone e della carità verso i poveri e i piccoli, verso chi soffre. La gratuità di questo atteggiamento e di queste azioni, che contrastano profondamente con l'egoismo presente nell'uomo, fa nascere precise domande che orientano a Dio e al vangelo. Anche l'impegno per la pace, la giustizia, i diritti dell'uomo, la promozione umana è una testimonianza del vangelo, se è segno di attenzione per le persone ed è ordinato allo sviluppo integrale dell'uomo.

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43. Il cristiano e le comunità cristiane vivono profondamente inseriti nella vita dei rispettivi popoli e sono segno del vangelo anche nella fedeltà alla loro patria, al loro popolo, alla cultura nazionale, sempre però nella libertà che Cristo ha portato. Il cristianesimo è aperto alla fratellanza universale, perché tutti gli uomini sono figli dello stesso Padre e fratelli in Cristo. La chiesa è chiamata a dare la sua testimonianza a Cristo assumendo posizioni coraggiose e profetiche di fronte alla corruzione del potere politico o economico; non cercando essa stessa gloria e beni materiali; usando dei suoi beni per il servizio dei più poveri ed imitando la semplicità di vita del Cristo. La chiesa e i missionari debbono dare anche la testimonianza dell'umiltà, rivolta anzitutto verso se stessi, che si traduce nella capacità di un esame di coscienza a livello personale e comunitario, per correggere nei propri comportamenti quanto è anti-evangelico e sfigura il volto di Cristo.

Il primo annunzio di Cristo salvatore


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44. L'annunzio ha la priorità permanente nella missione: la chiesa non può sottrarsi al mandato esplicito di Cristo, non può privare gli uomini della "buona novella" che sono amati e salvati da Dio. "L'evangelizzazione conterrà sempre - come base, centro e insieme vertice del suo dinamismo - anche una chiara proclamazione che, in Gesù Cristo... la salvezza è offerta ad ogni uomo, come dono di grazia e di misericordia di Dio stesso". Tutte le forme dell'attività missionaria tendono verso questa proclamazione che rivela e introduce nel mistero nascosto nei secoli e svelato in Cristo( cf. Ef 3,3-9; Col 1,25-29), il quale è nel cuore della missione e della vita della chiesa, come cardine di tutta l'evangelizzazione. Nella realtà complessa della missione il primo annunzio ha un ruolo centrale e insostituibile, perché introduce "nel mistero dell'amore di Dio, che chiama a stringere in Cristo una personale relazione con lui" e apre la via alla conversione. La fede nasce dall'annunzio, e ogni comunità ecclesiale trae origine e vita dalla risposta personale di ciascun fedele a tale annunzio. Come l'economia salvifica è incentrata in Cristo, così l'attività missionaria tende alla proclamazione del suo mistero.

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L'annunzio ha per oggetto il Cristo crocifisso, morto e risorto: in lui si compie la piena e autentica liberazione dal male, dal peccato e dalla morte; in lui Dio dona la "vita nuova", divina ed eterna. E' questa la "buona novella", che cambia l'uomo e la storia dell'umanità e che tutti i popoli hanno il diritto di conoscere. Tale annunzio va fatto nel contesto della vita dell'uomo e dei popoli che lo ricevono. La salvezza e la liberazione, che Cristo ha portato, riguardano l'intera vita dell'uomo nel tempo e nell'eternità, cominciando qui e già ora e trasformando la vita delle persone e delle comunità con lo spirito evangelico. Esso, inoltre, deve essere fatto in atteggiamento di amore e di stima verso chi ascolta, con un linguaggio concreto e adattato alle circostanze. In esso lo Spirito è all'opera e instaura una comunione tra il missionario e gli ascoltatori, possibile in quanto l'uno e gli altri entrano in comunione, per Cristo, col Padre.

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45. Essendo fatto in unione con l'intera comunità ecclesiale, l'annunzio non è mai un fatto personale. Il missionario è presente e opera in virtù di un mandato ricevuto e, anche se si trova solo, è collegato mediante vincoli invisibili, ma profondi, all'attività evangelizzatrice di tutta la chiesa. Gli ascoltatori, prima o poi, intravedono dietro a lui la comunità che lo ha mandato e lo sostiene. L'annunzio è animato dalla fede, che suscita entusiasmo e fervore nel missionario. Come si è detto, gli Atti definiscono tale atteggiamento con la parola parresيa , che significa parlare con franchezza e coraggio, e questo termine ricorre anche in san Paolo: "Nel nostro Dio abbiamo avuto il coraggio di annunziarvi il vangelo di Dio in mezzo a molte lotte" (1Ts 2,2). "Pregate... anche per me, perché quando apro la bocca, mi sia data una parola franca per far conoscere il mistero del vangelo, del quale sono ambasciatore in catene, e io possa annunziarlo con franchezza come è mio dovere" (Ef 6,18-20).

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Nell'annunziare Cristo ai non cristiani il missionario è convinto che esiste già nei singoli e nei popoli, per l'azione dello Spirito, un'attesa anche se inconscia di conoscere la verità su Dio, sull'uomo, sulla via che porta alla liberazione dal peccato e dalla morte. L'entusiasmo nell'annunziare il Cristo deriva dalla convinzione di rispondere a tale attesa, sicché il missionario non si scoraggia né desiste dalla sua testimonianza, anche quando è chiamato a manifestare la sua fede in un ambiente ostile o indifferente. Egli sa che lo Spirito del Padre parla in lui (cf. Mt 10,17-20; Lc 12,11-12) e può ripetere con gli apostoli: "Di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo" (At 5,32). Egli sa che non annunzia una verità umana, ma la "parola di Dio", la quale ha una sua intrinseca e misteriosa potenza (cf. Rm 1,16). La prova suprema è il dono della vita, fino ad accettare la morte per testimoniare la fede in Gesù Cristo. Come sempre nella storia cristiana, i "martiri", cioè i testimoni, sono numerosi e indispensabili al cammino del vangelo. Anche nella nostra epoca ce ne sono tanti: vescovi, sacerdoti, religiosi e religiose, laici, a volte eroi sconosciuti che danno la vita per testimoniare la fede. Sono essi gli annunziatori e i testimoni per eccellenza.

Conversione e battesimo


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46. L'annunzio della parola di Dio mira alla conversione cristiana, cioè all'adesione piena e sincera a Cristo e al suo vangelo mediante la fede. La conversione è dono di Dio, opera della Trinità: è lo Spirito che apre le porte dei cuori, affinché gli uomini possano credere al Signore e "confessarlo" (cf. 1Cor 12,3). Di chi si accosta a lui mediante la fede Gesù dice: "Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato" (Gv 6,44). La conversione si esprime fin dall'inizio con una fede totale e radicale, che non pone né limiti né remore al dono di Dio. Al tempo stesso, però, essa determina un processo dinamico e permanente che dura per tutta l'esistenza, esigendo un passaggio continuo dalla "vita secondo la carne" alla "vita secondo lo Spirito" (cf. Rm 8,3-13). Essa significa accettare, con decisione personale, la sovranità salvifica di Cristo e diventare suoi discepoli.

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A questa conversione la chiesa chiama tutti, sull'esempio di Giovanni Battista, che preparava la via a Cristo, "predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati" (Mc 1,4), e di Cristo stesso, il quale, "dopo che Giovanni fu arrestato, ... si recò in Galilea predicando il vangelo di Dio e diceva: "Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo"" (Mc 1,14-15). Oggi l'appello alla conversione, che i missionari rivolgono ai non cristiani, è messo in discussione o passato sotto silenzio. Si vede in esso un atto di "proselitismo"; si dice che basta aiutare gli uomini a essere più uomini o più fedeli alla propria religione, che basta costruire comunità capaci di operare per la giustizia, la libertà, la pace, la solidarietà. Ma si dimentica che ogni persona ha il diritto di udire la "buona novella" di Dio che si rivela e si dona in Cristo, per attuare in pienezza la sua propria vocazione. La grandezza di questo evento risuona nelle parole di Gesù alla samaritana: "Se tu conoscessi il dono di Dio", e nel desiderio inconsapevole, ma ardente della donna: "Signore, dammi di quest'acqua, perché non abbia più sete" (Gv 4,10.15).

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47. Gli apostoli, mossi dallo Spirito Santo, invitavano tutti a cambiare vita, a convertirsi e a ricevere il battesimo. Subito dopo l'evento della pentecoste, Pietro parla alla folla in modo convincente: "All'udir tutto questo, si sentirono come trafiggere il cuore e chiesero a Pietro e agli altri apostoli: "Che cosa dobbiamo fare, fratelli?". E Pietro disse: "Convertitevi, e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per la remissione dei vostri peccati; dopo riceverete il dono dello Spirito Santo"" (At 2,37-38). E battezzò in quel giorno circa tremila persone. Pietro ancora, dopo la guarigione dello storpio, parla alla folla e ripete: "Convertitevi, dunque, e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati!" (At 3,19).

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La conversione a Cristo è connessa col battesimo: lo è non solo per la prassi della chiesa, ma per volere di Cristo, che ha inviato a far discepole tutte le genti e a battezzarle (cf. Mt 28,19); lo è anche per l'intrinseca esigenza di ricevere la pienezza della vita in lui: "In verità, in verità ti dico - Gesù dice a Nicodemo - se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio" (Gv 3,5). Il battesimo, infatti, ci rigenera alla vita dei figli di Dio, ci unisce a Gesù Cristo, ci unge nello Spirito Santo: esso non è un semplice suggello della conversione, quasi un segno esteriore che la dimostri e l'attesti, bensì è sacramento che significa e opera questa nuova nascita dallo Spirito, instaura vincoli reali e inscindibili con la Trinità, rende membri del corpo di Cristo, ch'è la chiesa.

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Tutto questo va ricordato, perché non pochi, proprio dove si svolge la missione ad gentes , tendono a scindere la conversione a Cristo dal battesimo, giudicandolo come non necessario. E' vero che in certi ambienti si notano aspetti sociologici relativi al battesimo che ne oscurano il genuino significato di fede. Ciò è dovuto a diversi fattori storici e culturali, che bisogna rimuovere dove ancora sussistono, affinché il sacramento della rigenerazione spirituale appaia in tutto il suo valore: a questo compito devono dedicarsi le comunità ecclesiali locali. E' vero anche che non poche persone affermano di essere interiormente impegnate con Cristo e col suo messaggio, ma non lo vogliono essere sacramentalmente, perché, a causa dei loro pregiudizi o delle colpe dei cristiani, non riescono a percepire la vera natura della chiesa, mistero di fede e di amore. Desidero incoraggiare queste persone ad aprirsi pienamente a Cristo ricordando ad esse che, se sentono il fascino di Cristo, egli stesso ha voluto la chiesa come "luogo" in cui possono di fatto incontrarlo. Al tempo stesso, invito i fedeli e le comunità cristiane a testimoniare autenticamente Cristo con la loro vita nuova.

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Certo, ogni convertito è un dono fatto alla chiesa e comporta per essa una grave responsabilità non solo perché va preparato al battesimo col catecumenato e poi seguito con l'istruzione religiosa, ma perché, specialmente se è adulto, porta come un'energia nuova, l'entusiasmo della fede, il desiderio di trovare nella chiesa stessa il vangelo vissuto. Sarebbe per lui una delusione se, entrato nella comunità ecclesiale, vi trovasse una vita priva di fervore e senza segni di rinnovamento. Non possiamo predicare la conversione, se non ci convertiamo noi stessi ogni giorno.

Formazione di chiese locali

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48. La conversione e il battesimo immettono nella chiesa, dove già esiste, o richiedono la costituzione di nuove comunità che confessano Gesù Salvatore e Signore. Ciò fa parte del disegno di Dio, a cui è piaciuto "di chiamare gli uomini a partecipare alla sua stessa vita non tanto a uno a uno, ma di riunirli in un popolo, nel quale i suoi figli dispersi si raccogliessero in unità". La missione ad gentes ha questo obiettivo: fondare comunità cristiane, sviluppare chiese fino alla loro completa maturazione. E', questa, una mèta centrale e qualificante dell'attività missionaria, al punto che questa non si può dire esplicata finché non riesce a edificare una nuova chiesa particolare, normalmente funzionante nell'ambiente locale. Di ciò parla ampiamente il decreto Ad gentes , e dopo il concilio si è sviluppata una linea teologica per sottolineare che tutto il mistero della chiesa è contenuto in ciascuna chiesa particolare, purché questa non si isoli, ma rimanga in comunione con la chiesa universale e si faccia, a sua volta, missionaria. Si tratta di un grande e lungo lavoro, del quale è difficile indicare le tappe precise in cui cessa l'azione propriamente missionaria e si passa all'attività pastorale. Ma alcuni punti debbono restare chiari.

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49. E' necessario, anzitutto, cercare di stabilire in ogni luogo comunità cristiane, che siano "segno della presenza divina nel mondo" e crescano fino a divenire chiese. Nonostante l'alto numero delle diocesi, esistono tuttora vaste aree in cui le chiese locali sono del tutto assenti o insufficienti rispetto alla vastità del territorio e alla densità della popolazione: rimane da compiere un grande lavoro di impianto e di sviluppo della chiesa. Questa fase della storia ecclesiale, detta plantatio ecclesiae , non è terminata, anzi in molti raggruppamenti umani deve ancora iniziare. La responsabilità di tale compito ricade sulla chiesa universale e sulle chiese particolari, su tutto il popolo di Dio e su tutte le forze missionarie. Ogni chiesa, anche quella formata da neoconvertiti, è per sua natura missionaria, è evangelizzata ed evangelizzante, e la fede va sempre presentata come dono di Dio da vivere in comunità (famiglie, parrocchie, associazioni) e da irradiare all'esterno sia con la testimonianza di vita che con la parola. L'azione evangelizzatrice della comunità cristiana, prima sul proprio territorio e poi altrove come partecipazione alla missione universale, è il segno più chiaro della maturità della fede. Occorre un radicale cambiamento di mentalità per diventare missionari, e questo vale sia per le persone sia per le comunità. Il Signore chiama sempre a uscire da se stessi, a condividere con gli altri i beni che abbiamo, cominciando da quello più prezioso che è la fede. Alla luce di questo imperativo missionario si dovrà misurare la validità degli organismi, movimenti, parrocchie e opere di apostolato della chiesa. Solo diventando missionaria la comunità cristiana potrà superare divisioni e tensioni interne e ritrovare la sua unità e il suo vigore di fede.

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Le forze missionarie, provenienti da altre chiese e paesi, devono operare in comunione con quelle locali per lo sviluppo della comunità cristiana. In particolare, tocca a esse - sempre secondo le direttive dei vescovi e in collaborazione con i responsabili del posto- promuovere la diffusione della fede e l'espansione della chiesa negli ambienti e gruppi non cristiani, animare in senso missionario le chiese locali, cosicché la preoccupazione pastorale sia sempre abbinata a quella per la missione ad gentes. Ogni chiesa farà allora veramente sua la sollecitudine di Cristo, buon Pastore, che si prodiga per il suo gregge, ma al tempo stesso pensa alle "altre pecore che non sono di quest'ovile" (Gv 10,16).

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50. Tale sollecitudine costituirà un motivo e uno stimolo per un rinnovato impegno ecumenico. I legami esistenti tra attività ecumenica e attività missionaria rendono necessario considerare due fattori concomitanti. Da una parte, si deve riconoscere che "la divisione dei cristiani è di grave pregiudizio alla santa causa della predicazione del vangelo a tutti gli uomini e chiude a molti l'accesso alla fede". Il fatto che la buona novella della riconciliazione sia predicata dai cristiani tra loro divisi, ne indebolisce la testimonianza, ed è perciò urgente operare per l'unità dei cristiani, affinché l'attività missionaria possa riuscire più incisiva. Al tempo stesso, non dobbiamo dimenticare che gli stessi sforzi verso l'unità costituiscono di per sé un segno dell'opera di riconciliazione che Dio conduce in mezzo a noi.

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D'altra parte, è vero che tutti quelli che hanno ricevuto il battesimo in Cristo sono costituiti in una certa comunione, sebbene imperfetta, tra loro. E' su questa base che si fonda l'orientamento dato dal concilio: "I cattolici, esclusa ogni forma sia di indifferentismo e di sincretismo, sia di sconsiderata concorrenza, mediante una comune - per quanto possibile - professione di fede in Dio e in Gesù Cristo di fronte alle genti, mediante la cooperazione nel campo tecnico e sociale come in quello religioso e culturale, collaborino fraternamente con i fratelli separati, secondo le norme del decreto sull'ecumenismo". L'attività ecumenica e la testimonianza concorde a Gesù Cristo dei cristiani appartenenti a differenti chiese e comunità ecclesiali, hanno già recato abbondanti frutti. Ma è sempre più urgente che essi collaborino e testimonino insieme in questo tempo nel quale sètte cristiane e paracristiane seminano la confusione con la loro azione. L'espansione di queste sètte costituisce una minaccia per la chiesa cattolica e per tutte le comunità ecclesiali con le quali essa intrattiene un dialogo. Ovunque possibile e secondo le circostanze locali, la risposta dei cristiani potrà essere anch'essa ecumenica.

Le "comunità ecclesiali di base" - Forza di evangelizzazione

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51. Un fenomeno in rapida crescita nelle giovani chiese, promosso dai vescovi e dalle loro conferenze a volte come scelta prioritaria della pastorale, sono le comunità ecclesiali di base (conosciute anche con altri nomi), le quali stanno dando buona prova come centro di formazione cristiana e di irradiazione missionaria. Si tratta di gruppi di cristiani a livello familiare o di ambiente ristretto, i quali s'incontrano per la preghiera, la lettura della Scrittura, la catechesi, per la condivisione dei problemi umani ed ecclesiali in vista di un impegno comune. Esse sono un segno di vitalità della chiesa, strumento di formazione e di evangelizzazione, valido punto di partenza per una nuova società fondata sulla "civiltà dell'amore". Tali comunità decentrano e articolano la comunità parrocchiale, a cui rimangono sempre unite; si radicano in ambienti popolari e contadini, diventando fermento di vita cristiana, di attenzione per gli ultimi, di impegno per la trasformazione della società. In esse il singolo cristiano fa un'esperienza comunitaria, per cui anch'egli si sente un elemento attivo, stimolato a dare la sua collaborazione all'impegno di tutti. In tal modo esse sono strumento di evangelizzazione e di primo annunzio e fonte di nuovi ministeri, mentre, animate dalla carità di Cristo, offrono anche un'indicazione circa il modo di superare divisioni, tribalismi, razzismi.

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Ogni comunità, infatti, per essere cristiana, deve fondarsi e vivere in Cristo, nell'ascolto della parola di Dio, nella preghiera incentrata sull'eucaristia, nella comunione espressa in unità di cuore e di anima e nella condivisione secondo i bisogni dei suoi membri (cf. At 2,42-47). Ogni comunità - ricordava Paolo VI - deve vivere in unità con la chiesa particolare e universale, nella sincera comunione con i pastori e il magistero, impegnandosi nell'irradiazione missionaria ed evitando ogni chiusura e strumentalizzazione ideologica. E il sinodo dei vescovi ha affermato: "Poiché la chiesa è comunione, le nuove comunità di base, se veramente vivono in unità con la chiesa, sono una vera espressione di comunione e mezzo per costruire una comunione più profonda. Perciò, sono motivo di grande speranza per la vita della chiesa".

Incarnare il vangelo nelle culture dei popoli

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52. Svolgendo l'attività missionaria tra le genti, la chiesa incontra varie culture e viene coinvolta nel processo d'inculturazione. E', questa, un'esigenza che ne ha segnato tutto il cammino storico, ma oggi è particolarmente acuta e urgente. Il processo di inserimento della chiesa nelle culture dei popoli richiede tempi lunghi: non si tratta di un puro adattamento esteriore, poiché l'inculturazione "significa l'intima trasformazione degli autentici valori culturali mediante l'integrazione nel cristianesimo e il radicamento del cristianesimo nelle varie culture". E', dunque, un processo profondo e globale che investe sia il messaggio cristiano, sia la riflessione e la prassi della chiesa. Ma è pure un processo difficile, perché non deve in alcun modo compromettere la specificità e l'integrità della fede cristiana.

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Per l'inculturazione la chiesa incarna il vangelo nelle diverse culture e, nello stesso tempo, introduce i popoli con le loro culture nella sua stessa comunità; trasmette ad esse i propri valori, assumendo ciò che di buono c'è in esse e rinnovandole dall'interno. Da parte sua, con l'inculturazione la chiesa diventa segno più comprensibile di ciò che è e strumento più atto della missione. Grazie a questa azione nelle chiese locali, la stessa chiesa universale si arricchisce di espressioni e valori nei vari settori della vita cristiana, quali l'evangelizzazione, il culto, la teologia, la carità; conosce ed esprime ancor meglio il mistero di Cristo, mentre viene stimolata a un continuo rinnovamento. Questi temi, presenti nel concilio e nel magistero successivo, ho ripetutamente affrontato nelle mie visite pastorali alle giovani chiese. L'inculturazione è un cammino lento, che accompagna tutta la vita missionaria e chiama in causa i vari operatori della missione ad gentes , le comunità cristiane man mano che si sviluppano, i pastori che hanno la responsabilità di discernere e stimolare la sua attuazione.

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53. I missionari, provenienti da altre chiese e paesi, devono inserirsi nel mondo socio-culturale di coloro ai quali sono mandati, superando i condizionamenti del proprio ambiente d'origine. Così devono imparare la lingua della regione in cui lavorano, conoscere le espressioni più significative di quella cultura, scoprendone i valori per diretta esperienza. Soltanto con questa conoscenza essi potranno portare ai popoli in maniera credibile e fruttuosa la conoscenza del mistero nascosto (cf. Rm 16,25-27; Ef 3,5). Per loro non si tratta certo di rinnegare la propria identità culturale, ma di comprendere, apprezzare, promuovere ed evangelizzare quella dell'ambiente in cui operano e, quindi, mettersi in grado di comunicare realmente con esso, assumendo uno stile di vita che sia segno di testimonianza evangelica e di solidarietà con la gente.

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Le comunità ecclesiali in formazione, ispirate dal vangelo, potranno esprimere progressivamente la propria esperienza cristiana in modi e forme originali, consone alle proprie tradizioni culturali, purché sempre in sintonia con le esigenze oggettive della stessa fede. A questo scopo, specie in ordine ai settori di inculturazione più delicati, le chiese particolari del medesimo territorio dovranno operare in comunione fra di loro e con tutta la chiesa, convinte che solo l'attenzione sia alla chiesa universale che alle chiese particolari le renderà capaci di tradurre il tesoro della fede nella legittima varietà delle sue espressioni. Perciò, i gruppi evangelizzati offriranno gli elementi per una "traduzione" del messaggio evangelico, tenendo presenti gli apporti positivi che si sono avuti nei secoli grazie al contatto del cristianesimo con le varie culture, ma senza dimenticare i pericoli di alterazioni che si sono a volte verificati.

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54. In proposito, restano fondamentali alcune indicazioni. L'inculturazione nel suo retto processo dev'essere guidata da due princìpi: "La compatibilità col vangelo e la comunione con la chiesa universale". Custodi del "deposito della fede", i vescovi cureranno la fedeltà e, soprattutto, il discernimento, per il quale occorre un profondo equilibrio: c'è, infatti, il rischio di passare acriticamente da una specie di alienazione dalla cultura a una supervalutazione di essa, che è un prodotto dell'uomo, quindi è segnata dal peccato. Anch'essa dev'essere "purificata, elevata e perfezionata". Un tale processo ha bisogno di gradualità, in modo che sia veramente espressione dell'esperienza cristiana della comunità: "Occorrerà un'incubazione del mistero cristiano nel genio del vostro popolo - diceva Paolo VI a Kampala -, perché la sua voce nativa, più limpida e più franca, si innalzi armoniosa nel coro delle voci della chiesa universale". Infine, l'inculturazione deve coinvolgere tutto il popolo di Dio, non solo alcuni esperti, poiché è noto che il popolo riflette quel genuino senso della fede che non bisogna mai perdere di vista. Essa va sì guidata e stimolata, ma non forzata, per non suscitare reazioni negative nei cristiani: dev'essere espressione di vita comunitaria, cioè maturare in seno alla comunità, e non frutto esclusivo di ricerche erudite. La salvaguardia dei valori tradizionali è effetto di una fede matura.

Il dialogo con i fratelli di altre religioni

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55. Il dialogo inter-religioso fa parte della missione evangelizzatrice della chiesa. Inteso come metodo e mezzo per una conoscenza e un arricchimento reciproco, esso non è in contrapposizione con la missione ad gentes , anzi ha speciali legami con essa e ne è un'espressione. Tale missione, infatti, ha per destinatari gli uomini che non conoscono Cristo e il suo vangelo, e in gran maggioranza appartengono ad altre religioni. Dio chiama a sé tutte le genti in Cristo, volendo loro comunicare la pienezza della sua rivelazione e del suo amore; né manca di rendersi presente in tanti modi non solo ai singoli individui, ma anche ai popoli mediante le loro ricchezze spirituali, di cui le religioni sono precipua ed essenziale espressione, pur contenendo "lacune, insufficienze ed errori". Tutto ciò il concilio e il successivo magistero hanno ampiamente sottolineato, mantenendo sempre fermo che la salvezza viene da Cristo e il dialogo non dispensa dall'evangelizzazione. Alla luce dell'economia di salvezza, la chiesa non vede un contrasto fra l'annuncio del Cristo e il dialogo inter-religioso; sente, però, la necessità di comporli nell'ambito della sua missione ad gentes. Occorre, infatti, che questi due elementi mantengano il loro legame intimo e, al tempo stesso, la loro distinzione, per cui non vanno né confusi, né strumentalizzati, né giudicati equivalenti come se fossero intercambiabili.

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Ho scritto recentemente ai vescovi dell'Asia: "Anche se la chiesa riconosce volentieri quanto c'è di vero e di santo nelle tradizioni religiose del buddhismo, dell'induismo e dell'islam - riflessi di quella verità che illumina tutti gli uomini -, ciò non diminuisce il suo dovere e la sua determinazione a proclamare senza esitazioni Gesù Cristo, che è "la via, la verità e la vita"... Il fatto che i seguaci di altre religioni possano ricevere la grazia di Dio ed essere salvati da Cristo indipendentemente dai mezzi ordinari che egli ha stabilito, non cancella affatto l'appello alla fede e al battesimo che Dio vuole per tutti i popoli". Cristo stesso, infatti, "inculcando espressamente la necessità della fede e del battesimo, ha confermato simultaneamente la necessità della chiesa, nella quale gli uomini entrano mediante il battesimo come per una porta". Il dialogo deve esser condotto e attuato con la convinzione che la chiesa è la via ordinaria di salvezza e che solo essa possiede la pienezza dei mezzi di salvezza.

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56. Il dialogo non nasce da tattica o da interesse, ma è un'attività che ha proprie motivazioni, esigenze, dignità: è richiesto dal profondo rispetto per tutto ciò che nell'uomo ha operato lo Spirito, che soffia dove vuole. Con esso la chiesa intende scoprire i "germi del Verbo", i "raggi della verità che illumina tutti gli uomini", germi e raggi che si trovano nelle persone e nelle tradizioni religiose dell'umanità. Il dialogo si fonda sulla speranza e la carità e porterà frutti nello Spirito. Le altre religioni costituiscono una sfida positiva per la chiesa: la stimolano, infatti, sia a scoprire e a riconoscere i segni della presenza del Cristo e dell'azione dello Spirito, sia ad approfondire la propria identità e a testimoniare l'integrità della rivelazione, di cui è depositaria per il bene di tutti.

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Deriva da qui lo spirito che deve animare tale dialogo nel contesto della missione. L'interlocutore dev'essere coerente con le proprie tradizioni e convinzioni religiose e aperto a comprendere quelle dell'altro, senza dissimulazioni o chiusure, ma con verità, umiltà, lealtà, sapendo che il dialogo può arricchire ognuno. Non ci deve essere nessuna abdicazione né irenismo, ma la testimonianza reciproca per un comune progresso nel cammino di ricerca e di esperienza religiosa e, al tempo stesso, per il superamento di pregiudizi, intolleranze e malintesi. Il dialogo tende alla purificazione e conversione interiore che, se perseguìta con docilità allo Spirito, sarà spiritualmente fruttuosa.

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57. Al dialogo si apre un vasto campo, potendo esso assumere molteplici forme ed espressioni: dagli scambi tra esperti delle tradizioni religiose o rappresentanti ufficiali di esse alla collaborazione per lo sviluppo integrale e la salvaguardia dei valori religiosi; dalla comunicazione delle rispettive esperienze spirituali al cosiddetto "dialogo di vita", per cui i credenti delle diverse religioni testimoniano gli uni agli altri nell'esistenza quotidiana i propri valori umani e spirituali e si aiutano a viverli per edificare una società più giusta e fraterna. Tutti i fedeli e le comunità cristiane sono chiamati a praticare il dialogo, anche se non nello stesso grado e forma. Per esso è indispensabile l'apporto dei laici, che "con l'esempio della loro vita e con la propria azione possono favorire il miglioramento dei rapporti tra seguaci delle diverse religioni", mentre alcuni di loro potranno pure dare un contributo di ricerca e di studio. Sapendo che non pochi missionari e comunità cristiane trovano nella via difficile e spesso incompresa del dialogo l'unica maniera di rendere sincera testimonianza a Cristo e generoso servizio all'uomo, desidero incoraggiarli a perseverare con fede e carità, anche là dove i loro sforzi non trovano accoglienza e risposta. Il dialogo è una via verso il Regno e darà sicuramente i suoi frutti, anche se tempi e momenti sono riservati al Padre (cf. At 1,7). Promuovere lo sviluppo educando le coscienze

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58. La missione ad gentes si svolge ancor oggi, per gran parte, in quelle regioni del sud del mondo, dove è più urgente l'azione per lo sviluppo integrale e la liberazione da ogni oppressione. La chiesa ha sempre saputo suscitare, nelle popolazioni che ha evangelizzato, la spinta verso il progresso, e oggi i missionari più che in passato sono riconosciuti anche come promotori di sviluppo da governi ed esperti internazionali, i quali restano ammirati del fatto che si ottengano notevoli risultati con scarsi mezzi. Nell'enciclica Sollicitudo rei socialis ho affermato che "la chiesa non ha soluzioni tecniche da offrire al sottosviluppo in quanto tale", ma "dà il primo contributo alla soluzione dell'urgente problema dello sviluppo, quando proclama la verità su Cristo, su se stessa e sull'uomo, applicandola a una situazione concreta". La Conferenza dei vescovi latino-americani a Puebla ha affermato che "il miglior servizio al fratello è l'evangelizzazione, che lo dispone a realizzarsi come figlio di Dio, lo libera dalle ingiustizie e lo promuove integralmente". La missione della chiesa non è di operare direttamente sul piano economico o tecnico o politico o di dare un contributo materiale allo sviluppo, ma consiste essenzialmente nell'offrire ai popoli non un "avere di più", ma un "essere di più", risvegliando le coscienze col vangelo. "L'autentico sviluppo umano deve affondare le sue radici in un'evangelizzazione sempre più profonda".

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La chiesa e i missionari sono promotori di sviluppo anche con le loro scuole, ospedali, tipografie, università, fattorie agricole sperimentali. Ma lo sviluppo di un popolo non deriva primariamente né dal denaro, né dagli aiuti materiali, né dalle strutture tecniche, bensì dalla formazione delle coscienze, dalla maturazione delle mentalità e dei costumi. E' l'uomo il protagonista dello sviluppo, non il denaro o la tecnica. La chiesa educa le coscienze rivelando ai popoli quel Dio che cercano, ma non conoscono, la grandezza dell'uomo creato a immagine di Dio e da lui amato, l'eguaglianza di tutti gli uomini come figli di Dio, il dominio sulla natura creata e posta a servizio dell'uomo, il dovere di impegnarsi per lo sviluppo di tutto l'uomo e di tutti gli uomini.

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59. Col messaggio evangelico la chiesa offre una forza liberante e fautrice di sviluppo proprio perché porta alla conversione del cuore e della mentalità, fa riconoscere la dignità di ciascuna persona, dispone alla solidarietà, all'impegno, al servizio dei fratelli, inserisce l'uomo nel progetto di Dio, che è la costruzione del regno di pace, di giustizia a partire già da questa vita. E' la prospettiva biblica dei "cieli nuovi e terra nuova" (cf. Is 65,17; 2Pt 3,13; Ap 21,1), la quale ha inserito nella storia lo stimolo e la mèta per l'avanzamento dell'umanità. Lo sviluppo dell'uomo viene da Dio, dal modello di Gesù uomo-Dio, e deve portare a Dio. Ecco perché tra annunzio evangelico e promozione dell'uomo c'è una stretta connessione.

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Il contributo della chiesa e della sua opera evangelizzatrice per lo sviluppo dei popoli riguarda non soltanto il sud del mondo, per combattervi la miseria materiale e il sottosviluppo, ma anche il nord, che è esposto alla miseria morale e spirituale causata dal "supersviluppo". Certa modernità a-religiosa, dominante in alcune parti del mondo, si basa sull'idea che, per rendere l'uomo più uomo, basti arricchire e perseguire la crescita tecnico-economica. Ma uno sviluppo senza anima non può bastare all'uomo, e l'eccesso di opulenza gli è nocivo come l'eccesso di povertà. Il nord del mondo ha costruito un tale "modello di sviluppo" e lo diffonde nel sud, dove il senso di religiosità e i valori umani che vi sono presenti rischiano di esser travolti dall'ondata del consumismo.

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"Contro la fame cambia la vita" è il motto nato in ambienti ecclesiali, che indica ai popoli ricchi la via per diventare fratelli dei poveri: bisogna ritornare a una vita più austera che favorisca un nuovo modello di sviluppo, attento ai valori etici e religiosi. L'attività missionaria apporta ai poveri la luce e lo stimolo per il vero sviluppo, mentre la nuova evangelizzazione deve, tra l'altro, creare nei ricchi la coscienza che è venuto il momento di farsi realmente fratelli dei poveri nella comune conversione allo sviluppo integrale, aperto all'Assoluto.

La carità fonte e criterio della missione

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60. "La chiesa nel mondo intero - dissi durante la mia visita in Brasile - vuol essere la chiesa dei poveri. Essa vuol estrarre tutta la verità contenuta nelle Beatitudini e soprattutto nella prima: "Beati i poveri in spirito" ... Essa vuole insegnare questa verità e vuol metterla in pratica come Gesù, che venne a fare e ad insegnare". Le giovani chiese, che per lo più vivono fra popoli afflitti da una povertà assai diffusa, esprimono spesso questa preoccupazione come parte integrante della loro missione. La Conferenza generale dell'episcopato latino-americano a Puebla, dopo aver ricordato l'esempio di Gesù, scrive che "i poveri meritano un'attenzione preferenziale, qualunque sia la condizione morale o personale in cui si trovano. Fatti a immagine e somiglianza di Dio per essere suoi figli, questa immagine è offuscata e persino oltraggiata. Perciò, Dio prende le loro difese e li ama. Ne consegue che i primi destinatari della missione sono i poveri, e la loro evangelizzazione è per eccellenza segno e prova della missione di Gesù".

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Fedele allo spirito delle beatitudini, la chiesa è chiamata alla condivisione con i poveri e gli oppressi di ogni genere. Esorto, perciò, tutti i discepoli di Cristo e le comunità cristiane, dalle famiglie alle diocesi, dalle parrocchie agli istituti religiosi, a fare una sincera revisione della propria vita nel senso della solidarietà con i poveri. Nello stesso tempo, ringrazio i missionari che con la loro presenza amorosa e il loro umile servizio operano per lo sviluppo integrale della persona e della società mediante scuole, centri sanitari, lebbrosari, case di assistenza per handicappati e anziani, iniziative per la promozione della donna e simili. Ringrazio i sacerdoti, i religiosi, le religiose e i laici per la loro dedizione, mentre incoraggio i volontari di organizzazioni non governative, oggi sempre più numerosi, che si dedicano a queste opere di carità e di promozione umana. Sono, infatti, queste opere che testimoniano l'anima di tutta l'attività missionaria: l'amore, che è e resta il movente della missione, ed è anche "l'unico criterio secondo cui tutto deve essere fatto o non fatto, cambiato o non cambiato. E' il principio che deve dirigere ogni azione e il fine a cui essa deve tendere. Quando si agisce con riguardo alla carità o ispirati dalla carità, nulla è disdicevole e tutto è buono".

Capitolo VI: I RESPONSABILI E GLI OPERATORI DELLA PASTORALE MISSIONARIA

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61. Non c'è testimonianza senza testimoni, come non c'è missione senza missionari. Perché collaborino alla sua missione e continuino la sua opera salvifica, Gesù sceglie e invia delle persone come suoi testimoni e apostoli: "Sarete miei testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra" (At 1,8). I Dodici sono i primi operatori della missione universale: essi costituiscono un "soggetto collegiale" della missione, essendo stati scelti da Gesù per restare con lui ed essere inviati "alle pecore perdute della casa d'Israele" (Mt 10,6). Questa collegialità non impedisce che nel gruppo si distinguano singole figure, come Giacomo, Giovanni e, più di tutti, Pietro, la cui persona ha tanto rilievo da giustificare l'espressione: "Pietro e gli altri apostoli" (At 2,14.37). Grazie a lui si aprono gli orizzonti della missione universale, in cui successivamente eccellerà Paolo, che per volontà divina fu chiamato e inviato tra le genti (cf. Gal 1,15-16). Nell'espansione missionaria delle origini, accanto agli apostoli troviamo altri umili operatori che non si debbono dimenticare: sono persone, gruppi, comunità. Un tipico esempio di chiesa locale è la comunità di Antiochia, che da evangelizzata si fa evangelizzatrice e invia i suoi missionari alle genti (cf. At 13,2-3). La chiesa primitiva vive la missione come compito comunitario, pur riconoscendo nel suo seno degli "inviati speciali", o "missionari consacrati alle genti", come Paolo e Barnaba.

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62. Quanto fu fatto all'inizio del cristianesimo per la missione universale conserva la sua validità e urgenza anche oggi. La chiesa è missionaria per sua natura, poiché il mandato di Cristo non è qualcosa di contingente e esteriore, ma raggiunge il cuore stesso della chiesa. Ne deriva che tutta la chiesa e ciascuna chiesa è inviata alle genti. Le stesse chiese più giovani, proprio "perché quello zelo missionario fiorisca nei membri della loro patria", debbono "partecipare quanto prima e di fatto alla missione universale della chiesa, inviando anch'esse dei missionari a predicare dappertutto nel mondo il vangelo, anche se soffrono di scarsezza di clero". Molte già fanno così, e io le incoraggio vivamente a continuare. In questo vincolo essenziale di comunione tra la chiesa universale e le chiese particolari si esercita l'autentica e piena missionarietà: "In un mondo che col crollare delle distanze si fa sempre più piccolo, le comunità ecclesiali devono collegarsi fra di loro, scambiarsi energie e mezzi, impegnarsi insieme nell'unica e comune missione di annunziare e vivere il vangelo... Le chiese cosiddette giovani... hanno bisogno della forza di quelle antiche, mentre queste hanno bisogno della testimonianza e della spinta delle più giovani, in modo che le singole chiese attingano dalla ricchezza delle altre chiese".

I primi responsabili dell'attività missionaria


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63. Come il Signore risorto conferì al collegio apostolico con a capo Pietro il mandato della missione universale, così questa responsabilità incombe innanzitutto sul collegio dei vescovi con a capo il successore di Pietro. Consapevole di questa responsabilità, negli incontri con i vescovi sento il dovere di condividerla in ordine sia alla nuova evangelizzazione che alla missione universale. Mi sono messo in cammino sulle vie del mondo, "per annunciare il vangelo, per "confermare i fratelli" nella fede, per consolare la chiesa, per incontrare l'uomo. Sono viaggi di fede... Sono altrettante occasioni di catechesi itinerante, di annuncio evangelico nel prolungamento, a tutte le latitudini, del vangelo e del magistero apostolico, dilatato alle odierne sfere planetarie".

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I fratelli vescovi sono con me direttamente responsabili dell'evangelizzazione del mondo, sia come membri del collegio episcopale, sia come pastori delle chiese particolari. In proposito il concilio dichiara: "La cura di annunziare in ogni parte della terra il vangelo appartiene al corpo dei pastori, ai quali in comune Cristo diede il mandato". Esso afferma anche che i vescovi "sono stati consacrati non soltanto per una diocesi, ma per la salvezza di tutto il mondo". Questa responsabilità collegiale ha conseguenze pratiche. Parimenti, "il Sinodo dei Vescovi... tra gli affari di importanza generale deve seguire con particolare sollecitudine l'attività missionaria, che è il dovere più alto e più sacro della chiesa". La stessa responsabilità si riflette, in varia misura, nelle conferenze episcopali e nei loro organismi a livello continentale, che perciò debbono offrire un proprio contributo all'impegno missionario. Ampio è pure il dovere missionario di ciascun vescovo, come pastore di una chiesa particolare. Spetta a lui "come capo e centro unitario dell'apostolato diocesano, promuovere, dirigere e coordinare l'attività missionaria... Provveda anche a che l'attività apostolica non resti limitata ai soli convertiti, ma che una giusta parte di missionari e di sussidi sia destinata all'evangelizzazione dei non cristiani".

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64. Ogni chiesa particolare deve aprirsi generosamente alle necessità delle altre. La collaborazione fra le chiese, in una reale reciprocità che le rende pronte a dare e a ricevere, è anche fonte di arricchimento per tutte e interessa i vari settori della vita ecclesiale. A questo riguardo, resta esemplare la dichiarazione dei vescovi a Puebla: "Finalmente è giunta l'ora per l'America Latina... di proiettarsi oltre le sue frontiere, ad gentes. E' certo che noi stessi abbiamo ancora bisogno di missionari, ma dobbiamo dare della nostra povertà". Con questo spirito invito i vescovi e le conferenze episcopali ad attuare generosamente quanto è previsto nella Nota direttiva, che la Congregazione per il clero ha emanato per la collaborazione tra le chiese particolari e, specialmente, per la migliore distribuzione del clero nel mondo. La missione della chiesa è più vasta della "comunione fra le chiese": questa deve essere orientata, oltre che all'aiuto per la rievangelizzazione, anche e soprattutto nel senso della missionarietà specifica. Mi appello a tutte le chiese, giovani e antiche, perché condividano con me questa preoccupazione, curando l'incremento delle vocazioni missionarie e superando le varie difficoltà.

Missionari e istituti "Ad gentes"

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65. Fra gli operatori della pastorale missionaria occupano tuttora, come in passato, un posto di fondamentale importanza quelle persone e istituzioni, a cui il decreto Ad gentes dedica lo speciale capitolo dal titolo: "I missionari". Al riguardo, s'impone un'approfondita riflessione, anzitutto per i missionari stessi, che dai cambiamenti della missione possono essere indotti a non capir più il senso della loro vocazione, a non saper più che cosa precisamente la chiesa si attenda oggi da loro. Punto di riferimento sono queste parole del concilio: "Benché l'impegno di diffondere la fede ricada su qualsiasi discepolo di Cristo in proporzione delle sue possibilità, Cristo Signore chiama sempre dalla moltitudine dei suoi discepoli quelli che egli vuole, per averli con sé e per inviarli a predicare alle genti. Perciò, egli, per mezzo dello Spirito Santo, che distribuisce come vuole i suoi carismi per il bene delle anime, accende nel cuore dei singoli la vocazione missionaria e insieme suscita in seno alla chiesa quelle istituzioni che si assumono come dovere specifico il compito dell'evangelizzazione, che riguarda tutta la chiesa".

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Si tratta, dunque, di una "vocazione speciale", modellata su quella degli apostoli. Essa si manifesta nella totalità dell'impegno per il servizio dell'evangelizzazione: è impegno che coinvolge tutta la persona e la vita del missionario, esigendo da lui una donazione senza limiti di forze e di tempo. Coloro che sono dotati di tale vocazione, "inviati dalla legittima autorità, si portino per spirito di fede e di obbedienza verso coloro che sono lontani da Cristo, riservandosi esclusivamente per quell'opera per la quale, come ministri del vangelo, sono stati assunti". I missionari devono sempre meditare sulla corrispondenza che il dono da loro ricevuto richiede e aggiornare la loro formazione dottrinale e apostolica.

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66. Gli istituti missionari, poi, devono impiegare tutte le risorse necessarie, mettendo a frutto la loro esperienza e creatività nella fedeltà al carisma originario, per preparare adeguatamente i candidati e assicurare il ricambio delle energie spirituali, morali e fisiche dei loro membri. Si sentano essi parte viva della comunità ecclesiale e operino in comunione con essa. Difatti, "Ogni istituto è nato per la chiesa ed è tenuto ad arricchirla con le proprie caratteristiche secondo un particolare spirito e una missione speciale", e di una tale fedeltà al carisma originario gli stessi vescovi sono custodi.

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Gli istituti missionari sono nati in genere dalle chiese di antica cristianità e storicamente sono stati strumenti della Congregazione di Propaganda fide per la diffusione della fede e la fondazione di nuove chiese. Essi accolgono oggi in misura crescente candidati provenienti dalle giovani chiese che hanno fondato, mentre nuovi istituti sono sorti proprio nei paesi che prima ricevevano solo missionari e che oggi li mandano. E' da lodare questa duplice tendenza, che dimostra la validità e l'attualità della specifica vocazione missionaria di questi istituti, tuttora "assolutamente necessari", non solo per l'attività missionaria ad gentes , com'è nella loro tradizione, ma anche per l'animazione missionaria sia nelle chiese di antica cristianità, sia in quelle più giovani.

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La vocazione speciale dei missionari ad vitam conserva tutta la sua validità: essa rappresenta il paradigma dell'impegno missionario della chiesa, che ha sempre bisogno di donazioni radicali e totali, di impulsi nuovi e arditi. I missionari e le missionarie, che hanno consacrato tutta la vita per testimoniare fra le genti il Risorto, non si lascino, dunque, intimorire da dubbi, incomprensioni, rifiuti, persecuzioni. Risveglino la grazia del loro carisma specifico e riprendano con coraggio il loro cammino, preferendo - in spirito di fede, obbedienza e comunione con i propri pastori - i posti più umili e ardui.

Sacerdoti diocesani per la missione universale


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67. Collaboratori del vescovo, i presbiteri in forza del sacramento dell'ordine sono chiamati a condividere la sollecitudine per la missione: "Il dono spirituale che i presbiteri hanno ricevuto nell'ordinazione non li prepara ad una missione limitata e ristretta, bensì ad una vastissima e universale missione di salvezza, "fino agli estremi confini della terra", dato che qualunque ministero sacerdotale partecipa della stessa ampiezza universale della missione affidata da Cristo agli apostoli". Per questo motivo, la stessa formazione dei candidati al sacerdozio deve mirare a dar loro "quello spirito veramente cattolico che li abitui a guardare oltre i confini della propria diocesi, nazione o rito, per andare incontro alle necessità della missione universale, pronti a predicare dappertutto il vangelo". Tutti i sacerdoti debbono avere cuore e mentalità missionari, essere aperti ai bisogni della chiesa e del mondo, attenti ai più lontani e, soprattutto, ai gruppi non cristiani del proprio ambiente. Nella preghiera e, in particolare, nel sacrificio eucaristico sentano la sollecitudine di tutta la chiesa per tutta l'umanità.

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Specialmente i sacerdoti che si trovano in aree a minoranza cristiana debbono esser mossi da singolare zelo e impegno missionario: il Signore affida loro non solo la cura pastorale della comunità cristiana, ma anche e soprattutto l'evangelizzazione dei loro compatrioti che non fanno parte del suo gregge. Essi "non mancheranno di rendersi concretamente disponibili allo Spirito Santo e al vescovo, per essere mandati a predicare il vangelo oltre i confini del loro paese. Ciò richiederà in essi non solo maturità nella vocazione, ma pure una capacità non comune di distacco dalla propria patria, etnìa e famiglia, e una particolare idoneità ad inserirsi nelle altre culture con intelligenza e rispetto".

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68. Nell'enciclica Fidei donum Pio XII con intuito profetico incoraggiò i vescovi a offrire alcuni dei loro sacerdoti per un servizio temporaneo alle chiese d'Africa, approvando le iniziative già esistenti in proposito. A venticinque anni di distanza volli sottolineare la grande novità di quel documento, "che ha fatto superare la dimensione territoriale del servizio presbiterale, per destinarlo a tutta la chiesa". Oggi risultano confermate la validità e la fruttuosità di questa esperienza: infatti, i presbiteri detti Fidei donum evidenziano in modo singolare il vincolo di comunione tra le chiese, danno un prezioso apporto alla crescita di comunità ecclesiali bisognose, mentre attingono da esse freschezza e vitalità di fede. Occorre certo che il servizio missionario del sacerdote diocesano risponda ad alcuni criteri e condizioni. Si devono inviare sacerdoti scelti fra i migliori, idonei e debitamente preparati al peculiare lavoro che li attende. Essi dovranno inserirsi nel nuovo ambiente della chiesa che li accoglie con animo aperto e fraterno e costituiranno un unico presbiterio con i sacerdoti locali, sotto l'autorità del vescovo. Auspico che lo spirito di servizio aumenti in seno al presbiterio delle chiese antiche e sia promosso in quello delle chiese più recenti.

La fecondità missionaria della consacrazione


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69. Nell'inesauribile e multiforme ricchezza dello Spirito si collocano le vocazioni degli istituti di vita consacrata, i cui membri, "dal momento che si dedicano al servizio della chiesa in forza della loro stessa consacrazione, sono tenuti all'obbligo di prestare l'opera loro in modo speciale nell'azione missionaria, con lo stile proprio dell'istituto". La storia attesta le grandi benemerenze delle famiglie religiose nella propagazione della fede e nella formazione di nuove chiese: dalle antiche istituzioni monastiche agli ordini medioevali, fino alle moderne congregazioni.

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a ) Seguendo il concilio, invito gli istituti di vita contemplativa a stabilire comunità presso le giovani chiese, per rendere "tra i non cristiani una magnifica testimonianza della maestà e della carità di Dio, come anche dell'unione che si stabilisce nel Cristo". Questa presenza è dappertutto benefica nel mondo non cristiano, specialmente in quelle regioni dove le religioni hanno in grande stima la vita contemplativa per l'ascesi e la ricerca dell'Assoluto.

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b ) Agli istituti di vita attiva addito gli immensi spazi della carità, dell'annunzio evangelico, dell'educazione cristiana, della cultura e della solidarietà verso i poveri, i discriminati, gli emarginati e oppressi. Tali istituti, tendano o meno a un fine strettamente missionario, si devono interrogare circa la loro possibilità e disponibilità a estendere la propria azione per espandere il regno di Dio. Questa richiesta è stata accolta nei tempi più recenti da non pochi istituti, ma vorrei che fosse meglio considerata e attuata per un autentico servizio. La chiesa deve far conoscere i grandi valori evangelici di cui è portatrice, e nessuno li testimonia più efficacemente di chi fa professione di vita consacrata nella castità, povertà e obbedienza, in totale donazione a Dio e in piena disponibilità a servire l'uomo e la società sull'esempio di Cristo.

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70. Una speciale parola di apprezzamento rivolgo alle religiose missionarie, nelle quali la verginità per il Regno si traduce in molteplici frutti di maternità secondo lo Spirito: proprio la missione ad gentes offre loro un campo vastissimo per "donarsi con amore in modo totale e indiviso". L'esempio e l'operosità della donna vergine, consacrata alla carità verso Dio e verso il prossimo, specie il più povero, sono indispensabili come segno evangelico presso quei popoli e culture in cui la donna deve ancora compiere un lungo cammino in ordine alla sua promozione umana e liberazione. Auguro che molte giovani donne cristiane sentano l'attrattiva di donarsi a Cristo con generosità, attingendo dalla loro consacrazione la forza e la gioia per testimoniarlo tra i popoli che lo ignorano.

Tutti i laici sono missionari in forza del battesimo

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71. I pontefici dell'età più recente hanno molto insistito sull'importanza del ruolo dei laici nell'attività missionaria. Nell'esortazione apostolica Christifideles laici anch'io ho trattato esplicitamente della "missione permanente di portare il vangelo a quanti - e sono milioni e milioni di uomini e di donne - ancora non conoscono Cristo redentore dell'uomo" e del corrispondente impegno dei fedeli laici. La missione è di tutto il popolo di Dio: anche se la fondazione di una nuova chiesa richiede l'eucaristia e, quindi, il ministero sacerdotale, tuttavia la missione, che si esplica in svariate forme, è compito di tutti i fedeli.

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La partecipazione dei laici all'espansione della fede risulta chiara, fin dai primi tempi del cristianesimo, a opera sia di singoli fedeli e famiglie, sia dell'intera comunità. Ciò ricordava già Pio XII, richiamando nella prima enciclica missionaria le vicende delle missioni laicali. Nei tempi moderni non è mancata la partecipazione attiva dei missionari laici e delle missionarie laiche. Come non ricordare l'importante ruolo svolto da queste, il loro lavoro nelle famiglie, nelle scuole, nella vita politica, sociale e culturale e, in particolare, il loro insegnamento della dottrina cristiana? Bisogna anzi riconoscere - ed è un titolo di onore - che alcune chiese hanno avuto inizio grazie all'attività dei laici e delle laiche missionarie.

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Il concilio Vaticano II ha confermato questa tradizione, illustrando il carattere missionario di tutto il popolo di Dio, in particolare l'apostolato dei laici, e sottolineando il contributo specifico che essi son chiamati a dare nell'attività missionaria. La necessità che tutti i fedeli condividano tale responsabilità non è solo questione di efficacia apostolica, ma è un dovere-diritto fondato sulla dignità battesimale, per cui "i fedeli partecipano, per la loro parte, al triplice ufficio - sacerdotale, profetico e regale - di Gesù Cristo". Essi, perciò, "sono tenuti all'obbligo generale e hanno diritto di impegnarsi, sia come singoli, sia riuniti in associazioni, perché l'annunzio della salvezza sia conosciuto ed accolto da ogni uomo in ogni luogo; tale obbligo li vincola ancora di più in quelle situazioni in cui gli uomini non possono ascoltare il vangelo e conoscere Cristo se non per mezzo loro". Inoltre, per l'indole secolare, che è loro propria, hanno la particolare vocazione a "cercare il Regno di Dio trattando le cose temporali e orientandole secondo Dio".

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72. I settori di presenza e di azione missionaria dei laici sono molto ampi. "Il primo campo... è il mondo vasto e complicato della politica, della realtà sociale, dell'economia..." sul piano locale, nazionale e internazionale. All'interno della chiesa si presentano vari tipi di servizi, funzioni, ministeri e forme di animazione della vita cristiana. Ricordo, quale novità emersa in non poche chiese nei tempi recenti, il grande sviluppo dei "movimenti ecclesiali", dotati di dinamismo missionario. Quando si inseriscono con umiltà nella vita delle chiese locali e sono accolti cordialmente da vescovi e sacerdoti nelle strutture diocesane e parrocchiali, i movimenti rappresentano un vero dono di Dio per la nuova evangelizzazione e per l'attività missionaria propriamente detta. Raccomando, quindi, di diffonderli e di avvalersene per ridare vigore, soprattutto tra i giovani, alla vita cristiana e all'evangelizzazione, in una visione pluralistica dei modi di associarsi e di esprimersi.

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Nell'attività missionaria sono da valorizzare le varie espressioni del laicato, rispettando la loro indole e finalità: associazioni del laicato missionario, organismi cristiani di volontariato internazionale, movimenti ecclesiali, gruppi e sodalizi di vario genere siano impegnati nella missione ad gentes e nella collaborazione con le chiese locali. In questo modo sarà favorita la crescita di un laicato maturo e responsabile, la cui "formazione... si pone nelle giovani chiese come elemento essenziale e irrinunciabile della plantatio ecclesiae ".

L'opera dei catechisti e la varietà dei ministeri

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73. Tra i laici che diventano evangelizzatori si trovano in prima fila i catechisti. Il decreto missionario li definisce "quella schiera degna di lode, tanto benemerita dell'opera missionaria tra le genti... Essi, animati da spirito apostolico e facendo grandi sacrifici, danno un contributo singolare e insostituibile alla propagazione della fede e della chiesa". Non è senza ragione che le chiese di antica data, impegnandosi nella nuova evangelizzazione, abbiano moltiplicato i catechisti e intensificato la catechesi. "Sono i catechisti in terra di missione coloro che meritano, in modo tutto speciale, questo titolo di "catechisti"... Chiese ora fiorenti non sarebbero state edificate senza di loro".

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Anche col moltiplicarsi dei servizi ecclesiali ed extraecclesiali il ministero dei catechisti rimane sempre necessario e ha peculiari caratteristiche: i catechisti sono operatori specializzati, testimoni diretti, evangelizzatori insostituibili, che rappresentano la forza basilare delle comunità cristiane, specie nelle giovani chiese, come ho più volte affermato e constatato nei miei viaggi missionari. Il nuovo Codice di diritto canonico ne riconosce i compiti, le qualità, i requisiti.

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Ma non si può dimenticare che il lavoro dei catechisti si va facendo sempre più difficile e impegnativo per i cambiamenti ecclesiali e culturali in corso. Vale ancora oggi quanto già suggeriva il concilio: una più accurata preparazione dottrinale e pedagogica, il costante rinnovamento spirituale e apostolico, la necessità di "garantire un decoroso tenore di vita e di sicurezza sociale" ai catechisti. E' importante, altresì, favorire la creazione e il potenziamento delle scuole per catechisti, che, approvate dalle conferenze episcopali, rilascino titoli ufficialmente riconosciuti da queste ultime. 693
74. Accanto ai catechisti bisogna ricordare le altre forme di servizio alla vita della chiesa e alla missione, e gli altri operatori: animatori della preghiera, del canto e della liturgia; capi di comunità ecclesiali di base e di gruppi biblici; incaricati delle opere caritative; amministratori dei beni della chiesa; dirigenti dei vari sodalizi apostolici, insegnanti di religione nelle scuole. Tutti i fedeli laici debbono dedicare alla chiesa parte del loro tempo, vivendo con coerenza la propria fede.

La Congregazione per l'evangelizzazione dei popoli e le altre strutture per l'attività missionaria

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75. I responsabili e gli operatori della pastorale missionaria devono sentirsi uniti nella comunione che caratterizza il corpo mistico. Per questo Cristo ha pregato nell'ultima cena: "Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato" (Gv 17,21). E' in questa comunione il fondamento della fecondità della missione. Ma la chiesa è anche una comunione visibile e organica, e perciò la missione richiede pure una unione esterna e ordinata tra le diverse responsabilità e funzioni, in modo che tutte le membra "indirizzino in piena unanimità le loro forze all'edificazione della chiesa".

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Spetta al dicastero missionario "dirigere e coordinare in tutto il mondo l'opera stessa dell'evangelizzazione dei popoli e la cooperazione missionaria, salva la competenza della Congregazione per le chiese orientali". Per questo "è suo compito suscitare e distribuire, secondo i bisogni più urgenti delle regioni, i missionari... elaborare un piano organico di azione, emanare norme direttive e principi adeguati in ordine all'evangelizzazione, dare l'impulso iniziale". Non posso che confermare queste sagge disposizioni: per rilanciare la missione ad gentes occorre un centro di propulsione, di direzione e di coordinamento che è la Congregazione per l'evangelizzazione. Invito le conferenze episcopali e i loro organismi, i superiori maggiori degli ordini, congregazioni e istituti, gli organismi laicali impegnati nell'attività missionaria a collaborare fedelmente con detta Congregazione, che ha l'autorità necessaria per programmare e dirigere l'attività e la cooperazione missionaria a livello universale.

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La medesima congregazione, avendo alle spalle una lunga e gloriosa esperienza, è chiamata a svolgere un ruolo di primaria importanza sul piano della riflessione e dei programmi operativi, di cui la chiesa ha bisogno per orientarsi più decisamente verso la missione nelle sue varie forme. A questo fine, la congregazione deve mantenere strette relazioni con gli altri dicasteri della Santa Sede, con le chiese particolari e con le forze missionarie. In un'ecclesiologia di comunione, in cui la chiesa è tutta missionaria, ma al tempo stesso si confermano sempre indispensabili vocazioni e istituzioni specifiche per il lavoro ad gentes , rimane molto importante il ruolo di guida e di coordinamento del dicastero missionario per affrontare insieme le grandi questioni di comune interesse, salve le competenze proprie di ciascuna autorità e struttura.

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76. Per l'indirizzo e il coordinamento dell'attività missionaria a livello nazionale e regionale rivestono grande importanza le conferenze episcopali e i loro diversi raggruppamenti. A loro il concilio chiede di "trattare in pieno accordo le questioni più gravi e i problemi più urgenti, senza trascurare però le differenze tra luogo e luogo", nonché il problema della inculturazione. Di fatto c'è già un'ampia e regolare azione in questo campo e i frutti sono visibili. E' un'azione che deve essere intensificata e meglio raccordata con quella di altri organismi delle stesse conferenze, affinché la sollecitudine missionaria non sia demandata alla cura di un dato settore od organismo, ma sia condivisa da tutti.

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Gli stessi organismi e istituzioni, che attendono all'attività missionaria, colleghino opportunamente sforzi e iniziative. Le conferenze dei superiori maggiori, poi, abbiano questo stesso impegno nel loro ambito, in contatto con le conferenze episcopali, secondo le indicazioni e norme stabilite, ricorrendo anche a commissioni miste. Sono, infine, auspicabili incontri e forme di collaborazione tra le varie istituzioni missionarie per quanto riguarda sia la formazione e lo studio, sia l'azione apostolica da svolgere.

Capitolo VII: LA COOPERAZIONE ALL'ATTIVITA' MISSIONARIA

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77. Membri della chiesa, in forza del battesimo tutti i cristiani sono corresponsabili dell'attività missionaria. La partecipazione delle comunità e dei singoli fedeli a questo diritto-dovere è chiamata "cooperazione missionaria". Tale cooperazione si radica e si vive innanzitutto nell'essere personalmente uniti a Cristo: solo se si è uniti a lui come il tralcio alla vite (cf. Gv 15,5), si possono produrre buoni frutti. La santità di vita permette ad ogni cristiano di essere fecondo nella missione della chiesa: "Il sacro Concilio invita tutti ad un profondo rinnovamento interiore, affinché, avendo una viva coscienza della propria responsabilità in ordine alla diffusione del vangelo, prendano la loro parte nell'attività missionaria presso le genti".

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La partecipazione alla missione universale, quindi, non si riduce ad alcune particolari attività, ma è il segno della maturità di fede e di una vita cristiana che porta frutti. Così il credente allarga i confini della sua carità, manifestando la sollecitudine per coloro che sono lontani, come per quelli che sono vicini: prega per le missioni e per le vocazioni missionarie, aiuta i missionari, ne segue l'attività con interesse e, quando ritornano, li accoglie con quella gioia con cui le prime comunità cristiane ascoltavano dagli apostoli le meraviglie che Dio aveva operato mediante la loro predicazione (cf. At 14,27).

Preghiera e sacrifici per i missionari


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78. Tra le forme di partecipazione il primo posto spetta alla cooperazione spirituale: preghiera, sacrificio, testimonianza di vita cristiana. La preghiera deve accompagnare il cammino dei missionari, perché l'annunzio della Parola sia reso efficace dalla grazia divina. San Paolo nelle sue lettere chiede spesso ai fedeli di pregare per lui, perché gli sia concesso di annunziare il vangelo con fiducia e franchezza. Alla preghiera è necessario unire il sacrificio: il valore salvifico di ogni sofferenza, accettata e offerta a Dio con amore, scaturisce dal sacrificio di Cristo, che chiama le membra del suo mistico corpo ad associarsi ai suoi patimenti, a completarli nella propria carne (cf. Col 1,24). Il sacrificio del missionario deve essere condiviso e sostenuto da quello dei fedeli. Perciò, a coloro che svolgono il loro ministero pastorale fra i malati raccomando di istruirli circa il valore della sofferenza, incoraggiandoli a offrirla a Dio per i missionari. Con tale offerta i malati diventano anch'essi missionari, come sottolineano alcuni movimenti sorti tra loro e per loro. Anche la solennità di pentecoste - inizio della missione della chiesa - è celebrata in alcune comunità come "giornata della sofferenza per le missioni".

"Eccomi, Signore! Manda me!" (cf. Is 6,8)

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79. La cooperazione si esprime, altresì, nel promuovere le vocazioni missionarie. A questo riguardo, va riconosciuta la validità delle diverse forme d'impegno missionario, ma bisogna al tempo stesso riaffermare la priorità della donazione totale e perpetua all'opera delle missioni, specialmente negli istituti e congregazioni missionari, maschili e femminili. La promozione di tali vocazioni è il cuore della cooperazione: l'annunzio del vangelo richiede annunziatori, la messe ha bisogno di operai, la missione si fa soprattutto con uomini e donne consacrati a vita all'opera del vangelo, disposti ad andare in tutto il mondo per portare la salvezza.

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Desidero, pertanto, richiamare e raccomandare questa sollecitudine per le vocazioni missionarie. Coscienti della responsabilità universale dei cristiani nel contribuire all'opera missionaria e allo sviluppo dei popoli poveri, dobbiamo tutti domandarci perché in varie nazioni, mentre crescono le offerte, minacciano di scomparire le vocazioni missionarie, che danno la vera misura della donazione ai fratelli. Le vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata sono un segno sicuro della vitalità di una chiesa.

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80. Pensando a questo grave problema, rivolgo il mio appello con particolare fiducia e affetto alle famiglie ed ai giovani. Le famiglie e, soprattutto, i genitori siano consapevoli di dover portare "un particolare contributo alla causa missionaria della chiesa, coltivando le vocazioni missionarie fra i loro figli e figlie". Una vita di intensa preghiera, un senso reale del servizio del prossimo e una generosa partecipazione alle attività ecclesiali offrono alle famiglie le condizioni favorevoli per la vocazione dei giovani. Quando i genitori son pronti a consentire che uno dei figli parta per la missione, quando essi hanno chiesto al Signore tale grazia, egli li ricompenserà, nella gioia, il giorno in cui un loro figlio o figlia ascolterà la sua chiamata.

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Ai giovani stessi io chiedo di ascoltare la parola di Cristo che dice loro, come già a Simon Pietro e ad Andrea sulla riva del lago: "Venite dietro a me, e vi farò diventare pescatori di uomini" (cf. Mt 4,19). Abbiano essi il coraggio di rispondere, come Isaia: "Eccomi, Signore, sono pronto, manda me" (cf. Is 4,8). Essi avranno dinanzi a sé una vita affascinante e conosceranno la vera soddisfazione di annunciare la "buona novella" ai fratelli e sorelle che condurranno sulla via della salvezza.

"C'è più gioia nel dare che nel ricevere" (At 20,35)

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81. Sono molte le necessità materiali ed economiche delle missioni: non solo per fondare la chiesa con strutture minime (cappelle, scuole per catechisti e seminaristi, case di abitazione), ma anche per sostenere le opere di carità, di educazione e di promozione umana, campo vastissimo di azione specialmente nei paesi poveri. La chiesa missionaria dà quello che riceve, distribuisce ai poveri quello che i suoi figli più dotati di beni materiali le mettono generosamente a disposizione. Desidero a questo punto ringraziare tutti coloro che donano con sacrificio per l'opera missionaria: le loro rinunzie e la loro partecipazione sono indispensabili per costruire la chiesa e testimoniare la carità.

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Circa gli aiuti materiali è importante riguardare allo spirito col quale si dona. Per questo occorre rivedere il proprio stile di vita: le missioni non chiedono solo un aiuto, ma una condivisione con l'annunzio e la carità verso i poveri. Tutto quello che abbiamo ricevuto da Dio - la vita come i beni materiali - non è nostro, ma ci è dato in uso. La generosità nel dare va sempre illuminata e ispirata dalla fede: allora, davvero c'è più gioia nel dare che nel ricevere. La Giornata missionaria mondiale , diretta alla sensibilizzazione sul problema missionario, ma anche alla raccolta di aiuti, è un appuntamento importante nella vita della chiesa, perché insegna come donare: nella celebrazione eucaristica, cioè come offerta a Dio e per tutte le missioni del mondo.

Nuove forme di cooperazione missionaria

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82. La cooperazione si allarga oggi a forme nuove, includendo non solo l'aiuto economico, ma anche la partecipazione diretta. Situazioni nuove, connesse al fenomeno della mobilità, richiedono ai cristiani un autentico spirito missionario. Il turismo a carattere internazionale è ormai un fatto di massa e positivo, se si pratica con atteggiamento rispettoso per un mutuo arricchimento culturale, evitando ostentazione e sperperi e cercando il contatto umano. Ma ai cristiani è richiesta soprattutto la coscienza di dover essere sempre testimoni della fede e della carità di Cristo. Anche la conoscenza diretta della vita missionaria e delle nuove comunità cristiane può arricchire e rinvigorire la fede. Sono lodevoli le visite alle missioni, soprattutto da parte dei giovani che vanno per servire e fare un'esperienza forte di vita cristiana.

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Le esigenze di lavoro portano oggi numerosi cristiani di giovani comunità in aree dove il cristianesimo è sconosciuto e, talvolta, bandito o perseguitato. Ciò avviene anche per i fedeli dei paesi di antica tradizione cristiana, che lavorano temporaneamente in paesi non cristiani. Queste circostanze sono certo un'opportunità per vivere e testimoniare la fede. Nei primi secoli il cristianesimo si diffuse soprattutto perché i cristiani, viaggiando o stabilendosi in regioni in cui Cristo non era stato annunziato, testimoniavano con coraggio la loro fede e vi fondavano le prime comunità.

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Più numerosi sono i cittadini dei paesi di missione e gli appartenenti a religioni non cristiane, che vanno a stabilirsi in altre nazioni per motivi di studio e di lavoro, o costretti dalle condizioni politiche o economiche dei luoghi di origine. La presenza di questi fratelli nei paesi di antica cristianità è una sfida per le comunità ecclesiali, stimolandole all'accoglienza, al dialogo, al servizio, alla condivisione, alla testimonianza e all'annunzio diretto. In pratica, anche in paesi cristiani si formano gruppi umani e culturali che richiamano la missione ad gentes , e le chiese locali, anche con l'aiuto di persone provenienti dai paesi degli immigrati e di missionari reduci, devono occuparsi generosamente di queste situazioni. La cooperazione può anche impegnare i responsabili della politica, dell'economia, della cultura, del giornalismo, oltre che gli esperti dei vari organismi internazionali. Nel mondo moderno è sempre più difficile tracciare linee di demarcazione geografica o culturale: c'è una crescente interdipendenza fra i popoli, il che stimola alla testimonianza cristiana e all'evangelizzazione.

Animazione e formazione missionaria del popolo di Dio

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83. La formazione missionaria è opera della chiesa locale con l'aiuto dei missionari e dei loro istituti, nonché del personale delle giovani chiese. Questo lavoro deve essere inteso non come marginale, ma come centrale nella vita cristiana. Per la stessa nuova evangelizzazione dei popoli cristiani il tema missionario può essere di grande aiuto: la testimonianza dei missionari, infatti, conserva il suo fascino anche presso i lontani e i non credenti e trasmette valori cristiani. Le chiese locali, quindi, inseriscano l'animazione missionaria come elemento-cardine della loro pastorale ordinaria nelle parrocchie, nelle associazioni e nei gruppi, specie giovanili. A questo fine vale, anzitutto, l'informazione mediante la stampa missionaria e i vari sussidi audiovisivi. Il loro ruolo è di grande importanza, in quanto fanno conoscere la vita della chiesa universale, le voci e le esperienze dei missionari e delle chiese locali, presso cui essi lavorano. Occorre che nelle chiese più giovani, che non sono ancora in grado di dotarsi di una stampa e altri sussidi, gli istituti missionari dedichino personale e mezzi a queste iniziative.

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A tale formazione sono chiamati i sacerdoti e i loro collaboratori, gli educatori e insegnanti, i teologi, specie i docenti dei seminari e dei centri per i laici. L'insegnamento teologico non può né deve prescindere dalla missione universale della chiesa, dall'ecumenismo, dallo studio delle grandi religioni e della missiologia. Raccomando che soprattutto nei seminari e nelle case di formazione per religiosi e religiose si faccia un tale studio, curando anche che alcuni sacerdoti, o alunni e alunne si specializzino nei diversi campi delle scienze missiologiche. Le attività di animazione vanno sempre orientate ai loro specifici fini: informare e formare il popolo di Dio alla missione universale dalla chiesa, far nascere vocazioni ad gentes , suscitare cooperazione all'evangelizzazione. Non si può, infatti, dare un'immagine riduttiva dell'attività missionaria, come se fosse principalmente aiuto ai poveri, contributo alla liberazione degli oppressi, promozione dello sviluppo, difesa dei diritti umani. La chiesa missionaria è impegnata anche su questi fronti, ma il suo compito primario è un altro: i poveri hanno fame di Dio, e non solo di pane e di libertà, e l'attività missionaria prima di tutto deve testimoniare e annunziare la salvezza in Cristo, fondando le chiese locali, che sono poi strumenti di liberazione in tutti i sensi.

La responsabilità primaria delle Pontificie opere missionarie

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84. In quest'opera di animazione il compito primario spetta alle Pontificie opere missionarie, come più volte ho affermato nei messaggi per la Giornata missionaria mondiale. Le quattro opere - Propagazione della fede, San Pietro apostolo, Infanzia missionaria e Unione missionaria - hanno in comune lo scopo di promuovere lo spirito missionario universale in seno al popolo di Dio. L'Unione missionaria ha come fine immediato e specifico la sensibilizzazione e formazione missionaria dei sacerdoti, religiosi e religiose, che devono, a loro volta, curarla nelle comunità cristiane; essa, inoltre, mira a promuovere le altre Opere, di cui è l'anima. "La parola d'ordine deve essere questa: Tutte le chiese per la conversione di tutto il mondo".

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Essendo del papa e del collegio episcopale, anche nell'ambito delle chiese particolari queste opere occupano "giustamente il primo posto, perché sono mezzi sia per infondere nei cattolici, fin dall'infanzia, uno spirito veramente universale e missionario, sia per favorire un'adeguata raccolta di sussidi a vantaggio di tutte le missioni, secondo la necessità di ciascuna". Un altro scopo delle opere missionarie è quello di suscitare vocazioni ad gentes e a vita, sia nelle chiese antiche come in quelle più giovani. Raccomando vivamente di orientare sempre più a questo fine il loro servizio di animazione. Nell'esercizio della loro attività, queste opere dipendono, a livello universale, dalla Congregazione per l'evangelizzazione e, a livello locale, dalle conferenze episcopali e dai vescovi delle singole chiese, collaborando con i centri di animazione esistenti: esse portano nel mondo cattolico quello spirito di universalità e di servizio alla missione, senza il quale non esiste autentica cooperazione.

Non solo dare alla missione, ma anche ricevere

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85. Cooperare alla missione vuol dire non solo dare, ma anche saper ricevere: tutte le chiese particolari, giovani e antiche, sono chiamate a dare e a ricevere per la missione universale e nessuna deve chiudersi in se stessa. "In forza della... cattolicità - dice il concilio - le singole parti portano i propri doni alle altre parti ed a tutta la chiesa, di modo che il tutto e le singole parti si accrescano da tutte le altre in reciproca comunione ed aspiranti alla pienezza nell'unità... Ne derivano... tra le diverse parti della chiesa vincoli di intima comunione circa i tesori spirituali, gli operai apostolici ed i sussidi materiali". Esorto tutte le chiese e i pastori, i sacerdoti, i religiosi, i fedeli, ad aprirsi all'universalità della chiesa, evitando ogni forma di particolarismo, di esclusivismo o sentimento di autosufficienza. Le chiese locali, pur radicate nel loro popolo e nella loro cultura, debbono tuttavia mantenere in concreto questo senso universalistico della fede, dando cioè e ricevendo dalle altre chiese doni spirituali, esperienze pastorali, di primo annunzio e di evangelizzazione, personale apostolico e mezzi materiali.

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Infatti, la tendenza a chiudersi può essere forte: le chiese antiche, impegnate per la nuova evangelizzazione, pensano che ormai la missione debbono svolgerla in casa e rischiano di frenare lo slancio verso il mondo non cristiano, concedendo a malincuore le vocazioni agli istituti missionari, alle congregazioni religiose, alle altre chiese. Ma è dando generosamente del nostro che riceveremo, e già oggi le giovani chiese, non poche delle quali conoscono una prodigiosa fioritura di vocazioni, sono in grado di inviare sacerdoti, religiosi e religiose a quelle antiche. D'altra parte, esse sentono il problema della propria identità, dell'inculturazione, della libertà di crescere senza influssi esterni, con la possibile conseguenza di chiudere le porte ai missionari. A queste chiese dico: Lungi dall'isolarvi, accogliete volentieri i missionari e i mezzi dalle altre chiese, e mandatene voi stesse nel mondo! Proprio per i problemi che vi angustiano avete bisogno di mantenervi in continua relazione con i fratelli e sorelle nella fede. Con ogni mezzo legittimo fate valere le libertà, a cui avete diritto, ricordandovi che i discepoli di Cristo hanno il dovere di "obbedire a Dio piuttosto che agli uomini" (At 5,29).

Dio prepara una nuova primavera del vangelo

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86. Se si guarda in superficie il mondo odierno, si è colpiti da non pochi fatti negativi, che possono indurre al pessimismo. Ma è, questo, un sentimento ingiustificato: noi abbiamo fede in Dio Padre e Signore, nella sua bontà e misericordia. In prossimità del terzo millennio della redenzione, Dio sta preparando una grande primavera cristiana, di cui già si intravede l'inizio. Difatti, sia nel mondo non cristiano come in quello di antica cristianità, c'è un progressivo avvicinamento dei popoli agli ideali e ai valori evangelici, che la chiesa si sforza di favorire. Oggi, infatti, si manifesta una nuova convergenza da parte dei popoli per questi valori: il rifiuto della violenza e della guerra; il rispetto della persona umana e dei suoi diritti; il desiderio di libertà, di giustizia e di fraternità; la tendenza al superamento dei razzismi e dei nazionalismi; l'affermazione della dignità e la valorizzazione della donna. La speranza cristiana ci sostiene nell'impegnarci a fondo per la nuova evangelizzazione e per la missione universale, facendoci pregare come Gesù ci ha insegnato: "Venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra" (Mt 6,10).

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Gli uomini che attendono Cristo sono ancora in numero immenso: gli spazi umani e culturali, non ancora raggiunti dall'annunzio evangelico o nei quali la chiesa è scarsamente presente, sono tanto ampi, da richiedere l'unità di tutte le sue forze. Preparandosi a celebrare il giubileo del duemila, tutta la chiesa è ancor più impegnata per un nuovo avvento missionario. Dobbiamo nutrire in noi l'ansia apostolica di trasmettere ad altri la luce e la gioia della fede, e a questo ideale dobbiamo educare tutto il popolo di Dio. Non possiamo restarcene tranquilli, pensando ai milioni di nostri fratelli e sorelle, anch'essi redenti dal sangue di Cristo, che vivono ignari dell'amore di Dio. Per il singolo credente, come per l'intera chiesa, la causa missionaria deve essere la prima, perché riguarda il destino eterno degli uomini e risponde al disegno misterioso e misericordioso di Dio.

Capitolo VIII: LA SPIRITUALITA' MISSIONARIA

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87. L'attività missionaria esige una specifica spiritualità che riguarda, in particolare, quanti Dio ha chiamato ad essere missionari.

Lasciarsi condurre dallo Spirito

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Tale spiritualità si esprime, innanzitutto, nel vivere in piena docilità allo Spirito: essa impegna a lasciarsi plasmare interiormente da lui, per divenire sempre più conformi a Cristo. Non si può testimoniare Cristo senza riflettere la sua immagine, la quale è resa viva in noi dalla grazia e dall'opera dello Spirito. La docilità allo Spirito impegna poi ad accogliere i doni della fortezza e del discernimento, che sono tratti essenziali della stessa spiritualità. Emblematico è il caso degli apostoli, che durante la vita pubblica del Maestro, nonostante il loro amore per lui e la generosità della risposta alla sua chiamata, si dimostrano incapaci di comprendere le sue parole e restii a seguirlo sulla via della sofferenza e dell'umiliazione. Lo Spirito li trasformerà in testimoni coraggiosi del Cristo e annunziatori illuminati della sua Parola: sarà lo Spirito a condurli per le vie ardue e nuove della missione.

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Anche oggi la missione rimane difficile e complessa come in passato e richiede ugualmente il coraggio e la luce dello Spirito: viviamo spesso il dramma della prima comunità cristiana, che vedeva forze incredule e ostili "radunarsi insieme contro il Signore e contro il suo Cristo" (At 4,26). Come allora, oggi occorre pregare, perché Dio ci doni la franchezza di proclamare il vangelo; occorre scrutare le vie misteriose dello Spirito e lasciarsi da lui condurre in tutta la verità (cf. Gv 16,13).

Vivere il mistero di "Cristo inviato"

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88. Nota essenziale della spiritualità missionaria è la comunione intima con Cristo: non si può comprendere e vivere la missione, se non riferendosi a Cristo come l'inviato ad evangelizzare. Paolo ne descrive gli atteggiamenti: "Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce" (Fil 2,5-8). E' qui descritto il mistero dell'incarnazione e della redenzione, come spoliazione totale di sé, che porta Cristo a vivere in pieno la condizione umana e ad aderire sino in fondo al disegno del Padre. Si tratta di un annientamento che però è permeato di amore ed esprime l'amore. La missione percorre questa stessa via e ha il suo punto di arrivo ai piedi della croce.

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Al missionario è chiesto "di rinunziare a se stesso e a tutto quello che in precedenza possedeva in proprio e a farsi tutto a tutti": nella povertà che lo rende libero per il vangelo, nel distacco da persone e beni del proprio ambiente per farsi fratello di coloro ai quali è mandato, onde portare ad essi il Cristo salvatore. E' a questo che è finalizzata la spiritualità del missionario: "Mi sono fatto debole con i deboli...; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno. Tutto io faccio per il vangelo" (1Cor 9,22-23). Proprio perché "inviato", il missionario sperimenta la presenza consolante di Cristo, che lo accompagna in ogni momento della sua vita- "Non aver paura..., perché io sono con te" (At 18,9-10) - e lo aspetta nel cuore di ogni uomo.

Amare la chiesa e gli uomini come li ha amati Gesù


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89. La spiritualità missionaria si caratterizza, ltresì, per la carità apostolica, quella del Cristo che venne "per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi" (Gv 11,52), buon Pastore che conosce le sue pecore, le ricerca e offre la sua vita per loro (cf. Gv 10). Chi ha spirito missionario sente l'ardore di Cristo per le anime e ama la chiesa, come Cristo. Il missionario è spinto dallo "zelo per le anime", che si ispira alla carità stessa di Cristo, fatta di attenzione, tenerezza, compassione, accoglienza, disponibilità, interessamento ai problemi della gente. L'amore di Gesù è molto profondo: egli, che "sapeva quello che c'è in ogni uomo" (Gv 2,25), amava tutti offrendo loro la redenzione e soffriva quando questa veniva rifiutata.

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Il missionario è l'uomo della carità: per poter annunziare a ogni fratello che è amato da Dio e che può lui stesso amare, egli deve testimoniare la carità verso tutti, spendendo la vita per il prossimo. Il missionario è il "fratello universale", porta in sé lo spirito della chiesa, la sua apertura e interesse per tutti i popoli e per tutti gli uomini, specie i più piccoli e poveri. Come tale, supera le frontiere e le divisioni di razza, casta o ideologia: è segno dell'amore di Dio nel mondo, che è amore senza nessuna esclusione né preferenza. Infine, come Cristo egli deve amare la chiesa: "Cristo ha amato la chiesa e ha dato se stesso per lei" (Ef 5,25). Questo amore, spinto fino a dare la vita, è per lui un punto di riferimento. Solo un amore profondo per la chiesa può sostenere lo zelo del missionario; il suo assillo quotidiano - come dice san Paolo - è "la preoccupazione per tutte le chiese" (2Cor 11,28). Per ogni missionario "la fedeltà a Cristo non può essere separata dalla fedeltà alla sua chiesa".

Il vero missionario è il santo

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90. La chiamata alla missione deriva di per sé dalla chiamata alla santità. Ogni missionario è autenticamente tale solo se si impegna nella via della santità: "La santità deve dirsi un presupposto fondamentale e una condizione del tutto insostituibile perché si compia la missione di salvezza della chiesa". L'universale vocazione alla santità è strettamente collegata all'universale vocazione alla missione: ogni fedele è chiamato alla santità e alla missione. Tale è stato il voto ardente del concilio nell'auspicare "che la luce di Cristo, riflessa sul volto della chiesa, illumini tutti gli uomini, annunziando il vangelo ad ogni creatura (cf. Mc 16,15)". La spiritualità missionaria della chiesa è un cammino verso la santità.

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La rinnovata spinta verso la missione ad gentes esige missionari santi. Non basta rinnovare i metodi pastorali, né organizzare e coordinare meglio le forze ecclesiali, né esplorare con maggior acutezza le basi bibliche e teologiche della fede: occorre suscitare un nuovo "ardore di santità" fra i missionari e in tutta la comunità cristiana, in particolare fra coloro che sono i più stretti collaboratori dei missionari. Ripensiamo, cari fratelli e sorelle, allo slancio missionario delle prime comunità cristiane. Nonostante la scarsezza dei mezzi di trasporto e comunicazione di allora, l'annunzio evangelico raggiunse in breve tempo i confini del mondo. E si trattava dell'annunzio della religione dell'Uomo morto in croce, "scandalo per gli ebrei e stoltezza per i gentili" (1Cor 1,23)! Alla base di un tale dinamismo missionario c'era la santità dei primi cristiani e delle prime comunità.

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91. Mi rivolgo, perciò, ai battezzati delle giovani comunità e delle giovani chiese. Siete voi, oggi, la speranza di questa nostra chiesa, che ha duemila anni: essendo giovani nella fede, dovete essere come i primi cristiani, e irradiare entusiasmo e coraggio, in generosa dedizione a Dio e al prossimo; in una parola, dovete mettervi sulla via della santità. Solo così potete essere segno di Dio nel mondo e rivivere nei vostri paesi l'epopea missionaria della chiesa primitiva. E sarete anche fermento di spirito missionario per le chiese più antiche.

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Da parte loro, i missionari riflettano sul dovere della santità, che il dono della vocazione richiede da essi, rinnovandosi di giorno in giorno nel loro spirito e aggiornando anche la loro formazione dottrinale e pastorale. Il missionario deve essere "un contemplativo in azione". Egli trova risposta ai problemi nella luce della parola di Dio e nella preghiera personale e comunitaria. Il contatto con i rappresentanti delle tradizioni spirituali non cristiane, in particolare di quelle dell'Asia, mi ha dato conferma che il futuro della missione dipende in gran parte della contemplazione. Il missionario, se non è un contemplativo, non può annunziare il Cristo in modo credibile. Egli è un testimone dell'esperienza di Dio e deve poter dire come gli apostoli: "Ciò che noi abbiamo contemplato, ossia il Verbo della vita..., noi lo annunziamo a voi" (1Gv 1,1-3).

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Il missionario è l'uomo delle beatitudini. Gesù istruisce i Dodici prima di mandarli a evangelizzare, indicando loro le vie della missione: povertà, mitezza, accettazione delle sofferenze e persecuzioni, desiderio di giustizia e di pace, carità, cioè proprio le beatitudini, attuate nella vita apostolica (cf. Mt 5,1-12). Vivendo le beatitudini, il missionario sperimenta e dimostra concretamente che il regno di Dio è già venuto ed egli lo ha accolto. La caratteristica di ogni vita missionaria autentica è la gioia interiore che viene dalla fede. In un mondo angosciato e oppresso da tanti problemi, che tende al pessimismo, l'annunziatore della "buona novella" deve essere un uomo che ha trovato in Cristo la vera speranza.

CONCLUSIONE

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92. Mai come oggi la chiesa ha l'opportunità di far giungere il vangelo, con la testimonianza e la parola, a tutti gli uomini e a tutti i popoli. Vedo albeggiare una nuova epoca missionaria, che diventerà giorno radioso e ricco di frutti, se tutti i cristiani e, in particolare, i missionari e le giovani chiese risponderanno con generosità e santità agli appelli e alle sfide del nostro tempo. Come gli apostoli dopo l'ascensione di Cristo, la chiesa deve radunarsi nel cenacolo "con Maria, la madre di Gesù" (At 1,14), per implorare lo Spirito e ottenere forza e coraggio per adempiere il mandato missionario. Anche noi, ben più degli apostoli, abbiamo bisogno di essere trasformati e guidati dallo Spirito.

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Alla vigilia del terzo millennio tutta la chiesa è invitata a vivere più profondamente il mistero di Cristo, collaborando con gratitudine all'opera della salvezza. Ciò essa fa con Maria e come Maria, sua madre e modello: è lei, Maria, il modello di quell'amore materno, dal quale devono essere animati tutti quelli che, nella missione apostolica della chiesa, cooperano alla rigenerazione degli uomini. Perciò, "confortata dalla presenza di Cristo, la chiesa cammina nel tempo verso la consumazione dei secoli e si muove incontro al Signore che viene; ma in questo cammino... procede ricalcando l'itinerario compiuto dalla Vergine Maria". Alla "mediazione di Maria, tutta orientata verso il Cristo e protesa alla rivelazione della sua potenza salvifica", affido la chiesa e, in particolare, coloro che si impegnano per l'attuazione del mandato missionario nel mondo di oggi. Come Cristo inviò i suoi apostoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, così, rinnovando lo stesso mandato, io estendo a tutti voi la benedizione apostolica nel nome della stessa Trinità santissima. Amen.

Roma, presso San Pietro, 7 dicembre - nel XXV anniversario del decreto conciliare "Ad gentes"- dell'anno 1990, decimoterzo del pontificato.

GIOVANNI PAOLO II

VOCAZIONE E MISSIONE DEI LAICI NELLA CHIESA E NEL MONDO

(Christifideles Laici)



Introduzione

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1. I fedeli laici, la cui "vocazione e missione nella chiesa e nel mondo a vent'anni dal concilio Vaticano II" è stato l'argomento del sinodo dei vescovi del 1987, appartengono a quel popolo di Dio che è raffigurato dagli operai della vigna, dei quali parla il Vangelo di Matteo: "Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all'alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Accordatosi con loro per un denaro al giorno, li mandò nella sua vigna" (Mt 20,1-2). La parabola evangelica spalanca davanti al nostro sguardo l'immensa vigna del Signore e la moltitudine di persone, uomini e donne, che da lui sono chiamate e mandate perché in essa abbiano a lavorare. La vigna è il mondo intero (cf. Mt 13,38), che dev'essere trasformato secondo il disegno di Dio in vista dell'avvento definitivo del regno di Dio.

Andate anche voi nella mia vigna


1607
2. "Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano sulla piazza disoccupati e disse loro: "Andate anche voi nella mia vigna"" (Mt 20,3-4). L'appello del Signore Gesù " Andate anche voi nella mia vigna " non cessa di risuonare da quel lontano giorno nel corso della storia: è rivolto a ogni uomo che viene in questo mondo. Ai nostri tempi, nella rinnovata effusione dello Spirito pentecostale avvenuta con il concilio Vaticano II, la chiesa ha maturato una più viva coscienza della sua natura missionaria e ha riascoltato la voce del suo Signore che la manda nel mondo come "sacramento universale di salvezza".

1608
Andate anche voi. La chiamata non riguarda soltanto i pastori, i sacerdoti, i religiosi e le religiose, ma si estende a tutti: anche i fedeli laici sono personalmente chiamati dal Signore, dal quale ricevono una missione per la chiesa e per il mondo. Lo ricorda s. Gregorio Magno che, predicando al popolo, così commenta la parabola degli operai della vigna: "Guardate al vostro modo di vivere, fratelli carissimi, e verificate se siete già operai del Signore. Ciascuno valuti quello che fa e consideri se lavora nella vigna del Signore".

1609
In particolare il concilio, con il suo ricchissimo patrimonio dottrinale, spirituale e pastorale, ha riservato pagine quanto mai splendide sulla natura, dignità, spiritualità, missione e responsabilità dei fedeli laici. E i padri conciliari , riecheggiando l'appello di Cristo, hanno chiamato tutti i fedeli laici, uomini e donne, a lavorare nella sua vigna : "Il sacro concilio scongiura nel Signore tutti i laici a rispondere volentieri, con animo generoso e con cuore pronto, alla voce di Cristo, che in quest'ora li invita con maggiore insistenza, e all'impulso dello Spirito santo. In modo speciale i più giovani sentano questo appello come rivolto a se stessi, e l'accolgano con slancio e magnanimità. Il Signore stesso infatti ancora una volta per mezzo di questo santo sinodo invita tutti i laici ad unirsi sempre più intimamente a lui e, sentendo come proprio tutto ciò che è di lui (cf. Fil 2,5), si associno alla sua missione salvifica; li manda ancora in ogni città e in ogni luogo dov'egli sta per venire (cf. Lc 10,1)".

1610
Andate anche voi nella mia vigna. Queste parole sono spiritualmente risuonate, ancora una volta, durante la celebrazione del sinodo dei vescovi , tenutosi a Roma dal 1 al 30 ottobre 1987. Ponendosi sui sentieri del concilio e aprendosi alla luce delle esperienze personali e comunitarie di tutta la chiesa, i padri, arricchiti dai sinodi precedenti, hanno affrontato in modo specifico e ampio l'argomento riguardante la vocazione e la missione dei laici nella chiesa e nel mondo. In quest'assemblea episcopale non è mancata una qualificata rappresentanza di fedeli laici, uomini e donne, che hanno portato un contributo prezioso ai lavori del sinodo, come è stato pubblicamente riconosciuto nell'omelia di conclusione: "Ringraziamo per il fatto che nel corso del sinodo abbiamo potuto non solo gioire per la partecipazione dei laici ( uditori e uditrici ), ma ancor di più perché lo svolgimento delle discussioni sinodali ci ha permesso di ascoltare la voce degli invitati, i rappresentanti del laicato provenienti da tutte le parti del mondo, dai diversi paesi, e ci ha consentito di profittare delle loro esperienze, dei loro consigli, dei suggerimenti che scaturiscono dal loro amore per la causa comune".

1611
Con lo sguardo rivolto al dopo-concilio i padri sinodali hanno potuto constatare come lo Spirito abbia continuato a ringiovanire la chiesa, suscitando nuove energie di santità e di partecipazione in tanti fedeli laici. Ciò è testimoniato, tra l'altro, dal nuovo stile di collaborazione tra sacerdoti, religiosi e fedeli laici; dalla partecipazione attiva nella liturgia, nell'annuncio della parola di Dio e nella catechesi; dai molteplici servizi e compiti affidati ai fedeli laici e da essi assunti; dal rigoglioso fiorire di gruppi, associazioni e movimenti di spiritualità e di impegno laicali; dalla partecipazione più ampia e significativa delle donne nella vita della chiesa e nello sviluppo della società.

1612
Nello stesso tempo, il sinodo ha rilevato come il cammino postconciliare dei fedeli laici non sia stato esente da difficoltà e da pericoli. In particolare si possono ricordare due tentazioni alle quali non sempre essi hanno saputo sottrarsi: la tentazione di riservare un interesse così forte ai servizi e ai compiti ecclesiali, da giungere spesso a un pratico disimpegno nelle loro specifiche responsabilità nel mondo professionale, sociale, economico, culturale e politico; e la tentazione di legittimare l'indebita separazione tra la fede e la vita, tra l'accoglienza del Vangelo e l'azione concreta nelle più diverse realtà temporali e terrene.

1613
Nel corso dei suoi lavori il sinodo ha fatto costante riferimento al concilio Vaticano II, il cui insegnamento sul laicato, a distanza di vent'anni, è apparso di sorprendente attualità e talvolta di portata profetica: tale insegnamento è capace di illuminare e di guidare le risposte che oggi devono essere date ai nuovi problemi. In realtà, la sfida che i padri sinodali hanno accolto è stata quella di individuare le strade concrete perché la splendida "teoria" sul laicato espressa dal concilio possa diventare un'autentica "prassi" ecclesiale. Alcuni problemi poi s'impongono per una certa loro "novità", tanto da poterli chiamare postconciliari, almeno in senso cronologico: ad essi i padri sinodali hanno giustamente riservato una particolare attenzione nel corso della loro discussione e riflessione. Tra questi problemi sono da ricordare quelli riguardanti i ministeri e i servizi ecclesiali affidati o da affidarsi ai fedeli laici, la diffusione e la crescita di nuovi "movimenti" accanto ad altre forme aggregative di laici, il posto e il ruolo della donna sia nella chiesa che nella società.

1614
I padri sinodali, al termine dei loro lavori, svolti con grande impegno, competenza e generosità, mi hanno manifestato il desiderio e mi hanno rivolto la preghiera perché, a tempo opportuno, offrissi alla chiesa universale un documento conclusivo sui fedeli laici. Questa esortazione apostolica post-sinodale intende valorizzare tutta quanta la ricchezza dei lavori sinodali, dai Lineamenta all' Instrumentum laboris ( V9/1340 ss), dalla relazione introduttiva agli interventi dei singoli vescovi e laici ( V10/1587 ss) e alla relazione di sintesi dopo la discussione in aula ( V10/2103 ss), dalle discussioni e relazioni dei "circoli minori" alle "proposizioni" e al Messaggio ( V9/2215 ss) finale. Per questo il presente documento non si pone a lato del sinodo, ma ne costituisce la fedele e coerente espressione, è il frutto d'un lavoro collegiale, al cui esito finale hanno apportato il loro contributo il consiglio della segreteria generale del sinodo e la stessa segreteria.

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Suscitare e alimentare una più decisa presa di coscienza del dono e della responsabilità che tutti i fedeli laici, e ciascuno di essi in particolare, hanno nella comunione e nella missione della chiesa è lo scopo che l'esortazione intende perseguire.

Le urgenze attuali del mondo: perché ve ne state qui tutto il giorno oziosi?


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3. Il significato fondamentale di questo sinodo, e quindi il frutto più prezioso da esso desiderato, è l' ascolto da parte dei fedeli laici dell'appello di Cristo a lavorare nella sua vigna , a prendere parte viva, consapevole e responsabile alla missione della chiesa in quest'ora magnifica e drammatica della storia , nell'imminenza del terzo millennio. Situazioni nuove, sia ecclesiali sia sociali, economiche, politiche e culturali, reclamano oggi, con una forza del tutto particolare, l'azione dei fedeli laici. Se il disimpegno è sempre stato inaccettabile, il tempo presente lo rende ancora più colpevole. Non è lecito a nessuno rimanere in ozio.

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Riprendiamo la lettura della parabola evangelica: "Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano là e disse loro: "Perché ve ne state qui tutto il giorno oziosi?". Gli risposero:" Perché nessuno ci ha presi a giornata". Ed egli disse loro: "Andate anche voi nella mia vigna"" (Mt 20,6-7). Non c'è posto per l'ozio, tanto è il lavoro che attende tutti nella vigna del Signore. Il "padrone di casa" ripete con più forza il suo invito: "Andate anche voi nella mia vigna".

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La voce del Signore risuona certamente nell'intimo dell'essere stesso d'ogni cristiano, che mediante la fede e i sacramenti dell'iniziazione cristiana è configurato a Gesù Cristo, è inserito come membro vivo nella chiesa ed è soggetto attivo della sua missione di salvezza. La voce del Signore passa però anche attraverso le vicende storiche della chiesa e dell'umanità, come ci ricorda il concilio: "Il popolo di Dio, mosso dalla fede, per cui crede di essere condotto dallo Spirito del Signore, che riempie l'universo, cerca di discernere negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni, cui prende parte insieme con gli altri uomini del nostro tempo, quali siano i veri segni della presenza e del disegno di Dio. La fede infatti tutto rischiara di una luce nuova e svela le intenzioni di Dio sulla vocazione integrale dell'uomo, e perciò guida l'intelligenza verso soluzioni pienamente umane".

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E' necessario, allora, guardare in faccia questo nostro mondo, con i suoi valori e problemi, le sue inquietudini e speranze, le sue conquiste e sconfitte: un mondo le cui situazioni economiche, sociali, politiche e culturali presentano problemi e difficoltà più gravi rispetto a quello descritto dal concilio nella costituzione pastorale Gaudium et spes. E' comunque questa la vigna, è questo il campo nel quale i fedeli laici sono chiamati a vivere la loro missione. Gesù li vuole, come tutti i suoi discepoli, sale della terra e luce del mondo (cf. Mt 5,13-14). Ma qual è il volto attuale della "terra" e del "mondo", di cui i cristiani devono essere "sale" e "luce"?

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E' assai grande la diversità delle situazioni e delle problematiche che oggi esistono nel mondo, peraltro caratterizzate da una crescente accelerazione di mutamento. Per questo è del tutto necessario guardarsi dalle generalizzazioni e dalle semplificazioni indebite. E' però possibile rilevare alcune linee di tendenza che emergono nella società attuale. Come nel campo evangelico insieme crescono la zizzania e il buon grano, così nella storia, teatro quotidiano di un esercizio spesso contraddittorio della libertà umana, si trovano, accostati e talvolta profondamente aggrovigliati tra loro, il male e il bene, l'ingiustizia e la giustizia, l'angoscia e la speranza.

Secolarismo e bisogno religioso

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4. Come non pensare alla persistente diffusione dell' indifferentismo religioso e dell' ateismo nelle sue più diverse forme, in particolare nella forma, oggi forse più diffusa, del secolarismo ? Inebriato dalle prodigiose conquiste di un inarrestabile sviluppo scientifico-tecnico e soprattutto affascinato dalla più antica e sempre nuova tentazione, quella di voler diventare come Dio (cf. Gn 3,5) mediante l'uso d'una libertà senza limiti, l'uomo taglia le radici religiose che sono nel suo cuore: dimentica Dio, lo ritiene senza significato per la propria esistenza, lo rifiuta ponendosi in adorazione dei più diversi "idoli".

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E' veramente grave il fenomeno attuale del secolarismo: non riguarda solo i singoli, ma in qualche modo intere comunità, come già rilevava il concilio: "Moltitudini crescenti praticamente si staccano dalla religione". Più volte io stesso ho ricordato il fenomeno della scristianizzazione che colpisce i popoli cristiani di vecchia data e che reclama, senza alcuna dilazione, una nuova evangelizzazione.

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Eppure l' aspirazione e il bisogno religiosi non possono essere totalmente estinti. La coscienza di ogni uomo, quando ha il coraggio di affrontare gli interrogativi più gravi dell'esistenza umana, in particolare l'interrogativo sul senso del vivere, del soffrire e del morire, non può non fare propria la parola di verità gridata da sant'Agostino: "Tu ci hai fatto per te, o Signore, e il nostro cuore è inquieto sino a quando non riposa in te". Così anche il mondo attuale testimonia, in forme sempre più ampie e vive, l'apertura ad una visione spirituale e trascendente della vita, il risveglio della ricerca religiosa, il ritorno al senso del sacro e alla preghiera, la richiesta di essere liberi nell'invocare il nome del Signore.

La persona umana: dignità calpestata ed esaltata


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5. Pensiamo, inoltre, alle molteplici violenze alle quali viene oggi sottoposta la persona umana. Quando non è riconosciuto e amato nella sua dignità di immagine vivente di Dio (cf. Gn 1,26), l'essere umano è esposto alle più umilianti e aberranti forme di "strumentalizzazione", che lo rendono miseramente schiavo del più forte. E "il più forte" può assumere i nomi più diversi: ideologia, potere economico, sistemi politici disumani, tecnocrazia scientifica, invadenza dei mass-media. Di nuovo ci troviamo di fronte a moltitudini di persone, nostri fratelli e sorelle, i cui diritti fondamentali sono violati, anche in seguito all'eccessiva tolleranza e persino alla palese ingiustizia di certe leggi civili: il diritto alla vita e all'integrità, il diritto alla casa e al lavoro, il diritto alla famiglia e alla procreazione responsabile, il diritto alla partecipazione alla vita pubblica e politica, il diritto alla libertà di coscienza e di professione di fede religiosa.

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Chi può contare i bambini non nati perché uccisi nel seno delle loro madri, i bambini abbandonati e maltrattati dagli stessi genitori, i bambini che crescono senza affetto ed educazione? In alcuni paesi intere popolazioni sono sprovviste di casa e di lavoro, mancano dei mezzi assolutamente indispensabili per condurre una vita degna di esseri umani e sono private persino del necessario per la stessa sussistenza. Tremende sacche di povertà e di miseria, fisica e morale ad un tempo, stanno oramai di casa ai margini delle grandi metropoli e colpiscono mortalmente interi gruppi umani.

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Ma la sacralità della persona non può essere annullata, quantunque essa troppo spesso venga disprezzata e violata: avendo il suo incrollabile fondamento in Dio creatore e padre, la sacralità della persona torna ad imporsi, sempre e di nuovo. Di qui il diffondersi sempre più vasto e l'affermarsi sempre più forte del senso della dignità personale di ogni essere umano. Una corrente benefica oramai percorre e pervade tutti i popoli della terra, resi sempre più consapevoli della dignità dell'uomo: non è affatto una "cosa" o un "oggetto" di cui servirsi, ma è sempre e solo un "soggetto", dotato di coscienza e di libertà, chiamato a vivere responsabilmente nella società e nella storia, ordinato ai valori spirituali e religiosi.

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E' stato detto che il nostro è il tempo degli "umanesimi": alcuni, per la loro matrice atea e secolaristica, finiscono paradossalmente per mortificare e annullare l'uomo; altri umanesimi invece lo esaltano a tal punto da giungere a forme di vera e propria idolatria; altri, infine, riconoscono secondo verità la grandezza e la miseria dell'uomo, manifestando, sostenendo e favorendo la sua dignità totale. Segno e frutto di queste correnti umanistiche è il crescente bisogno della partecipazione. E' questa, indubbiamente, uno dei tratti distintivi dell'umanità attuale, un vero "segno dei tempi" che viene maturando in diversi campi e in diverse direzioni: nel campo soprattutto delle donne e del mondo giovanile, e nella direzione della vita non solo familiare e scolastica, ma anche culturale, economica, sociale e politica. L'essere protagonisti, in qualche modo creatori di una nuova cultura umanistica, è un'esigenza insieme universale e individuale.

Conflittualità e pace

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6. Non possiamo, infine, non ricordare un altro fenomeno che contraddistingue l'attuale umanità: forse come non mai nella sua storia, l'umanità è quotidianamente e profondamente colpita e scardinata dalla conflittualità. E' questo un fenomeno pluriforme, che si distingue dal pluralismo legittimo delle mentalità e delle iniziative, e si manifesta nell'infausto contrapporsi di persone, gruppi, categorie, nazioni e blocchi di nazioni. E' una contrapposizione che assume forme di violenza, di terrorismo, di guerra. Ancora una volta, ma con proporzioni enormemente ampliate, diversi settori dell'umanità d'oggi, volendo dimostrare la loro "onnipotenza", rinnovano la stolta esperienza della costruzione della "torre di Babele" (cf. Gn 11,1-9), la quale però prolifera confusione, lotta, disgregazione ed oppressione. La famiglia umana è così in se stessa drammaticamente sconvolta e lacerata.

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D'altra parte, del tutto insopprimibile è l'aspirazione dei singoli e dei popoli al bene inestimabile della pace nella giustizia. La beatitudine evangelica: "Beati gli operatori di pace" (Mt 5,9) trova negli uomini del nostro tempo una nuova e significativa risonanza: per l'avvento della pace e della giustizia popolazioni intere oggi vivono, soffrono e lavorano. La partecipazione di tante persone e gruppi alla vita della società è la strada oggi sempre più percorsa perché da desiderio la pace diventi realtà. Su questa strada incontriamo tanti fedeli laici generosamente impegnati nel campo sociale e politico, nelle più varie forme sia istituzionali che di volontariato e di servizio agli ultimi.

Gesù Cristo, la speranza dell'umanità

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7. Questo è l'immenso e travagliato campo che sta davanti agli operai mandati dal "padrone di casa" a lavorare nella sua vigna. In questo campo è presente e operante la chiesa, noi tutti, pastori e fedeli, sacerdoti, religiosi e laici. Le situazioni ora ricordate toccano profondamente la chiesa: da esse è in parte condizionata, non però schiacciata né tanto meno sopraffatta, perché lo Spirito santo, che ne è l'anima, la sostiene nella sua missione. La chiesa sa che tutti gli sforzi che l'umanità va compiendo per la comunione e la partecipazione, nonostante ogni difficoltà, ritardo e contraddizione causati dai limiti umani, dal peccato e dal Maligno, trovano piena risposta nell'intervento di Gesù Cristo, redentore dell'uomo e del mondo.

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La chiesa sa di essere mandata da lui come "segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano". Nonostante tutto, dunque, l'umanità può sperare, deve sperare: il Vangelo vivente e personale, Gesù Cristo stesso, è la "notizia" nuova e apportatrice di gioia che la chiesa ogni giorno annuncia e testimonia a tutti gli uomini. In questo annuncio e in questa testimonianza i fedeli laici hanno un posto originale e insostituibile: per mezzo loro la chiesa di Cristo è resa presente nei più svariati settori del mondo, come segno e fonte di speranza e di amore.

Capitolo Primo: IO SONO LA VITE, VOI I TRALCI LA DIGNITA' DEI FEDELI LAICI NELLA CHIESA-MISTERO

Il mistero delle vigna

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8. L'immagine della vigna viene usata dalla Bibbia in molti modi e con diversi significati: in particolare, essa serve ad esprimere il mistero del popolo di Dio. In questa prospettiva più interiore i fedeli laici non sono semplicemente gli operai che lavorano nella vigna, ma sono parte della vigna stessa: "Io sono la vite, voi i tralci" (Gv 15,5), dice Gesù. Già nell'Antico Testamento i profeti per indicare il popolo eletto ricorrono all'immagine della vigna. Israele è la vigna di Dio, l'opera del Signore, la gioia del suo cuore: "Io ti avevo piantato come vigna scelta" (Ger 2,21); "Tua madre era come una vite piantata vicino alle acque. Era rigogliosa e frondosa per l'abbondanza dell'acqua" (Ez 19,10); "Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle. Egli l'aveva vangata e sgombrata dai sassi, e vi aveva piantato scelte viti..." (Is 5,1-2).

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Gesù riprende il simbolo della vigna e se ne serve per rivelare alcuni aspetti del regno di Dio: "Un uomo piantò una vigna, vi pose attorno una siepe, scavò un torchio, costruì una torre, poi la diede in affitto a dei vignaioli e se ne andò lontano" (Mc 12,1; cf. Mt 21,28ss). L'evangelista Giovanni ci invita a scendere in profondità e ci introduce a scoprire il mistero della vigna : essa è il simbolo e la figura non solo del popolo di Dio, ma di Gesù stesso. Lui è il ceppo e noi, i discepoli, siamo i tralci; lui è la "vera vite", nella quale sono vitalmente inseriti i tralci (cf. Gv 15,1ss).

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Il concilio Vaticano II, riferendo le varie immagini bibliche che illuminano il mistero della chiesa, ripropone l'immagine della vite e dei tralci: "Cristo è la vera vite, che dà vita e fecondità ai tralci, cioè a noi, che per mezzo della chiesa rimaniamo in lui, e senza di lui nulla possiamo fare (Gv 15,1-5)". La chiesa stessa è, dunque, la vigna evangelica. E' mistero perché l'amore e la vita del Padre, del Figlio e dello Spirito santo sono il dono assolutamente gratuito offerto a quanti sono nati dall'acqua e dallo Spirito (cf. Gv 3,5), chiamati a rivivere la comunione stessa di Dio e a manifestarla e comunicarla nella storia ( missione ): "In quel giorno - dice Gesù - voi saprete che io sono nel Padre e voi in me e io in voi" (Gv 14,20).

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Ora solo all'interno del mistero della chiesa come mistero di comunione si rivela l'"identità" dei fedeli laici , la loro originale dignità. E solo all'interno di questa dignità si possono definire la loro vocazione e la loro missione nella chiesa e nel mondo.

Chi sono i fedeli laici

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9. I padri sinodali hanno giustamente rilevato la necessità di individuare e di proporre una descrizione positiva della vocazione e della missione dei fedeli laici, approfondendo lo studio della dottrina del concilio Vaticano II alla luce sia dei più recenti documenti del magistero sia dell'esperienza della vita stessa della chiesa guidata dallo Spirito santo. Nel dare risposta all'interrogativo "chi sono i fedeli laici", il concilio, superando precedenti interpretazioni prevalentemente negative, si è aperto ad una visione decisamente positiva e ha manifestato il suo fondamentale intento nell'asserire la piena appartenenza dei fedeli laici alla chiesa e al suo mistero e il carattere peculiare della loro vocazione , che ha in modo speciale lo scopo di "cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio". "Col nome di laici - così la costituzione Lumen gentium li descrive - si intendono qui tutti i fedeli ad esclusione dei membri dell'ordine sacro e dello stato religioso sancito dalla chiesa, i fedeli cioè, che, dopo essere stati incorporati a Cristo col battesimo e costituiti popolo di Dio e, a loro modo, resi partecipi dell'ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, per la loro parte compiono, nella chiesa e nel mondo, la missione propria di tutto il popolo cristiano".

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Già Pio XII diceva: "I fedeli, e più precisamente i laici, si trovano nella linea più avanzata della vita della chiesa; per loro la chiesa è il principio vitale della società umana. Perciò essi, specialmente essi, debbono avere una sempre più chiara consapevolezza, non soltanto di appartenere alla chiesa, ma di essere la chiesa , vale a dire la comunità dei fedeli sulla terra sotto la condotta del capo comune, il papa, e dei vescovi in comunione con lui. Essi sono la chiesa... ". Secondo l'immagine biblica della vigna, i fedeli laici, come tutti quanti i membri della chiesa, sono tralci radicati in Cristo, la vera vite, da lui resi vivi e vivificanti.

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L'inserimento in Cristo per mezzo della fede e dei sacramenti dell'iniziazione cristiana è la radice prima che origina la nuova condizione del cristiano nel mistero della chiesa, che costituisce la sua più profonda "fisionomia", che sta alla base di tutte le vocazioni e del dinamismo della vita cristiana dei fedeli laici: in Gesù Cristo, morto e risorto, il battezzato diventa una "creatura nuova" (Gal 6,15; 2Cor 5,17), una creatura purificata dal peccato e vivificata dalla grazia. In tal modo, solo cogliendo la misteriosa ricchezza che Dio dona al cristiano nel santo battesimo è possibile delineare la "figura" del fedele laico.

Il battesimo e la novità cristiana


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10. Non è esagerato dire che l'intera esistenza del fedele laico ha lo scopo di portarlo a conoscere la radicale novità cristiana che deriva dal battesimo, sacramento della fede, perché possa viverne gli impegni secondo la vocazione ricevuta da Dio. Per descrivere la "figura" del fedele laico prendiamo ora in esplicita e più diretta considerazione, tra gli altri, questi tre fondamentali aspetti: il battesimo ci rigenera alla vita dei figli di Dio, ci unisce a Gesù Cristo e al suo corpo che è la chiesa, ci unge nello Spirito santo costituendoci templi spirituali.

Figli nel Figlio

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11. Ricordiamo le parole di Gesù a Nicodemo: "In verità, in verità ti dico, se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio" (Gv 3,5). Il santo battesimo è, dunque, una nuova nascita, è una rigenerazione. Proprio pensando a questo aspetto del dono battesimale l'apostolo Pietro prorompe nel canto: "Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo; nella sua grande misericordia egli ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, per una eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce" (1Pt 1,3-4). E chiama i cristiani coloro che sono stati "rigenerati non da un seme corruttibile, ma immortale, cioè dalla parola di Dio viva ed eterna" (1Pt 1,23).

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Con il battesimo diventiamo figli di Dio nell'unigenito suo Figlio, Cristo Gesù. Uscendo dalle acque del sacro fonte, ogni cristiano riascolta la voce che un giorno si è udita sulle rive del fiume Giordano: "Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto" (Lc 3,22), e capisce che è stato associato al Figlio prediletto, diventando figlio di adozione (cf. Gal 4,4-7) e fratello di Cristo. Si compie così nella storia di ciascuno l'eterno disegno del Padre: "Quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all'immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli" (Rm 8,29).

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E' lo Spirito santo che costituisce i battezzati in figli di Dio e nello stesso tempo membra del corpo di Cristo. Lo ricorda Paolo ai cristiani di Corinto: "Noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo" (1Cor 12,13), sicché l'apostolo può dire ai fedeli laici: "Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte" (1Cor 12,27); "Che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio" (Gal 4,6; cf. Rm 8,15-16).

Un solo corpo in Cristo

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12. Rigenerati come "figli nel Figlio", i battezzati sono inscindibilmente " membri di Cristo e membri del corpo della chiesa ", come insegna il concilio di Firenze. Il battesimo significa e produce un'incorporazione mistica ma reale al corpo crocifisso e glorioso di Gesù. Mediante il sacramento Gesù unisce il battezzato alla sua morte per unirlo alla sua risurrezione (cf. Rm 6,3-5), lo spoglia dell'"uomo vecchio" e lo riveste dell'"uomo nuovo", ossia di se stesso: "Quanti siete stati battezzati in Cristo - proclama l'apostolo Paolo - vi siete rivestiti di Cristo" (Gal 3,27; cf. Ef 4,22-24; Col 3,9-10). Ne risulta che "noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo" (Rm 12,5).

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Ritroviamo nelle parole di Paolo l'eco fedele dell'insegnamento di Gesù stesso, il quale ha rivelato la misteriosa unità dei suoi discepoli con lui e tra di loro , presentandola come immagine e prolungamento di quell'arcana comunione che lega il Padre al Figlio e il Figlio al Padre nel vincolo amoroso dello Spirito (cf. Gv 17,21). E' la stessa unità di cui Gesù parla con l'immagine della vite e dei tralci: "Io sono la vite, voi i tralci" (Gv 15,5), un'immagine che fa luce non solo sull'intimità profonda dei discepoli con Gesù, ma anche sulla comunione vitale dei discepoli tra loro: tutti tralci dell'unica vite.

Templi vivi e santi dello Spirito

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13. Con un'altra immagine, quella di un edificio, l'apostolo Pietro definisce i battezzati come "pietre vive" fondate su Cristo, la "pietra angolare", e destinate alla "costruzione di un edificio spirituale" (1Pt 2,5ss). L'immagine ci introduce a un altro aspetto della novità battesimale, così presentato dal concilio Vaticano II: "Per la rigenerazione e l'unzione dello Spirito santo i battezzati vengono consacrati a formare una dimora spirituale". Lo Spirito santo "unge" il battezzato, vi imprime il suo indelebile sigillo (cf. 2Cor 1,21-22), e lo costituisce tempio spirituale, ossia lo riempie della santa presenza di Dio grazie all'unione e alla conformazione a Gesù Cristo.

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Con questa spirituale "unzione", il cristiano può, a suo modo, ripetere le parole di Gesù: "Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore" (Lc 4,18-19; cf. Is 61,1-2). Così con l'effusione battesimale e cresimale il battezzato partecipa alla medesima missione di Gesù il Cristo, il Messia salvatore.

Partecipi dell'ufficio sacerdotale, profetico e regale di Gesù Cristo

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14. Rivolgendosi ai battezzati come a "bambini appena nati", l'apostolo Pietro scrive: "Stringendovi a lui, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo... Ma voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di lui che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce..." (1Pt 2,4-5.9).

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Ecco un nuovo aspetto della grazia e della dignità battesimale: i fedeli laici partecipano, per la loro parte, al triplice ufficio - sacerdotale, profetico e regale - di Gesù Cristo. E' questo un aspetto non mai dimenticato dalla tradizione viva della chiesa, come appare, ad esempio, dalla spiegazione che del salmo 26 offre sant'Agostino. Scrive: "Davide fu unto re. A quel tempo si ungevano solo il re e il sacerdote. In queste due persone era prefigurato il futuro unico re e sacerdote, Cristo (e perciò "Cristo" viene da "crisma"). Non solo però è stato unto il nostro capo, ma siamo stati unti anche noi, suo corpo... Perciò l'unzione spetta a tutti i cristiani, mentre al tempo dell'Antico Testamento apparteneva a due sole persone. Appare chiaro che noi siamo il corpo di Cristo dal fatto che siamo tutti unti e tutti in lui siamo cristi e Cristo, perché in certo modo la testa e il corpo formano il Cristo nella sua integrità".

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Nella scia del concilio Vaticano II, sin dall'inizio del mio servizio pastorale, ho inteso esaltare la dignità sacerdotale, profetica e regale dell'intero popolo di Dio dicendo: "Colui che è nato dalla vergine Maria, il figlio del falegname - come si riteneva- il Figlio del Dio vivente, come ha confessato Pietro, è venuto per fare di tutti noi "un regno di sacerdoti". Il concilio Vaticano II ci ha ricordato il mistero di questa potestà e il fatto che la missione di Cristo - sacerdote, profeta-maestro, re - continua nella chiesa. Tutti, tutto il popolo di Dio è partecipe di questa triplice missione". Con questa esortazione i fedeli laici sono invitati ancora una volta a rileggere, a meditare e ad assimilare con intelligenza e con amore il ricco e fecondo insegnamento del concilio circa la loro partecipazione al triplice ufficio di Cristo. Ecco ora in sintesi gli elementi essenziali di questo insegnamento.

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I fedeli laici sono partecipi dell' ufficio sacerdotale , per il quale Gesù ha offerto se stesso sulla croce e continuamente si offre nella celebrazione eucaristica a gloria del Padre per la salvezza dell'umanità. Incorporati a Gesù Cristo, i battezzati sono uniti a lui e al suo sacrificio nell'offerta di se stessi e di tutte le loro attività (cf. Rm 12,1-2). Parlando dei fedeli laici il concilio dice: "Tutte le loro opere, le preghiere e le iniziative apostoliche, la vita coniugale e familiare, il lavoro giornaliero, il sollievo spirituale e corporale, se sono compiute nello Spirito, e persino le molestie della vita se sono sopportate con pazienza, diventano spirituali sacrifici graditi a Dio per Gesù Cristo (cf. 1Pt 2,5), i quali nella celebrazione dell'eucaristia sono piissimamente offerti al Padre insieme all'oblazione del corpo del Signore. Così anche i laici, operando santamente dappertutto come adoratori, consacrano a Dio il mondo stesso".

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La partecipazione all' ufficio profetico di Cristo, "il quale e con la testimonianza della vita e con la virtù della parola ha proclamato il regno del Padre", abilita e impegna i fedeli laici ad accogliere nella fede il Vangelo e ad annunciarlo con la parola e con le opere non esitando a denunciare coraggiosamente il male. Uniti a Cristo, il "grande profeta" (Lc 7,16), e costituiti nello Spirito "testimoni" di Cristo risorto, i fedeli laici sono resi partecipi sia del senso di fede soprannaturale della chiesa che "non può sbagliarsi nel credere" sia della grazia della parola (cf. At 2,17-18; Ap 19,10); sono altresì chiamati a far risplendere la novità e la forza del Vangelo nella loro vita quotidiana, familiare e sociale, come pure ad esprimere, con pazienza e coraggio, nelle contraddizioni dell'epoca presente la loro speranza nella gloria "anche attraverso le strutture della vita secolare".

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Per la loro appartenenza a Cristo signore e re dell'universo i fedeli laici partecipano al suo ufficio regale e sono da lui chiamati al servizio del regno di Dio e alla sua diffusione nella storia. Essi vivono la regalità cristiana, anzitutto mediante il combattimento spirituale per vincere in se stessi il regno del peccato( cf. Rm 6,12), e poi mediante il dono di sé per servire, nella carità e nella giustizia, Gesù stesso presente in tutti i suoi fratelli, soprattutto nei più piccoli (cf. Mt 25,40). Ma i fedeli laici sono chiamati in particolare a ridare alla creazione tutto il suo originario valore. Nell'ordinare il creato al vero bene dell'uomo con un'attività sorretta dalla vita di grazia, essi partecipano all'esercizio del potere con cui Gesù risorto attrae a sé tutte le cose e le sottomette, con se stesso, al Padre, così che Dio sia tutto in tutti (cf. Gv 12,32; 1Cor 15,28).

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La partecipazione dei fedeli laici al triplice ufficio di Cristo sacerdote, profeta e re trova la sua radice prima nell'unzione del battesimo, il suo sviluppo nella confermazione e il suo compimento e sostegno dinamico nell'eucaristia. E' una partecipazione donata ai singoli fedeli laici, ma in quanto formano l' unico corpo del Signore. Infatti, Gesù arricchisce dei suoi doni la chiesa stessa, quale suo corpo e sua sposa. In tal modo i singoli sono partecipi del triplice ufficio di Cristo in quanto membra della chiesa , come chiaramente insegna l'apostolo Pietro, che definisce i battezzati come "la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato" (1Pt 2,9). Proprio perché deriva dalla comunione ecclesiale, la partecipazione dei fedeli laici al triplice ufficio di Cristo esige d'essere vissuta e attuata nella comunione e per la crescita della comunione stessa. Scriveva sant'Agostino: "Come chiamiamo tutti cristiani in forza del mistico crisma, così chiamiamo tutti sacerdoti perché sono membra dell'unico sacerdote".

I fedeli laici e l'indole secolare

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15. La "novità" cristiana è il fondamento e il titolo dell'eguaglianza di tutti i battezzati in Cristo, di tutti i membri del popolo di Dio: "Comune è la dignità dei membri per la loro rigenerazione in Cristo, comune la grazia dei figli, comune la vocazione alla perfezione, una sola salvezza, una sola speranza e indivisa carità". In forza della comune dignità battesimale il fedele laico è corresponsabile, insieme con i ministri ordinati e con i religiosi e le religiose, della missione della chiesa. Ma la comune dignità battesimale assume nel fedele laico una modalità che lo distingue, senza però separarlo , dal presbitero, dal religioso e dalla religiosa. Il concilio Vaticano II ha indicato questa modalità nell'indole secolare: "L'indole secolare è propria e peculiare dei laici".

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Proprio per cogliere in modo completo, adeguato e specifico la condizione ecclesiale del fedele laico è necessario approfondire la portata teologica dell'indole secolare alla luce del disegno salvifico di Dio e del mistero della chiesa. Come diceva Paolo VI, la chiesa "ha un'autentica dimensione secolare, inerente alla sua intima natura e missione, la cui radice affonda nel mistero del Verbo incarnato, e che è realizzata in forme diverse per i suoi membri".

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La chiesa, infatti, vive nel mondo anche se non è del mondo (cf. Gv 17,16) ed è mandata a continuare l'opera redentrice di Gesù Cristo, la quale "mentre per natura sua ha come fine la salvezza degli uomini, abbraccia pure la instaurazione di tutto l'ordine temporale". Certamente tutti i membri della chiesa sono partecipi della sua dimensione secolare; ma lo sono in forme diverse. In particolare la partecipazione dei fedeli laici ha una sua modalità di attuazione e di funzione che, secondo il concilio, è loro "propria e peculiare": tale modalità viene designata con l'espressione "indole secolare".

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In realtà il concilio descrive la condizione secolare dei fedeli laici indicandola, anzitutto, come il luogo nel quale viene loro rivolta la chiamata di Dio: " Ivi sono da Dio chiamati ". Si tratta di un "luogo" presentato in termini dinamici: i fedeli laici "vivono nel secolo, cioè implicati in tutti e singoli gli impieghi e gli affari del mondo e nelle ordinarie condizioni della vita familiare e sociale, di cui la loro esistenza è come intessuta". Essi sono persone che vivono la vita normale nel mondo, studiano, lavorano, stabiliscono rapporti amicali, sociali, professionali, culturali, ecc. Il concilio considera la loro condizione non semplicemente come un dato esteriore e ambientale, bensì come una realtà destinata a trovare in Gesù Cristo la pienezza del suo significato. Anzi afferma che "lo stesso Verbo incarnato volle essere partecipe della convivenza umana... Santificò le relazioni umane, innanzitutto quelle familiari, dalle quali traggono origine i rapporti sociali, volontariamente sottomettendosi alle leggi della sua patria. Volle condurre la vita di un lavoratore del suo tempo e della sua regione".

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Il " mondo " diventa così l'ambito e il mezzo della vocazione cristiana dei fedeli laici , perché esso stesso è destinato a glorificare Dio Padre in Cristo. Il concilio può allora indicare il senso proprio e peculiare della vocazione divina rivolta ai fedeli laici. Non sono chiamati ad abbandonare la posizione ch'essi hanno nel mondo. Il battesimo non li toglie affatto dal mondo, come rileva l'apostolo Paolo: "Ciascuno, fratelli, rimanga davanti a Dio in quella condizione in cui era quando è stato chiamato" (1Cor 7,24); ma affida loro una vocazione che riguarda proprio la situazione intramondana: i fedeli laici, infatti, "sono da Dio chiamati a contribuire, quasi dall'interno a modo di fermento, alla santificazione del mondo mediante l'esercizio della loro funzione propria e sotto la guida dello spirito evangelico, e in questo modo a rendere visibile Cristo agli altri, principalmente con la testimonianza della loro vita e con il fulgore della fede, della speranza e della carità". Così l'essere e l'agire nel mondo sono per i fedeli laici una realtà non solo antropologica e sociologica, ma anche e specificamente teologica ed ecclesiale. Nella loro situazione intramondana, infatti, Dio manifesta il suo disegno e comunica la particolare vocazione di "cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio".

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Proprio in questa prospettiva i padri sinodali hanno detto: "L'indole secolare del fedele laico non è quindi da definirsi soltanto in senso sociologico, ma soprattutto in senso teologico. La caratteristica secolare va intesa alla luce dell'atto creativo e redentivo di Dio, che ha affidato il mondo agli uomini e alle donne, perché essi partecipino all'opera della creazione, liberino la creazione stessa dall'influsso del peccato e santifichino se stessi nel matrimonio o nella vita celibe, nella famiglia, nella professione e nelle varie attività sociali". La condizione ecclesiale dei fedeli laici viene radicalmente definita dalla loro novità cristiana e caratterizzata dalla loro indole secolare.

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Le immagini evangeliche del sale, della luce e del lievito, pur riguardando indistintamente tutti i discepoli di Gesù, trovano una specifica applicazione ai fedeli laici. Sono immagini splendidamente significative, perché dicono non solo l'inserimento profondo e la partecipazione piena dei fedeli laici nella terra, nel mondo, nella comunità umana; ma anche e soprattutto la novità e l'originalità di un inserimento e di una partecipazione destinati alla diffusione del Vangelo che salva.

Chiamati alla santità

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16. La dignità dei fedeli laici ci si rivela in pienezza se consideriamo la prima e fondamentale vocazione che il Padre in Gesù Cristo per mezzo dello Spirito rivolge a ciascuno di loro: la vocazione alla santità, ossia alla perfezione della carità. Il santo è la testimonianza più splendida della dignità conferita al discepolo di Cristo. Sull'universale vocazione alla santità ha avuto parole luminosissime il concilio Vaticano II. Si può dire che proprio questa sia stata la consegna primaria affidata a tutti i figli e le figlie della chiesa da un concilio voluto per il rinnovamento evangelico della vita cristiana. Questa consegna non è una semplice esortazione morale, bensì un' insopprimibile esigenza del mistero della chiesa : essa è la vigna scelta, per mezzo della quale i tralci vivono e crescono con la stessa linfa santa e santificante di Cristo; è il corpo mistico, le cui membra partecipano della stessa vita di santità del capo che è Cristo; è la sposa amata dal Signore Gesù, che ha consegnato se stesso per santificarla (cf. Ef 5,25ss). Lo Spirito che santificò la natura umana di Gesù nel seno verginale di Maria (cf. Lc 1,35) è lo stesso Spirito che è dimorante e operante nella chiesa al fine di comunicarle la santità del Figlio di Dio fatto uomo.

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E' quanto mai urgente che oggi tutti i cristiani riprendano il cammino del rinnovamento evangelico, accogliendo con generosità l'invito apostolico ad "essere santi in tutta la condotta" (1Pt 1,15). Il sinodo straordinario del 1985, a vent'anni dalla conclusione del concilio, ha opportunamente insistito su questa urgenza: "Poiché la chiesa in Cristo è mistero, deve essere considerata segno e strumento di santità... I santi e le sante sempre sono stati fonte e origine di rinnovamento nelle più difficili circostanze in tutta la storia della chiesa. Oggi abbiamo grandissimo bisogno di santi, che dobbiamo implorare da Dio con assiduità".

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Tutti nella chiesa, proprio perché ne sono membri, ricevono e quindi condividono la comune vocazione alla santità. A pieno titolo, senz'alcuna differenza dagli altri membri della chiesa, ad essa sono chiamati i fedeli laici: "Tutti i fedeli di qualsiasi stato o grado sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità"; "Tutti i fedeli sono invitati e tenuti a tendere alla santità e alla perfezione del proprio stato".

1664
La vocazione alla santità affonda le sue radici nel battesimo e viene riproposta dagli altri sacramenti, principalmente dall' eucaristia : rivestiti di Gesù Cristo e abbeverati dal suo Spirito, i cristiani sono "santi" e sono, perciò, abilitati e impegnati a manifestare la santità del loro essere nella santità di tutto il loro operare. L'apostolo Paolo non si stanca di ammonire tutti i cristiani perché vivano "come si addice a santi" (Ef 5,3).

1665
La vita secondo lo Spirito, il cui frutto è la santificazione (cf. Rm 6,22; Gal 5,22), suscita ed esige da tutti e da ciascun battezzato la sequela e l'imitazione di Gesù Cristo , nell'accoglienza delle sue beatitudini, nell'ascolto e nella meditazione della parola di Dio, nella consapevole e attiva partecipazione alla vita liturgica e sacramentale della chiesa, nella preghiera individuale, familiare e comunitaria, nella fame e nella sete di giustizia, nella pratica del comandamento dell'amore in tutte le circostanze della vita e nel servizio ai fratelli, specialmente se piccoli, poveri e sofferenti.

Santificarsi nel mondo

1666
17. La vocazione dei fedeli laici alla santità comporta che la vita secondo lo Spirito si esprima in modo peculiare nel loro inserimento nelle realtà temporali e nella loro partecipazione alle attività terrene. E' ancora l'apostolo ad ammonirci: "Tutto quello che fate in parole ed opere, tutto si compia nel nome del Signore Gesù, rendendo per mezzo di lui grazie a Dio Padre" (Col 3,17). Riferendo le parole dell'apostolo ai fedeli laici, il concilio afferma categoricamente: "Né la cura della famiglia né gli altri impegni secolari devono essere estranei all'orientamento spirituale della vita". A loro volta i padri sinodali hanno detto: "L'unità della vita dei fedeli laici è di grandissima importanza: essi, infatti, debbono santificarsi nell'ordinaria vita professionale e sociale. Perché possano rispondere alla loro vocazione, dunque, i fedeli laici debbono guardare alle attività della vita quotidiana come occasione di unione con Dio e di compimento della sua volontà, e anche di servizio agli altri uomini, portandoli alla comunione con Dio in Cristo".

1667
La vocazione alla santità dev'essere percepita e vissuta dai fedeli laici, prima che come obbligo esigente e irrinunciabile, come segno luminoso dell'infinito amore del Padre che li ha rigenerati alla sua vita di santità. Tale vocazione, allora, deve dirsi una componente essenziale e inseparabile della nuova vita battesimale , e pertanto un elemento costitutivo della loro dignità. Nello stesso tempo la vocazione alla santità è intimamente connessa con la missione e con la responsabilità affidate ai fedeli laici nella chiesa e nel mondo. Infatti, già la stessa santità vissuta, che deriva dalla partecipazione alla vita di santità della chiesa, rappresenta il primo e fondamentale contributo all'edificazione della chiesa stessa, quale "comunione dei santi". Agli occhi illuminati dalla fede si spalanca uno scenario meraviglioso: quello di tantissimi fedeli laici, uomini e donne, che proprio nella vita e nelle attività d'ogni giorno, spesso inosservati o addirittura incompresi, sconosciuti ai grandi della terra ma guardati con amore dal Padre, sono gli operai instancabili che lavorano nella vigna del Signore, sono gli artefici umili e grandi- certo per la potenza della grazia di Dio - della crescita del regno di Dio nella storia.

1668
La santità, poi, deve dirsi un fondamentale presupposto e una condizione del tutto insostituibile per il compiersi della missione di salvezza nella chiesa. E' la santità della chiesa la sorgente segreta e la misura infallibile della sua operosità apostolica e del suo slancio missionario. Solo nella misura in cui la chiesa, sposa di Cristo, si lascia amare da lui e lo riama, essa diventa madre feconda nello Spirito. Riprendiamo di nuovo l'immagine biblica: lo sbocciare e l'espandersi dei tralci dipendono dal loro inserimento nella vite. "Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla" (Gv 15,4-5).

1669
E' naturale qui ricordare la solenne proclamazione di fedeli laici, uomini e donne, come beati e santi, avvenuta durante il mese del sinodo. L'intero popolo di Dio, e i fedeli laici in particolare, possono trovare ora nuovi modelli di santità e nuove testimonianze di virtù eroiche vissute nelle condizioni comuni e ordinarie dell'esistenza umana. Come hanno detto i padri sinodali: "Le chiese locali e soprattutto le cosiddette chiese più giovani debbono riconoscere attentamente fra i propri membri quegli uomini e quelle donne che hanno offerto in tali condizioni (le condizioni quotidiane del mondo e lo stato coniugale) la testimonianza della santità e che possono essere di esempio agli altri affinché, se si dia il caso, li propongano per la beatificazione e la canonizzazione".

1670
Al termine di queste riflessioni, destinate a definire la condizione ecclesiale del fedele laico, ritorna alla mente il celebre monito di san Leone Magno: " Riconosci, o cristiano, la tua dignità ". E' lo stesso monito di san Massimo, vescovo di Torino, rivolto a quanti avevano ricevuto l'unzione del santo battesimo: "Considerate l'onore che vi è fatto in questo mistero!". Tutti i battezzati sono invitati a riascoltare le parole di sant'Agostino: "Rallegriamoci e ringraziamo: siamo diventati non solo cristiani, ma Cristo... Stupite e gioite: Cristo siamo diventati!".

1671
La dignità cristiana, fonte dell'eguaglianza di tutti i membri della chiesa, garantisce e promuove lo spirito di comunione e di fraternità, e, nello stesso tempo, diventa il segreto e la forza del dinamismo apostolico e missionario dei fedeli laici. E' una dignità esigente , la dignità degli operai chiamati dal Signore a lavorare nella sua vigna: "Grava su tutti i laici - leggiamo nel concilio - il glorioso peso di lavorare, perché il divino disegno di salvezza raggiunga ogni giorno di più tutti gli uomini di tutti i tempi e di tutta la terra".

Capitolo Secondo: TUTTI TRALCI DELL'UNICA VITE LA PARTECIPAZIONE DEI FEDELI LAICI ALLA VITA DELLA CHIESA-COMUNIONE

Il mistero della chiesa-comunione

1672
18. Riascoltiamo le parole di Gesù: «Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo... Rimanete in me e io in voi » (Gv 15,1-4). Con queste semplici parole ci viene rivelata la comunione misteriosa che vincola in unità il Signore e i discepoli, Cristo e i battezzati: una comunione viva e vivificante, per la quale i cristiani non appartengono a se stessi ma sono proprietà di Cristo, come i tralci inseriti nella vite.

1673
La comunione dei cristiani con Gesù ha quale modello, fonte e meta la comunione stessa del Figlio con il Padre nel dono dello Spirito santo: uniti al Figlio nel vincolo amoroso dello Spirito, i cristiani sono uniti al Padre. Gesù continua: « Io sono la vite, voi i tralci » (Gv 15,5). Dalla comunione dei cristiani con Cristo scaturisce la comunione dei cristiani tra di loro: tutti sono tralci dell'unica vite, che è Cristo. In questa comunione fraterna il Signore Gesù indica il riflesso meraviglioso e la misteriosa partecipazione all'intima vita d'amore del Padre, del Figlio e dello Spirito santo. Per questa comunione Gesù prega: «Tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,21).

1674
Tale comunione è il mistero stesso della chiesa , come ci ricorda il concilio Vaticano II, con la celebre parola di san Cipriano: «La chiesa universale si presenta come "un popolo adunato dall'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito santo"». A questo mistero della chiesa-comunione siamo abitualmente richiamati all'inizio della celebrazione eucaristica, allorquando il sacerdote ci accoglie con il saluto dell'apostolo Paolo: «La grazia del Signore Gesù Cristo, l'amore di Dio e la comunione dello Spirito santo siano con tutti voi» (2Cor 13,13). Dopo aver delineato la «figura» dei fedeli laici nella loro dignità dobbiamo ora riflettere sulla loro missione e responsabilità nella chiesa e nel mondo: ma queste si possono comprendere adeguatamente solo nel contesto vivo della chiesa-comunione.

Il concilio e l'ecclesiologia di comunione


1675
19. E' questa l'idea centrale che di se stessa la chiesa ha riproposto nel concilio Vaticano II, come ci ha ricordato il sinodo straordinario del 1985, celebratosi a vent'anni dall'evento conciliare: «L'ecclesiologia di comunione è l'idea centrale e fondamentale nei documenti del concilio. La koinonia -comunione, fondata sulla sacra Scrittura, è tenuta in grande onore nella chiesa antica e nelle chiese orientali fino ai nostri giorni. Perciò molto è stato fatto dal concilio Vaticano II perché la chiesa come comunione fosse più chiaramente intesa e concretamente tradotta nella vita. Che cosa significa la complessa parola "comunione"? Si tratta fondamentalmente della comunione con Dio per mezzo di Gesù Cristo, nello Spirito santo. Questa comunione si ha nella parola di Dio e nei sacramenti. Il battesimo è la porta e il fondamento della comunione nella chiesa. L'eucaristia è la fonte e il culmine di tutta la vita cristiana (cf. LG 11) ( V1/313 ). La comunione del corpo eucaristico di Cristo significa e produce, cioè edifica l'intima comunione di tutti i fedeli nel corpo di Cristo che è la chiesa (cf. 1Cor 10,16s)».

1676
All'indomani del concilio così Paolo VI si rivolgeva ai fedeli: «La chiesa è una comunione. Che cosa vuol dire in questo caso: comunione? Noi vi rimandiamo al paragrafo del catechismo che parla della comunione dei santi. Chiesa vuol dire comunione dei santi. E comunione dei santi vuol dire una duplice partecipazione vitale: l'incorporazione dei cristiani nella vita di Cristo, e la circolazione della medesima carità in tutta la compagine dei fedeli, in questo mondo e nell'altro. Unione a Cristo ed in Cristo; e unione fra i cristiani, nella chiesa».

1677
Le immagini bibliche, con cui il concilio ha voluto introdurci a contemplare il mistero della chiesa, pongono in luce la realtà della chiesa-comunione nella sua inscindibile dimensione di comunione dei cristiani con Cristo e di comunione dei cristiani tra loro. Sono le immagini dell'ovile, del gregge, della vite, dell'edificio spirituale, della città santa. Soprattutto è l'immagine del corpo presentata dall'apostolo Paolo, la cui dottrina rifluisce fresca e attraente in numerose pagine del concilio. A sua volta il concilio riprende dall'intera storia della salvezza e ripropone l'immagine della chiesa come popolo di Dio : «Piacque a Dio di santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo, che lo riconoscesse nella verità e santamente lo servisse». Già nelle sue primissime righe, la costituzione Lumen gentium compendia in modo mirabile questa dottrina scrivendo: «La chiesa è in Cristo come sacramento, cioè segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano...».

1678
La realtà della chiesa-comunione è , allora, parte integrante, anzi rappresenta il contenuto centrale del «mistero» , ossia del disegno divino della salvezza dell'umanità. Per questo la comunione ecclesiale non può essere interpretata in modo adeguato se viene intesa come una realtà semplicemente sociologica e psicologica. La chiesa-comunione è il popolo «nuovo», il popolo «messianico», il popolo che «ha per capo Cristo... per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio... per legge il nuovo precetto di amare come lo stesso Cristo ci ha amati... per fine il regno di Dio (... ed è) costituito da Cristo in una comunione di vita, di carità e di verità». I vincoli che uniscono i membri del nuovo popolo tra di loro - e prima ancora con Cristo - non sono quelli della «carne» e del «sangue», bensì quelli dello spirito, più precisamente quelli dello Spirito santo, che tutti i battezzati ricevono (cf. Gl 3,1).

1679
Infatti, quello Spirito che dall'eternità vincola l'unica e indivisa Trinità, quello Spirito che «nella pienezza del tempo» (Gal 4,4) unisce indissolubilmente la carne umana al Figlio di Dio, quello stesso e identico Spirito è nel corso delle generazioni cristiane la sorgente ininterrotta e inesauribile della comunione nella e della chiesa.

Una comunione organica: diversità e complementarietà

1680
20. La comunione ecclesiale si configura, più precisamente, come una comunione «organica», analoga a quella di un corpo vivo e operante: essa, infatti, è caratterizzata dalla compresenza della diversità e della complementarietà delle vocazioni e condizioni di vita, dei ministeri, dei carismi e delle responsabilità. Grazie a questa diversità e complementarietà ogni fedele laico si trova in relazione con tutto il corpo e ad esso offre il suo proprio contributo.

1681
Sulla comunione organica del corpo mistico di Cristo insiste in modo tutto particolare l'apostolo Paolo, il cui ricco insegnamento possiamo riascoltare nella sintesi tracciata dal concilio: Gesù Cristo- leggiamo nella costituzione Lumen gentium - «comunicando il suo Spirito, costituisce misticamente come suo corpo i suoi fratelli, chiamati da tutte le genti. In quel corpo la vita di Cristo si diffonde nei credenti... Come tutte le membra del corpo umano, anche se numerose, formano un solo corpo, così i fedeli in Cristo (cf. 1Cor 12,12). Anche nell'edificazione del corpo di Cristo vige la diversità delle membra e delle funzioni. Uno è lo Spirito, il quale per l'utilità della chiesa distribuisce i suoi vari doni con magnificenza proporzionata alla sua ricchezza e alle necessità dei servizi (cf. 1Cor 12,1-11). Fra questi doni viene al primo posto la grazia degli apostoli, alla cui autorità lo stesso Spirito sottomette anche i carismatici (cf. 1Cor 14). Ed è ancora lo Spirito stesso che, con la sua forza e mediante l'intima connessione delle membra, produce e stimola la carità tra i fedeli. E quindi se un membro soffre, soffrono con esso tutte le altre membra; se un membro è onorato, ne gioiscono con esso tutte le altre membra (cf. 1Cor 12,26)».

1682
E' sempre l'unico e identico Spirito il principio dinamico della varietà e dell'unità nella chiesa e della chiesa. Leggiamo di nuovo nella costituzione Lumen gentium : «Perché poi ci rinnovassimo continuamente in lui (Cristo) (cf. Ef 4,23), ci ha dato del suo Spirito, il quale, unico e identico nel capo e nelle membra, dà a tutto il corpo la vita, l'unità e il movimento, così che i santi padri poterono paragonare la sua funzione con quella che esercita il principio vitale, cioè l'anima, nel corpo umano». E in un altro testo, particolarmente denso e prezioso per cogliere l'«organicità» propria della comunione ecclesiale anche nel suo aspetto di crescita incessante verso la perfetta comunione, il concilio scrive: «Lo Spirito dimora nella chiesa e nei cuori dei fedeli come in un tempio (cf. 1Cor 3,16; 6,19) e in essi prega e rende testimonianza dell'adozione filiale (cf. Gal 4,6; Rm 8,15-16.26). Egli guida la chiesa verso tutta intera la verità (cf. Gv 16,13), la unifica nella comunione e nel servizio, la istruisce e dirige con diversi doni gerarchici e carismatici, la abbellisce dei suoi frutti (cf. Ef 4,11-12; 1Cor 12,4; Gal 5,22). Con la forza del Vangelo fa ringiovanire la chiesa, continuamente la rinnova e la conduce alla perfetta unione con il suo sposo. Poiché lo Spirito e la sposa dicono al Signore Gesù: Vieni! (cf. Ap 22,17)».

1683
La comunione ecclesiale è, dunque , un dono, un grande dono dello Spirito santo , che i fedeli laici sono chiamati ad accogliere con gratitudine e, nello stesso tempo, a vivere con profondo senso di responsabilità. Ciò si attua concretamente mediante la loro partecipazione alla vita e alla missione della chiesa, al cui servizio i fedeli laici pongono i loro diversi e complementari ministeri e carismi.

1684
Il fedele laico «non può mai chiudersi in se stesso, isolandosi spiritualmente dalla comunità, ma deve vivere in un continuo scambio con gli altri, con un vivo senso di fraternità, nella gioia di una uguale dignità e nell'impegno di far fruttificare insieme l'immenso tesoro ricevuto in eredità. Lo Spirito del Signore dona a lui, come agli altri, molteplici carismi, lo invita a differenti ministeri e incarichi, gli ricorda, come anche lo ricorda agli altri in rapporto con lui, che tutto ciò che lo distingue non è un di più di dignità , ma una speciale e complementare abilitazione al servizio. .. Così, i carismi, i ministeri, gli incarichi ed i servizi del fedele laico esistono nella comunione e per la comunione. Sono ricchezze complementari a favore di tutti, sotto la saggia guida dei pastori».

I ministeri e i carismi, doni dello Spirito alla chiesa

1685
21. Il concilio Vaticano II presenta i ministeri e i carismi come doni dello Spirito santo per l'edificazione del corpo di Cristo e per la sua missione di salvezza nel mondo. La chiesa, infatti, è diretta e guidata dallo Spirito che elargisce diversi doni gerarchici e carismatici a tutti i battezzati chiamandoli ad essere, ciascuno a suo modo, attivi e corresponsabili. Consideriamo ora i ministeri e i carismi in diretto riferimento ai fedeli laici e alla loro partecipazione alla vita della chiesa-comunione.

Ministeri, uffici e funzioni


1686
I ministeri presenti e operanti nella chiesa sono tutti, anche se in modalità diverse, una partecipazione al ministero di Gesù Cristo, il buon pastore che dà la vita per le sue pecore (cf. Gv 10,11), il servo umile e totalmente sacrificato per la salvezza di tutti (cf. Mc 10,45). Paolo è oltremodo chiaro nel parlare della costituzione ministeriale delle chiese apostoliche. Nella Prima lettera ai Corinzi scrive: «Alcuni Dio li ha posti nella chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri...» (1Cor 12,28). Nella Lettera agli Efesini leggiamo: «A ciascuno di noi è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo... E' lui che ha dato da una parte gli apostoli, d'altra parte i profeti, gli evangelisti, i pastori e i maestri, per rendere idonei i fratelli a compiere il ministero, al fine di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all'unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo» (Ef 4,7.11-13; cf. Rm 12,4-8). Come appare da questi e da altri testi del Nuovo Testamento, i ministeri, come pure i doni e i compiti ecclesiali, sono molteplici e diversi.

I ministeri derivanti dall'ordine

1687
22. Nella chiesa si trovano, in primo luogo, i ministeri ordinati , ossia i ministeri che derivano dal sacramento dell'ordine. Il Signore Gesù, infatti, ha scelto e costituito gli apostoli, seme del popolo della nuova alleanza e origine della sacra gerarchia, affidando loro il mandato di fare discepole tutte le genti (cf. Mt 28,19), di formare e di reggere il popolo sacerdotale. La missione degli apostoli, che il Signore Gesù continua a trasmettere ai pastori del suo popolo, è un vero servizio, significativamente chiamato nella sacra Scrittura « diakonia », ossia servizio, ministero. Nella ininterrotta successione apostolica i ministri ricevono il carisma dello Spirito santo dal Cristo risorto mediante il sacramento dell'ordine: ricevono così l'autorità e il potere sacro di agire «nella persona di Cristo capo» per servire la chiesa e per radunarla nello Spirito santo per mezzo del Vangelo e dei sacramenti.

1688
I ministeri ordinati, prima ancora che per le persone che li ricevono, sono una grazia per l'intera chiesa. Essi esprimono e attuano una partecipazione al sacerdozio di Gesù Cristo che è diversa, non solo per grado ma per essenza, dalla partecipazione donata con il battesimo e con la confermazione a tutti i fedeli. D'altra parte il sacerdozio ministeriale, come ha ricordato il concilio Vaticano II, è essenzialmente finalizzato al sacerdozio regale di tutti i fedeli e ad esso ordinato.

1689
Per questo, per assicurare e per far crescere la comunione nella chiesa, in particolare nell'ambito dei diversi e complementari ministeri, i pastori devono riconoscere che il loro ministero è radicalmente ordinato al servizio di tutto il popolo di Dio (cf. Eb 5,1), e, a loro volta, i fedeli laici devono riconoscere che il sacerdozio ministeriale è del tutto necessario per la loro vita e per la loro partecipazione alla missione nella chiesa.

Ministeri, uffici e funzioni dei laici


1690
23. La missione salvifica della chiesa nel mondo è attuata non solo dai ministri in virtù del sacramento dell'ordine ma anche da tutti i fedeli laici: questi, infatti, in virtù della loro condizione battesimale e della loro specifica vocazione, nella misura a ciascuno propria, partecipano all'ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo. I pastori, pertanto, devono riconoscere e promuovere i ministeri, gli uffici e le funzioni dei fedeli laici, che hanno il loro fondamento sacramentale nel battesimo e nella confermazione , nonché, per molti di loro, nel matrimonio.

1691
Quando poi la necessità o l'utilità della chiesa lo esige, i pastori possono affidare ai fedeli laici, secondo le norme stabilite dal diritto universale, alcuni compiti che sono connessi con il loro proprio ministero di pastori ma che non esigono il carattere dell'ordine. Il Codice di diritto canonico scrive: «Ove le necessità della chiesa lo suggeriscano, in mancanza di ministri, anche i laici, pur senza essere lettori o accoliti, possono supplire alcuni dei loro uffici, cioè esercitare il ministero della parola, presiedere alle preghiere liturgiche, amministrare il battesimo e distribuire la sacra comunione, secondo le disposizioni del diritto». L'esercizio però di questi compiti non fa del fedele laico un pastore : in realtà non è il compito a costituire il ministero, bensì l'ordinazione sacramentale. Solo il sacramento dell'ordine attribuisce al ministero ordinato una peculiare partecipazione all'ufficio di Cristo capo e pastore e al suo sacerdozio eterno. Il compito esercitato in veste di supplente deriva la sua legittimazione immediatamente e formalmente dalla deputazione ufficiale data dai pastori, e nella sua concreta attuazione è diretto dall'autorità ecclesiastica.

1692
La recente assemblea del sinodo ha presentato un ampio e significativo panorama della situazione ecclesiale circa i ministeri, gli uffici e le funzioni dei battezzati. I padri hanno vivamente apprezzato l'apporto apostolico dei fedeli laici, uomini e donne, in favore dell'evangelizzazione, della santificazione e dell'animazione cristiana delle realtà temporali, come pure la loro generosa disponibilità alla supplenza in situazioni di emergenza e di croniche necessità.

1693
In seguito al rinnovamento liturgico promosso dal concilio, gli stessi fedeli laici hanno acquisito più viva coscienza dei loro compiti nell'assemblea liturgica e nella sua preparazione, e si sono resi ampiamente disponibili a svolgerli: la celebrazione liturgica, infatti, è un'azione sacra non soltanto del clero, ma di tutta l'assemblea. E' naturale, pertanto, che i compiti non propri dei ministri ordinati siano svolti dai fedeli laici. Il passaggio poi da un effettivo coinvolgimento dei fedeli laici nell'azione liturgica a quello nell'annuncio della parola di Dio e nella cura pastorale è stato spontaneo.

1694
Nella stessa assemblea sinodale non sono mancati, però, insieme a quelli positivi, giudizi critici circa l'uso troppo indiscriminato del termine «ministero», la confusione e talvolta il livellamento tra il sacerdozio comune e il sacerdozio ministeriale, la scarsa osservanza di certe leggi e norme ecclesiastiche, l'interpretazione arbitraria del concetto di «supplenza», la tendenza alla «clericalizzazione» dei fedeli laici e il rischio di creare di fatto una struttura ecclesiale di servizio parallela a quella fondata sul sacramento dell'ordine.

1695
Proprio per superare questi pericoli i padri sinodali hanno insistito sulla necessità che siano espresse con chiarezza, anche servendosi di una terminologia più precisa, l'unità di missione della chiesa, alla quale partecipano tutti i battezzati, ed insieme l'essenziale diversità di ministero dei pastori, radicato nel sacramento dell'ordine, rispetto agli altri ministeri, uffici e funzioni ecclesiali, che sono radicati nei sacramenti del battesimo e della confermazione.

1696
E' necessario allora, in primo luogo, che i pastori, nel riconoscere e nel conferire ai fedeli laici i vari ministeri, uffici e funzioni, abbiano la massima cura di istruirli sulla radice battesimale di questi compiti. E' necessario poi che i pastori siano vigilanti perché si eviti un facile ed abusivo ricorso a presunte «situazioni di emergenza» o di «necessaria supplenza», là dove obiettivamente non esistono o là dove è possibile ovviarvi con una programmazione pastorale più razionale.

1697
I vari ministeri, uffici e funzioni che i fedeli laici possono legittimamente svolgere nella liturgia, nella trasmissione della fede e nelle strutture pastorali della chiesa, dovranno essere esercitati in conformità alla loro specifica vocazione laicale , diversa da quella dei sacri ministri. In tal senso, l'esortazione Evangelii nuntiandi , che tanta e benefica parte ha avuto nello stimolare la diversificata collaborazione dei fedeli laici alla vita e alla missione evangelizzatrice della chiesa, ricorda che «il campo proprio della loro attività evangelizzatrice è il mondo vasto e complicato della politica, della realtà sociale, dell'economia; così pure della cultura, delle scienze e delle arti, della vita internazionale, degli strumenti della comunicazione sociale; ed anche di altre realtà particolarmente aperte all'evangelizzazione, quali l'amore, la famiglia, l'educazione dei bambini e degli adolescenti, il lavoro professionale, la sofferenza. Più ci saranno laici penetrati di spirito evangelico, responsabili di queste realtà ed esplicitamente impegnati in esse, competenti nel promuoverle e consapevoli di dover sviluppare tutta la loro capacità cristiana spesso tenuta nascosta e soffocata, tanto più queste realtà, senza nulla perdere né sacrificare del loro coefficiente umano, ma manifestando una dimensione trascendente spesso sconosciuta, si troveranno al servizio dell'edificazione del regno di Dio, e quindi della salvezza in Gesù Cristo».

1698
Durante i lavori del sinodo i padri hanno dedicato non poca attenzione al lettorato e all' accolitato. Mentre in passato esistevano nella chiesa latina soltanto come tappe spirituali dell'itinerario verso i ministeri ordinati, con il motu proprio di Paolo VI Ministeria quaedam (15 agosto 1972) ( V4/1749 ) essi hanno ricevuto una loro autonomia e stabilità, come pure una loro possibile destinazione agli stessi fedeli laici, sia pure soltanto uomini. Nello stesso senso si esprime il nuovo Codice di diritto canonico. Ora i padri sinodali hanno espresso il desiderio che «il motu proprio Ministeria quaedam sia rivisto, tenendo conto dell'uso delle chiese locali e soprattutto indicando i criteri secondo cui debbano essere scelti i destinatari di ciascun ministero».

1699
In tal senso è stata costituita un'apposita commissione non solo per rispondere a questo desiderio espresso dai padri sinodali, ma anche e ancor più per studiare in modo approfondito i diversi problemi teologici, liturgici, giuridici e pastorali sollevati dall'attuale grande fioritura di ministeri affidati ai fedeli laici. In attesa che la commissione concluda il suo studio, perché la prassi ecclesiale dei ministeri affidata ai fedeli laici risulti ordinata e fruttuosa, dovranno essere fedelmente rispettati da tutte le chiese particolari i principi teologici sopra ricordati, in particolare la diversità essenziale tra il sacerdozio ministeriale e il sacerdozio comune e, conseguentemente, la diversità tra i ministeri derivanti dal sacramento dell'ordine e i ministeri derivanti dai sacramenti del battesimo e della confermazione.

I carismi

1700
24. Lo Spirito santo, mentre affida alla chiesa-comunione i diversi ministeri, l'arricchisce di altri particolari doni e impulsi, chiamati carismi. Possono assumere le forme più diverse, sia come espressione dell'assoluta libertà dello Spirito che li elargisce, sia come risposta alle esigenze molteplici della storia della chiesa. La descrizione e la classificazione che di questi doni fanno i testi del Nuovo Testamento sono un segno della loro grande varietà: «E a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l'utilità comune: a uno viene concesso dallo Spirito il linguaggio della sapienza; a un altro invece, per mezzo dello stesso Spirito, il linguaggio di scienza; a uno la fede per mezzo dello stesso Spirito; a un altro il dono di far guarigioni per mezzo dell'unico Spirito; a uno il potere dei miracoli, a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di distinguere gli spiriti; a un altro le varietà delle lingue; a un altro infine l'interpretazione delle lingue» (1Cor 12,7-10; cf. 1Cor 12,4-6.28-31; Rm 12,6-8; 1Pt 4,10-11). Straordinari o semplici e umili, i carismi sono grazie dello Spirito santo che hanno , direttamente o indirettamente, un'utilità ecclesiale , ordinati come sono all'edificazione della chiesa, al bene degli uomini e alle necessità del mondo.

1701
Anche ai nostri tempi non manca la fioritura di diversi carismi tra i fedeli laici, uomini e donne. Sono dati alla persona singola, ma possono anche essere condivisi da altri e in tal modo vengono continuati nel tempo come una preziosa e viva eredità, che genera una particolare affinità spirituale tra le persone. Proprio in riferimento all'apostolato dei laici il concilio Vaticano II scrive: «Per l'esercizio di tale apostolato lo Spirito santo, che opera la santificazione del popolo di Dio per mezzo del ministero e dei sacramenti, elargisce ai fedeli anche dei doni particolari (cf. 1Cor 12,7), "distribuendoli a ciascuno come vuole" (1Cor 12,11), affinché, "mettendo ciascuno a servizio degli altri la grazia ricevuta", contribuiscano anch'essi, "come buoni dispensatori delle diverse grazie ricevute da Dio" (1Pt 4,10), alla edificazione di tutto il corpo nella carità (cf. Ef 4,16)». Nella logica dell'originaria donazione da cui sono scaturiti, i doni dello Spirito esigono che quanti li hanno ricevuti li esercitino per la crescita di tutta la chiesa, come ci ricorda il concilio.

1702
I carismi vanno accolti con gratitudine : da parte di chi li riceve, ma anche da parte di tutti nella chiesa. Sono, infatti, una singolare ricchezza di grazia per la vitalità apostolica e per la santità dell'intero corpo di Cristo: purché siano doni che derivino veramente dallo Spirito e vengano esercitati in piena conformità agli impulsi autentici dello Spirito. In tal senso si rende sempre necessario il discernimento dei carismi. In realtà, come hanno detto i padri sinodali, «l'azione dello Spirito santo, che soffia dove vuole, non è sempre facile da riconoscere e da accogliere. Sappiamo che Dio agisce in tutti i fedeli cristiani e siamo coscienti dei benefici che vengono dai carismi sia per i singoli sia per tutta la comunità cristiana. Tuttavia, siamo anche coscienti della potenza del peccato e dei suoi sforzi per turbare e per confondere la vita dei fedeli e della comunità».

1703
Per questo nessun carisma dispensa dal riferimento e dalla sottomissione ai pastori della chiesa. Con chiare parole il concilio scrive: «Il giudizio sulla loro (dei carismi) genuinità e sul loro esercizio ordinato appartiene a quelli che presiedono nella chiesa, ai quali spetta specialmente, non di estinguere lo Spirito, ma di esaminare tutto e ritenere ciò che è buono (cf. 1Ts 5,12 e 19-21)», affinché tutti i cristiani cooperino, nella loro diversità e complementarietà, al bene comune.

La partecipazione dei fedeli laici alla vita della chiesa

1704
25. I fedeli laici partecipano alla vita della chiesa non solo mettendo in opera i loro compiti e carismi, ma anche in molti altri modi. Tale partecipazione trova la sua prima e necessaria espressione nella vita e missione delle chiese particolari , delle diocesi, nelle quali «è veramente presente e agisce la chiesa di Cristo, una, santa, cattolica e apostolica».

Chiese particolari e chiesa universale


1705
Per un'adeguata partecipazione alla vita ecclesiale è del tutto urgente che i fedeli laici abbiano una visione chiara e precisa della chiesa particolare nel suo originale legame con la chiesa universale. La chiesa particolare non nasce da una specie di frammentazione della chiesa universale, né la chiesa universale viene costituita dalla semplice somma delle chiese particolari; ma un vivo, essenziale e costante vincolo le unisce tra loro, in quanto la chiesa universale esiste e si manifesta nelle chiese particolari. Per questo il concilio dice che le chiese particolari sono «formate a immagine della chiesa universale, nelle quali e a partire dalle quali esiste la sola e unica chiesa cattolica».

1706
Lo stesso concilio stimola con forza i fedeli laici a vivere operosamente la loro appartenenza alla chiesa particolare, assumendo nello stesso tempo un respiro sempre più «cattolico»: «Coltivino costantemente - leggiamo nel decreto sull'apostolato dei laici - il senso della diocesi, di cui la parrocchia è come una cellula, sempre pronti, all'invito del loro pastore, ad unire anche le proprie forze alle iniziative diocesane. Anzi, per venire incontro alle necessità delle città e delle zone rurali, non limitino la loro propria cooperazione entro i confini della parrocchia o della diocesi, ma procurino di allargarla all'ambito interparrocchiale, interdiocesano, nazionale o internazionale, tanto più che il crescente spostamento delle popolazioni, lo sviluppo delle mutue relazioni e la facilità delle comunicazioni non consentono più ad alcuna parte della società di rimanere chiusa in se stessa. Così abbiano a cuore le necessità del popolo di Dio sparso su tutta la terra».

1707
Il recente sinodo ha chiesto, in tal senso, che si favorisca la creazione dei consigli pastorali diocesani , ai quali ricorrere secondo le opportunità. Si tratta, in realtà, della principale forma di collaborazione e di dialogo, come pure di discernimento, a livello diocesano. La partecipazione dei fedeli laici a questi consigli potrà ampliare il ricorso alla consultazione e il principio della collaborazione - che in certi casi è anche di decisione - verrà applicato in un modo più esteso e forte.

1708
La partecipazione dei fedeli laici nei sinodi diocesani o nei concili particolari , provinciali o plenari, è prevista dal Codice di diritto canonico; essa potrà contribuire alla comunione e alla missione ecclesiale della chiesa particolare, sia nel suo proprio ambito sia in relazione con le altre chiese particolari della provincia ecclesiastica o della conferenza episcopale. Le conferenze episcopali sono chiamate a valutare il modo più opportuno di sviluppare, a livello nazionale o regionale, la consultazione e la collaborazione dei fedeli laici, uomini e donne: si potranno così soppesare bene i problemi comuni e meglio si manifesterà la comunione ecclesiale di tutti.

La parrocchia

1709
26. La comunione ecclesiale, pur avendo sempre una dimensione universale, trova la sua espressione più immediata e visibile nella parrocchia : essa è l'ultima localizzazione della chiesa, è in un certo senso la chiesa stessa che vive in mezzo alle case dei suoi figli e delle sue figlie. E' necessario che tutti riscopriamo, nella fede, il vero volto della parrocchia, ossia il «mistero» stesso della chiesa presente e operante in essa: anche se a volte povera di persone e di mezzi, anche se altre volte dispersa su territori quanto mai vasti o quasi introvabile all'interno di popolosi e caotici quartieri moderni, la parrocchia non è principalmente una struttura, un territorio, un edificio; è piuttosto «la famiglia di Dio, come una fraternità animata dallo spirito d'unità», è «una casa di famiglia, fraterna ed accogliente», è la «comunità di fedeli». In definitiva, la parrocchia è fondata su di una realtà teologica, perché essa è una comunità eucaristica. Ciò significa che essa è una comunità idonea a celebrare l'eucaristia, nella quale stanno la radice viva del suo edificarsi e il vincolo sacramentale del suo essere in piena comunione con tutta la chiesa. Tale idoneità si radica nel fatto che la parrocchia è una comunità di fede e una comunità organica , ossia costituita dai ministri ordinati e dagli altri cristiani, nella quale il parroco - che rappresenta il vescovo diocesano - è il vincolo gerarchico con tutta la chiesa particolare.

1710
E' certamente immane il compito della chiesa ai nostri giorni e ad assolverlo non può certo bastare la parrocchia da sola. Per questo il Codice di diritto canonico prevede forme di collaborazione tra parrocchie nell'ambito del territorio e raccomanda al vescovo la cura di tutte le categorie di fedeli, anche di quelle che non sono raggiunte dalla cura pastorale ordinaria. Infatti, molti luoghi e forme di presenza e di azione sono necessari per recare la parola e la grazia del Vangelo nelle svariate condizioni di vita degli uomini d'oggi, e molte altre funzioni di irradiazione religiosa e d'apostolato d'ambiente, nel campo culturale, sociale, educativo, professionale, ecc., non possono avere come centro o punto di partenza la parrocchia. Eppure anche oggi la parrocchia vive una nuova e promettente stagione. Come diceva Paolo VI, all'inizio del suo pontificato, rivolgendosi al clero romano: «Crediamo semplicemente che questa antica e venerata struttura della parrocchia ha una missione indispensabile e di grande attualità; ad essa spetta creare la prima comunità del popolo cristiano; ad essa iniziare e raccogliere il popolo nella normale espressione della vita liturgica; ad essa conservare e ravvivare la fede nella gente d'oggi; ad essa fornirle la scuola della dottrina salvatrice di Cristo; ad essa praticare nel sentimento e nell'opera l'umile carità delle opere buone e fraterne».

1711
I padri sinodali, dal canto loro, hanno attentamente considerato l'attuale situazione di molte parrocchie, sollecitando un loro più deciso rinnovamento: «Molte parrocchie, sia in regioni urbanizzate sia in territorio missionario, non possono funzionare con pienezza effettiva per la mancanza di mezzi materiali o di uomini ordinati, o anche per l'eccessiva estensione geografica e per la speciale condizione di alcuni cristiani (come, per esempio, gli esuli e gli emigranti). Perché tutte queste parrocchie siano veramente comunità cristiane, le autorità locali devono favorire: a ) l'adattamento delle strutture parrocchiali con la flessibilità ampia concessa dal diritto canonico, soprattutto promuovendo la partecipazione dei laici alle responsabilità pastorali; b ) le piccole comunità ecclesiali di base, dette anche comunità vive, dove i fedeli possano comunicarsi a vicenda la parola di Dio ed esprimersi nel servizio e nell'amore; queste comunità sono vere espressioni della comunione ecclesiale e centri di evangelizzazione, in comunione con i loro pastori». Per il rinnovamento delle parrocchie e per meglio assicurare la loro efficacia operativa si devono favorire forme anche istituzionali di cooperazione tra le diverse parrocchie di un medesimo territorio.

L'impegno apostolico nella parrocchia

1712
27. E' necessario ora considerare più da vicino la comunione e la partecipazione dei fedeli laici alla vita della parrocchia. In tal senso è da richiamarsi l'attenzione di tutti i fedeli laici, uomini e donne, su di una parola tanto vera, significativa e stimolante del concilio: «All'interno delle comunità della chiesa - leggiamo nel decreto sull'apostolato dei laici - la loro azione è talmente necessaria che senza di essa lo stesso apostolato dei pastori non può per lo più raggiungere la sua piena efficacia». E', questa, un'affermazione radicale, che dev'essere evidentemente intesa nella luce della «ecclesiologia di comunione»: essendo diversi e complementari, i ministeri e i carismi sono tutti necessari alla crescita della chiesa, ciascuno secondo la propria modalità.

1713
I fedeli laici devono essere sempre più convinti del particolare significato che assume l'impegno apostolico nella loro parrocchia. E' ancora il concilio a rilevarlo autorevolmente: «La parrocchia offre un luminoso esempio di apostolato comunitario, fondendo insieme tutte le differenze umane che vi si trovano e inserendole nell'universalità della chiesa. Si abituino i laici a lavorare nella parrocchia intimamente uniti ai loro sacerdoti, ad esporre alla comunità della chiesa i propri problemi e quelli del mondo e le questioni che riguardano la salvezza degli uomini, perché siano esaminati e risolti con il concorso di tutti; a dare, secondo le proprie possibilità, il loro contributo ad ogni iniziativa apostolica e missionaria della propria famiglia ecclesiastica».

1714
L'accenno conciliare all'esame e alla risoluzione dei problemi pastorali «con il concorso di tutti» deve trovare il suo adeguato e strutturato sviluppo nella valorizzazione più convinta, ampia e decisa dei consigli pastorali parrocchiali , sui quali hanno giustamente insistito i padri sinodali. Nelle circostanze attuali i fedeli laici possono e devono fare moltissimo per la crescita di un'autentica comunione ecclesiale all'interno delle loro parrocchie e per ridestare lo slancio missionario verso i non credenti e verso gli stessi credenti che hanno abbandonato o affievolito la pratica della vita cristiana.

1715
Se la parrocchia è la chiesa posta in mezzo alle case degli uomini, essa vive e opera profondamente inserita nella società umana e intimamente solidale con le sue aspirazioni e i suoi drammi. Spesso il contesto sociale, soprattutto in certi paesi e ambienti, è violentemente scosso da forze di disgregazione e di disumanizzazione: l'uomo è smarrito e disorientato, ma nel cuore gli rimane sempre più il desiderio di poter sperimentare e coltivare rapporti più fraterni e più umani. La risposta a tale desiderio può venire dalla parrocchia, quando questa, con la viva partecipazione dei fedeli laici, rimane coerente alla sua originaria vocazione e missione: essere nel mondo «luogo» della comunione dei credenti e insieme «segno» e «strumento» della vocazione di tutti alla comunione; in una parola, essere la casa aperta a tutti e al servizio di tutti o, come amava dire il papa Giovanni XXIII, la fontana del villaggio alla quale tutti ricorrono per la loro sete.

Forme di partecipazione nella vita della chiesa

1716
28. I fedeli laici, unitamente ai sacerdoti, ai religiosi e alle religiose, formano l'unico popolo di Dio e corpo di Cristo. L'essere «membri» della chiesa nulla toglie al fatto che ciascun cristiano sia un essere «unico e irripetibile», bensì garantisce e promuove il senso più profondo della sua unicità e irripetibilità, in quanto fonte di varietà e di ricchezza per l'intera chiesa. In tal senso Dio in Gesù Cristo chiama ciascuno col proprio inconfondibile nome. L'appello del Signore: «Andate anche voi nella mia vigna» si rivolge a ciascuno personalmente e suona: «Vieni anche tu nella mia vigna!».

1717
Così ciascuno nella sua unicità e irripetibilità, con il suo essere e con il suo agire, si pone al servizio della crescita della comunione ecclesiale, come peraltro singolarmente riceve e fa sua la comune ricchezza di tutta la chiesa. E' questa la «comunione dei santi», da noi professata nel Credo: il bene di tutti diventa il bene di ciascuno e il bene di ciascuno diventa il bene di tutti. «Nella santa chiesa - scrive san Gregorio Magno - ognuno è sostegno degli altri e gli altri sono suo sostegno».

Forme personali di partecipazione

1718
E' del tutto necessario che ciascun fedele laico abbia sempre viva coscienza di essere un «membro della chiesa» , al quale è affidato un compito originale insostituibile e indelegabile, da svolgere per il bene di tutti. In una simile prospettiva assume tutto il suo significato l'affermazione conciliare circa l'assoluta necessità dell'apostolato della singola persona : «L'apostolato che i singoli devono svolgere, sgorgando abbondantemente dalla fonte di una vita veramente cristiana (cf. Gv 4,14), è la prima forma e la condizione di ogni apostolato dei laici, anche di quello associato, ed è insostituibile. A tale apostolato, sempre e dovunque proficuo, ma in certe circostanze l'unico adatto e possibile, sono chiamati e obbligati tutti i laici, di qualsiasi condizione, anche se manca loro l'occasione o la possibilità di collaborare nelle associazioni».

1719
Nell'apostolato personale ci sono grandi ricchezze che chiedono di essere scoperte per un'intensificazione del dinamismo missionario di ciascun fedele laico. Con tale forma di apostolato, l'irradiazione del Vangelo può farsi quanto mai capillare , giungendo a tanti luoghi e ambienti quanti sono quelli legati alla vita quotidiana e concreta dei laici. Si tratta, inoltre, di un'irradiazione costante , essendo legata alla continua coerenza della vita personale con la fede; come pure di un'irradiazione particolarmente incisiva , perché, nella piena condivisione delle condizioni di vita, del lavoro, delle difficoltà e speranze dei fratelli, i fedeli laici possono giungere al cuore dei loro vicini o amici o colleghi, aprendolo all'orizzonte totale, al senso pieno dell'esistenza: la comunione con Dio e tra gli uomini.

Forme aggregative di partecipazione

1720
29. La comunione ecclesiale, già presente e operante nell'azione della singola persona, trova una sua specifica espressione nell'operare associato dei fedeli laici, ossia nell'azione solidale da essi svolta nel partecipare responsabilmente alla vita e alla missione della chiesa. In questi ultimi tempi il fenomeno dell'aggregarsi dei laici tra loro è venuto ad assumere caratteri di particolare varietà e vivacità. Se sempre nella storia della chiesa l'aggregarsi dei fedeli ha rappresentato in qualche modo una linea costante, come testimoniano sino ad oggi le varie confraternite, i terzi ordini e i diversi sodalizi, esso ha però ricevuto uno speciale impulso nei tempi moderni, che hanno visto il nascere e il diffondersi di molteplici forme aggregative: associazioni, gruppi, comunità, movimenti. Possiamo parlare di una nuova stagione aggregativa dei fedeli laici. Infatti, «accanto all'associazionismo tradizionale, e talvolta alle sue stesse radici, sono germogliati movimenti e sodalizi nuovi, con fisionomia e finalità specifiche: tanta è la ricchezza e la versatilità delle risorse che lo Spirito alimenta nel tessuto ecclesiale, e tanta è pure la capacità d'iniziativa e la generosità del nostro laicato».

1721
Queste aggregazioni di laici si presentano spesso assai diverse le une dalle altre in vari aspetti, come la configurazione esteriore, i cammini e metodi educativi, e i campi operativi. Trovano però le linee di un'ampia e profonda convergenza nella finalità che le anima: quella di partecipare responsabilmente alla missione della chiesa di portare il Vangelo di Cristo come fonte di speranza per l'uomo e di rinnovamento per la società.

1722
L'aggregarsi dei fedeli laici per motivi spirituali e apostolici scaturisce da più fonti e corrisponde ad esigenze diverse: esprime, infatti, la natura sociale della persona e obbedisce all'istanza di una più vasta ed incisiva efficacia operativa. In realtà, l'incidenza «culturale», sorgente e stimolo ma anche frutto e segno di ogni altra trasformazione dell'ambiente e della società, può realizzarsi solo con l'opera non tanto dei singoli quanto di un «soggetto sociale», ossia di un gruppo, di una comunità, di un'associazione, di un movimento. Ciò è particolarmente vero nel contesto della società pluralistica e frantumata - com'è quella attuale in tante parti del mondo - e di fronte a problemi divenuti enormemente complessi e difficili. D'altra parte, soprattutto in un mondo secolarizzato, le varie forme aggregative possono rappresentare per tanti un aiuto prezioso per una vita cristiana coerente alle esigenze del Vangelo e per un impegno missionario e apostolico.

1723
Al di là di questi motivi, la ragione profonda che giustifica ed esige l'aggregarsi dei fedeli laici è di ordine teologico: è una ragione ecclesiologica , come apertamente riconosce il concilio Vaticano II che indica nell'apostolato associato un « segno della comunione e dell'unità della chiesa in Cristo ». E' un «segno» che deve manifestarsi nei rapporti di «comunione» sia all'interno che all'esterno delle varie forme aggregative nel più ampio contesto della comunità cristiana. Proprio la ragione ecclesiologica indicata spiega, da un lato il «diritto» di aggregazione proprio dei fedeli laici, dall'altro lato la necessità di «criteri» di discernimento circa l'autenticità ecclesiale delle loro forme aggregative.

1724
E' anzitutto da riconoscersi la libertà associativa dei fedeli laici nella chiesa. Tale libertà è un vero e proprio diritto che non deriva da una specie di «concessione» dell'autorità, ma che scaturisce dal battesimo, quale sacramento che chiama i fedeli laici a partecipare attivamente alla comunione e alla missione della chiesa. Al riguardo è del tutto chiaro il concilio: «Salva la dovuta relazione con l'autorità ecclesiastica, i laici hanno il diritto di creare e guidare associazioni e dare nome a quelle fondate». E il recente codice testualmente afferma: «I fedeli hanno il diritto di fondare e di dirigere liberamente associazioni che si propongano un fine di carità o di pietà, oppure associazioni che si propongano l'incremento della vocazione cristiana nel mondo; hanno anche il diritto di tenere riunioni per il raggiungimento comune di tali finalità».

1725
Si tratta di una libertà riconosciuta e garantita dall'autorità ecclesiastica e che dev'essere esercitata sempre e solo nella comunione della chiesa: in tal senso il diritto dei fedeli laici ad aggregarsi è essenzialmente relativo alla vita di comunione e alla missione della chiesa stessa.

Criteri di ecclesialità per le aggregazioni laicali

1726
30. E' sempre nella prospettiva della comunione e della missione della chiesa, e dunque non in contrasto con la libertà associativa, che si comprende la necessità di criteri chiari e precisi di discernimento e di riconoscimento delle aggregazioni laicali, detti anche «criteri di ecclesialità». Come criteri fondamentali per il discernimento di ogni e qualsiasi aggregazione dei fedeli laici nella chiesa si possono considerare, in modo unitario, i seguenti:

1727
- Il primato dato alla vocazione di ogni cristiano alla santità , manifestata «nei frutti della grazia che lo Spirito produce nei fedeli» come crescita verso la pienezza della vita cristiana e la perfezione della carità. In tal senso ogni e qualsiasi aggregazione di fedeli laici è chiamata ad essere sempre più strumento di santità nella chiesa, favorendo e incoraggiando «una più intima unità tra la vita pratica dei membri e la loro fede».

1728
- La responsabilità di confessare la fede cattolica , accogliendo e proclamando la verità su Cristo, sulla chiesa e sull'uomo in obbedienza al magistero della chiesa, che autenticamente la interpreta. Per questo ogni aggregazione di fedeli laici dev'essere luogo di annuncio e di proposta della fede e di educazione ad essa nel suo integrale contenuto.

1729
- La testimonianza di una comunione salda e convinta , in relazione filiale con il papa, perpetuo e visibile centro dell'unità della chiesa universale, e con il vescovo «principio visibile e fondamento dell'unità» della chiesa particolare, e nella stima vicendevole fra tutte le forme di apostolato nella chiesa». La comunione con il papa e con il vescovo è chiamata ad esprimersi nella leale disponibilità ad accogliere i loro insegnamenti dottrinali e orientamenti pastorali. La comunione ecclesiale esige, inoltre, il riconoscimento della legittima pluralità delle forme aggregative dei fedeli laici nella chiesa e, nello stesso tempo, la disponibilità alla loro reciproca collaborazione.

1730
- La conformità e la partecipazione al fine apostolico della chiesa , ossia «l'evangelizzazione e la santificazione degli uomini e la formazione cristiana della loro coscienza, in modo che riescano a permeare di spirito evangelico le varie comunità e i vari ambienti». In questa prospettiva, da tutte le forme aggregative di fedeli laici, e da ciascuna di esse, è richiesto uno slancio missionario che le renda sempre più soggetti di una nuova evangelizzazione.

1731
- L'impegno di una presenza nella società umana che, alla luce della dottrina sociale della chiesa, si ponga a servizio della dignità integrale dell'uomo. In tal senso le aggregazioni dei fedeli laici devono diventare correnti vive di partecipazione e di solidarietà per costruire condizioni più giuste e fraterne all'interno della società.

1732
I criteri fondamentali ora esposti trovano la loro verifica nei frutti concreti che accompagnano la vita e le opere delle diverse forme associative quali: il gusto rinnovato per la preghiera, la contemplazione, la vita liturgica e sacramentale; l'animazione per il fiorire di vocazioni al matrimonio cristiano, al sacerdozio ministeriale, alla vita consacrata; la disponibilità a partecipare ai programmi e alle attività della chiesa a livello sia locale sia nazionale o internazionale; l'impegno catechetico e la capacità pedagogica nel formare i cristiani; l'impulso a una presenza cristiana nei diversi ambienti della vita sociale e la creazione e animazione di opere caritative, culturali e spirituali; lo spirito di distacco e di povertà evangelica per una più generosa carità verso tutti; la conversione alla vita cristiana o il ritorno alla comunione di battezzati «lontani».

Il servizio dei pastori per la comunione

1733
31. I pastori nella chiesa, sia pure di fronte a possibili e comprensibili difficoltà di alcune forme aggregative e all'imporsi di nuove forme, non possono rinunciare al servizio della loro autorità, non solo per il bene della chiesa, ma anche per il bene delle stesse aggregazioni laicali. In tal senso devono accompagnare l'opera di discernimento con la guida e soprattutto con l'incoraggiamento per una crescita delle aggregazioni dei fedeli laici nella comunione e nella missione della chiesa.

1734
E' oltremodo opportuno che alcune nuove associazioni e alcuni nuovi movimenti, per la loro diffusione spesso nazionale o anche internazionale, abbiano a ricevere un riconoscimento ufficiale , un'approvazione esplicita della competente autorità ecclesiastica. In questo senso già il concilio affermava: «L'apostolato dei laici ammette certo vari tipi di rapporti con la gerarchia secondo le diverse forme e oggetti dell'apostolato stesso... Alcune forme di apostolato dei laici vengono in vari modi esplicitamente riconosciute dalla gerarchia. L'autorità ecclesiastica, per le esigenze del bene comune della chiesa, fra le associazioni e iniziative apostoliche aventi un fine immediatamente spirituale, può inoltre sceglierne in modo particolare e promuoverne alcune per le quali assume una speciale responsabilità».

1735
Tra le diverse forme apostoliche dei laici che hanno un particolare rapporto con la gerarchia i padri sinodali hanno esplicitamente ricordato vari movimenti e associazioni di Azione cattolica , in cui «i laici si associano liberamente in forma organica e stabile, sotto la spinta dello Spirito santo, nella comunione con il vescovo e con i sacerdoti, per poter servire, nel modo proprio della loro vocazione, con un particolare metodo, all'incremento di tutta la comunità cristiana, ai progetti pastorali e all'animazione evangelica di tutti gli ambiti della vita, con fedeltà e operosità».

1736
Il Pontificio consiglio per i laici è incaricato di preparare un elenco delle associazioni che ricevono l'approvazione ufficiale della Santa Sede e di definire, insieme al Pontificio consiglio per l'unione dei cristiani, le condizioni in base alle quali può essere approvata un'associazione ecumenica in cui la maggioranza sia cattolica e una minoranza non cattolica, stabilendo anche in quali casi non si può dare un giudizio positivo.

1737
Tutti, pastori e fedeli, siamo obbligati a favorire e ad alimentare di continuo vincoli e rapporti fraterni di stima, di cordialità, di collaborazione tra le varie forme aggregative di laici. Solo così la ricchezza dei doni e dei carismi che il Signore ci offre può portare il suo fecondo e ordinato contributo all'edificazione della casa comune: «Per la solidale edificazione della casa comune è necessario, inoltre, che sia deposto ogni spirito di antagonismo e di contesa, e che si gareggi piuttosto nello stimarsi a vicenda (cf. Rm 12,10), nel prevenirsi reciprocamente nell'affetto e nella volontà di collaborazione, con la pazienza, la lungimiranza, la disponibilità al sacrificio che ciò potrà talvolta comportare».

1738
Ritorniamo ancora una volta alle parole di Gesù: «Io sono la vite, voi i tralci» (Gv 15,5), per rendere grazie a Dio del grande dono della comunione ecclesiale, riflesso nel tempo dell'eterna e ineffabile comunione d'amore di Dio uno e trino. La coscienza del dono si deve accompagnare ad un forte senso di responsabilità : è, infatti, un dono che, come il talento evangelico, esige d'essere trafficato in una vita di crescente comunione. 1739 Essere responsabili del dono della comunione significa, anzitutto, essere impegnati a vincere ogni tentazione di divisione e di contrapposizione, che insidia la vita e l'impegno apostolico dei cristiani. Il grido di dolore e di sconcerto dell'apostolo Paolo: «Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: "Io sono di Paolo", "Io invece sono di Apollo", "E io di Cefa", "E io di Cristo!". Cristo è stato forse diviso?» (1Cor 1,12-13) continua a suonare come rimprovero per le «lacerazioni del corpo di Cristo». Risuonino, invece, come appello persuasivo queste altre parole dell'apostolo: «Vi esorto, fratelli, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo, ad essere unanimi nel parlare, perché non vi siano divisioni tra voi, ma siate in perfetta unione di pensiero e d'intenti» (1Cor 1,10).

1740
Così la vita di comunione ecclesiale diventa un segno per il mondo e una forza attrattiva che conduce a credere in Cristo: «Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,21). In tal modo la comunione si apre alla missione , si fa essa stessa missione.

Capitolo Terzo: VI HO COSTITUITI PERCHE ANDIATE E PORTIATE FRUTTO  LA CORRESPONSABILITA' DEI FEDELI LAICI NELLA CHIESA-MISSIONE

Comunione missionaria

1741
32. Riprendiamo l'immagine biblica della vite e dei tralci. Essa ci apre, in modo immediato e naturale, alla considerazione della fecondità e della vita. Radicati e vivificati dalla vite, i tralci sono chiamati a portare frutto: «Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui fa molto frutto » (Gv 15,5). Portare frutto è un'esigenza essenziale della vita cristiana ed ecclesiale. Chi non porta frutto non rimane nella comunione: «Ogni tralcio che in me non porta frutto, (il Padre mio) lo toglie» (Gv 15,2). La comunione con Gesù, dalla quale deriva la comunione dei cristiani tra loro, è condizione indispensabile per portare frutto: «Senza di me non potete far nulla» (Gv 15,5). E la comunione con gli altri è il frutto più bello che i tralci possono dare: essa, infatti, è dono di Cristo e del suo Spirito.

1742
Ora la comunione genera comunione , e si configura essenzialmente come comunione missionaria. Gesù, infatti, dice ai suoi discepoli: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga» (Gv 15,16). La comunione e la missione sono profondamente congiunte tra loro, si compenetrano e si implicano mutuamente, al punto che la comunione rappresenta la sorgente e insieme il frutto della missione: la comunione è missionaria e la missione è per la comunione. E' sempre l'unico e identico Spirito colui che convoca e unisce la chiesa e colui che la manda a predicare il Vangelo «fino agli estremi confini della terra» (At 1,8). Da parte sua, la chiesa sa che la comunione, ricevuta in dono, ha una destinazione universale. Così la chiesa si sente debitrice all'umanità intera e a ciascun uomo del dono ricevuto dallo Spirito che effonde nei cuori dei credenti la carità di Gesù Cristo, prodigiosa forza di coesione interna ed insieme di espansione esterna. La missione della chiesa deriva dalla sua stessa natura, così come Cristo l'ha voluta: quella di «segno e strumento... di unità di tutto il genere umano». Tale missione ha lo scopo di far conoscere e di far vivere a tutti la «nuova» comunione che nel Figlio di Dio fatto uomo è entrata nella storia del mondo. In tal senso la testimonianza dell'evangelista Giovanni definisce oramai in modo irrevocabile il termine beatificante al quale punta l'intera missione della chiesa: «Quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo» (1Gv 1,3).

1743
Ora nel contesto della missione della chiesa il Signore affida ai fedeli laici, in comunione con tutti gli altri membri del popolo di Dio, una grande parte di responsabilità. Ne erano pienamente consapevoli i padri del concilio Vaticano II: «I sacri pastori, infatti, sanno benissimo quanto contribuiscano i laici al bene di tutta la chiesa. Sanno di non essere stati istituiti da Cristo per assumersi da soli tutta la missione della salvezza che la chiesa ha ricevuto nei confronti del mondo, ma che il loro magnifico incarico è di pascere i fedeli e di riconoscere i loro servizi e i loro carismi, in modo che tutti concordemente cooperino, nella loro misura, all'opera comune». La loro consapevolezza è ritornata poi, con rinnovata chiarezza e con vigore accresciuto, in tutti i lavori del sinodo.

Annunciare il Vangelo

1744
33. I fedeli laici, proprio perché membri della chiesa, hanno la vocazione e la missione di essere annunciatori del Vangelo: per quest'opera sono abilitati e impegnati dai sacramenti dell'iniziazione cristiana e dai doni dello Spirito santo. Leggiamo in un testo limpido e denso del concilio Vaticano II: «In quanto partecipi dell'ufficio di Cristo sacerdote, profeta e re, i laici hanno la loro parte attiva nella vita e nell'azione della chiesa( ...). Nutriti dell'attiva partecipazione alla vita liturgica della propria comunità, partecipano con sollecitudine alle opere apostoliche della medesima; conducono alla chiesa gli uomini che forse ne vivono lontani; cooperano con dedizione nel comunicare la parola di Dio, specialmente mediante l'insegnamento del catechismo; mettendo a disposizione la loro competenza rendono più efficace la cura delle anime ed anche l'amministrazione dei beni della chiesa».

1745
Ora è nell' evangelizzazione che si concentra e si dispiega l'intera missione della chiesa, il cui cammino storico si snoda sotto la grazia e il comando di Gesù Cristo: «Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura» (Mc 16,15); «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). «Evangelizzare - scrive Paolo VI - è la grazia e la vocazione propria della chiesa, la sua identità più profonda». Dall'evangelizzazione la chiesa viene costruita e plasmata come comunione di fede: più precisamente, come comunità di una fede confessata nell'adesione alla parola di Dio, celebrata nei sacramenti, vissuta nella carità, quale anima dell'esistenza morale cristiana. Infatti, la «buona novella» tende a suscitare nel cuore e nella vita dell'uomo la conversione e l'adesione personale a Gesù Cristo salvatore e Signore; dispone al battesimo e all'eucaristia e si consolida nel proposito e nella realizzazione della vita nuova secondo lo Spirito.

1746
Certamente l'imperativo di Gesù: «Andate e predicate il vangelo» mantiene sempre vivo il suo valore ed è carico di un'urgenza intramontabile. Tuttavia la situazione attuale , non solo del mondo ma anche di tante parti della chiesa, esige assolutamente che la parola di Cristo riceva un'obbedienza più pronta e generosa. Ogni discepolo è chiamato in prima persona; nessun discepolo può sottrarsi nel dare la sua propria risposta: «Guai a me, se non predicassi il vangelo!» (1Cor 9,16).

L'ora è venuta per intraprendere una nuova evangelizzazione

1747
34. Interi paesi e nazioni, dove la religione e la vita cristiana erano un tempo quanto mai fiorenti e capaci di dar origine a comunità di fede viva e operosa, sono ora messi a dura prova, e talvolta sono persino radicalmente trasformati, dal continuo diffondersi dell'indifferentismo, del secolarismo e dell'ateismo. Si tratta, in particolare, dei paesi e delle nazioni del cosiddetto primo mondo, nel quale il benessere economico e il consumismo, anche se frammisti a paurose situazioni di povertà e di miseria, ispirano e sostengono una vita vissuta «come se Dio non esistesse». Ora l'indifferenza religiosa e la totale insignificanza pratica di Dio per i problemi anche gravi della vita non sono meno preoccupanti ed eversive rispetto all'ateismo dichiarato. E anche la fede cristiana, se pure sopravvive in alcune sue manifestazioni tradizionali e ritualistiche, tende ad essere sradicata dai momenti più significativi dell'esistenza, quali sono i momenti del nascere, del soffrire e del morire. Di qui l'imporsi di interrogativi e di enigmi formidabili che, rimanendo senza risposta, espongono l'uomo contemporaneo alla delusione sconsolata o alla tentazione di eliminare la stessa vita umana che quei problemi pone.

1748
In altre regioni o nazioni, invece, si conservano tuttora molto vive tradizioni di pietà e di religiosità popolare cristiana; ma questo patrimonio morale e spirituale rischia oggi d'essere disperso sotto l'impatto di molteplici processi, tra i quali emergono la secolarizzazione e la diffusione delle sette. Solo una nuova evangelizzazione può assicurare la crescita di una fede limpida e profonda, capace di fare di queste tradizioni una forza di autentica libertà. Certamente urge dovunque rifare il tessuto cristiano della società umana. Ma la condizione è che si rifaccia il tessuto cristiano delle stesse comunità ecclesiali che vivono in questi paesi e in queste nazioni.

1749
Ora i fedeli laici, in forza della loro partecipazione all'ufficio profetico di Cristo, sono pienamente coinvolti in questo compito della chiesa. Ad essi tocca, in particolare, testimoniare come la fede cristiana costituisca l'unica risposta pienamente valida, più o meno coscientemente da tutti percepita e invocata, dei problemi e delle speranze che la vita pone ad ogni uomo e ad ogni società. Ciò sarà possibile se i fedeli laici sapranno superare in se stessi la frattura tra il Vangelo e la vita, ricomponendo nella loro quotidiana attività in famiglia, sul lavoro e nella società, l'unità d'una vita che nel Vangelo trova ispirazione e forza per realizzarsi in pienezza.

1750
A tutti gli uomini contemporanei ripeto, ancora una volta, il grido appassionato con il quale ho iniziato il mio servizio pastorale: « Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo! Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo. Non abbiate paura! Cristo sa "cosa è dentro l'uomo". Solo lui lo sa! Oggi così spesso l'uomo non sa cosa si porta dentro, nel profondo del suo animo, del suo cuore. Così spesso è incerto del senso della sua vita su questa terra. E' invaso dal dubbio che si tramuta in disperazione. Permettete, quindi - vi prego, vi imploro con umiltà e con fiducia - permettete a Cristo di parlare all'uomo. Solo lui ha parole di vita, sì! di vita eterna». Spalancare le porte a Cristo, accoglierlo nello spazio della propria umanità non è affatto una minaccia per l'uomo, bensì è l'unica strada da percorrere se si vuole riconoscere l'uomo nell'intera sua verità ed esaltarlo nei suoi valori.

1751
Sarà la sintesi vitale che i fedeli laici sapranno operare tra il Vangelo e i doveri quotidiani della vita la più splendida e convincente testimonianza che, non la paura, ma la ricerca e l'adesione a Cristo sono il fattore determinante perché l'uomo viva e cresca, e perché si costituiscano nuovi modi di vivere più conformi alla dignità umana. L'uomo è amato da Dio! E' questo il semplicissimo e sconvolgente annuncio del quale la chiesa è debitrice all'uomo. La parola e la vita di ciascun cristiano possono e devono far risuonare questo annuncio: Dio ti ama, Cristo è venuto per te, per te Cristo è «via, verità, vita!» (Gv 14,6).

1752
Questa nuova evangelizzazione, rivolta non solo alle singole persone ma anche a intere fasce di popolazioni nelle loro varie situazioni, ambienti e culture, è destinata alla formazione di comunità ecclesiali mature , nelle quali cioè la fede sprigioni e realizzi tutto il suo originario significato di adesione alla persona di Cristo e al suo Vangelo, di incontro e comunione sacramentale con lui, di esistenza vissuta nella carità e nel servizio. I fedeli laici hanno la loro parte da compiere nella formazione di simili comunità ecclesiali, non solo con una partecipazione attiva e responsabile nella vita comunitaria, e pertanto con la loro insostituibile testimonianza, ma anche con lo slancio e l'azione missionaria verso quanti ancora non credono o non vivono più la fede ricevuta con il battesimo.

1753
In rapporto alle nuove generazioni un contributo prezioso, quanto mai necessario, deve essere offerto dai fedeli laici con una sistematica opera di catechesi. I padri sinodali hanno accolto con gratitudine il lavoro dei catechisti, riconoscendo che essi «hanno un compito di grande peso nell'animazione delle comunità ecclesiali». Certamente i genitori cristiani sono i primi e insostituibili catechisti dei loro figli, a ciò abilitati dal sacramento del matrimonio; nello stesso tempo però dobbiamo essere tutti coscienti del «diritto» che ogni battezzato ha di venire istruito, educato, accompagnato nella fede e nella vita cristiana.

Andate in tutto il mondo

1754
35. La chiesa, mentre avverte e vive l'urgenza attuale di una nuova evangelizzazione, non può sottrarsi alla missione permanente di portare il Vangelo a quanti - e sono milioni e milioni di uomini e di donne - ancora non conoscono Cristo redentore dell'uomo. E' questo il compito più specificamente missionario che Gesù ha affidato e quotidianamente riaffida alla sua chiesa. L'opera dei fedeli laici, che peraltro non è mai mancata in questo ambito, si rivela oggi sempre più necessaria e preziosa. In realtà, il comando del Signore «Andate in tutto il mondo» continua a trovare molti laici generosi, pronti a lasciare il loro ambiente di vita, il loro lavoro, la loro regione o patria per recarsi, almeno per un determinato tempo, in zone di missione. Anche coppie di sposi cristiani, a imitazione di Aquila e Priscilla (cf. At 18; Rm 16,3s), vanno offrendo una confortante testimonianza di amore appassionato a Cristo e alla chiesa mediante la loro presenza operosa nelle terre di missione. Autentica presenza missionaria è anche quella di coloro che, vivendo per vari motivi in paesi o ambienti dove la chiesa non è ancora stabilita, testimoniano la loro fede.

1755
Ma il problema missionario si presenta attualmente alla chiesa con un'ampiezza e con una gravità tali che solo un'assunzione veramente solidale di responsabilità da parte di tutti i membri della chiesa, sia come singoli sia come comunità, può far sperare in una risposta più efficace. L'invito che il concilio Vaticano II ha rivolto alle chiese particolari conserva tutto il suo valore, anzi esige oggi un'accoglienza più generalizzata e più decisa: «La chiesa particolare, dovendo rappresentare nel modo più perfetto la chiesa universale, abbia la piena coscienza di essere inviata anche a coloro che non credono in Cristo».

1756
La chiesa deve fare oggi un grande passo in avanti nella sua evangelizzazione, deve entrare in una nuova tappa storica del suo dinamismo missionario. In un mondo che con il crollare delle distanze si fa sempre più piccolo, le comunità ecclesiali devono collegarsi tra loro, scambiarsi energie e mezzi, impegnarsi insieme nell'unica e comune missione di annunciare e di vivere il Vangelo. «Le chiese cosiddette più giovani - hanno detto i padri sinodali - abbisognano della forza di quelle antiche, mentre queste hanno bisogno della testimonianza e della spinta delle più giovani, in modo che le singole chiese attingano dalle ricchezze delle altre chiese». In questa nuova tappa, la formazione non solo del clero locale ma anche di un laicato maturo e responsabile si pone nelle giovani chiese come elemento essenziale e irrinunciabile della plantatio ecclesiae. In tal modo le stesse comunità evangelizzate si slanciano verso nuove contrade del mondo per rispondere anch'esse alla missione di annunciare e testimoniare il Vangelo di Cristo.

1757
I fedeli laici, con l'esempio della loro vita e con la propria azione, possono favorire il miglioramento dei rapporti tra i seguaci delle diverse religioni , come hanno opportunamente rilevato i padri sinodali: «Oggi la chiesa vive dappertutto in mezzo a uomini di religioni diverse... Tutti i fedeli, specialmente i laici che vivono in mezzo ai popoli di altre religioni, sia nelle regioni di origine, sia in terre di emigrazione, debbono essere per costoro un segno del Signore e della sua chiesa, in modo adatto alle circostanze di vita di ciascun luogo. Il dialogo tra le religioni ha un'importanza preminente perché conduce all'amore e al rispetto reciproco, elimina, o almeno diminuisce, i pregiudizi tra i seguaci delle diverse religioni e promuove l'unità e l'amicizia tra i popoli».

1758
Per l'evangelizzazione del mondo occorrono, anzitutto, gli evangelizzatori. Per questo tutti, a cominciare dalle famiglie cristiane, dobbiamo sentire la responsabilità di favorire il sorgere e il maturare di vocazioni specificamente missionarie , sia sacerdotali e religiose sia laicali, ricorrendo ad ogni mezzo opportuno, senza mai trascurare il mezzo privilegiato della preghiera, secondo la parola stessa del Signore Gesù: «La messe è molta, ma gli operai sono pochi! Pregate dunque il padrone della messe che mandi operai nella sua messe!» (Mt 9,37-38).

Vivere il Vangelo servendo la persona e la società


1759
36. Accogliendo e annunciando il Vangelo nella forza dello Spirito la chiesa diviene comunità evangelizzata ed evangelizzante e proprio per questo si fa serva degli uomini. In essa i fedeli laici partecipano alla missione di servire la persona e la società. Certamente la chiesa ha come supremo fine il regno di Dio, del quale «costituisce in terra il germe e l'inizio», ed è quindi totalmente consacrata alla glorificazione del Padre. Ma il Regno è fonte di liberazione piena e di salvezza totale per gli uomini: con questi, allora, la chiesa cammina e vive, realmente e intimamente solidale con la loro storia.

1760
Avendo ricevuto l'incarico di manifestare al mondo il mistero di Dio che splende in Cristo Gesù, al tempo stesso la chiesa svela l'uomo all'uomo , gli fa noto il senso della sua esistenza, lo apre alla verità intera su di sé e sul suo destino. In questa prospettiva la chiesa è chiamata, in forza della sua stessa missione evangelizzatrice, a servire l'uomo. Tale servizio si radica primariamente nel fatto prodigioso e sconvolgente che «con l'incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo». Per questo l'uomo «è la prima strada che la chiesa deve percorrere nel compimento della sua missione: egli è la prima fondamentale via della chiesa , via tracciata da Cristo stesso, via che immutabilmente passa attraverso il mistero dell'incarnazione e della redenzione».

1761
Proprio in questo senso si è espresso, ripetutamente e con singolare chiarezza e forza, il concilio Vaticano II nei suoi diversi documenti. Rileggiamo un testo particolarmente illuminante della costituzione Gaudium et spes: «La chiesa, certo, perseguendo il suo proprio fine di salvezza, non solo comunica all'uomo la vita divina, ma anche diffonde la sua luce con ripercussione, in qualche modo, su tutto il mondo, soprattutto per il fatto che risana ed eleva la dignità della persona umana, consolida la compagine dell'umana società, e immette nel lavoro quotidiano degli uomini un più profondo senso e significato. Così la chiesa, con i singoli suoi membri e con tutta intera la sua comunità, crede di poter contribuire molto a rendere più umana la famiglia degli uomini e la sua storia». In questo contributo alla famiglia degli uomini, del quale è responsabile l'intera chiesa, un posto particolare compete ai fedeli laici, in ragione della loro «indole secolare», che li impegna, con modalità proprie e insostituibili, nell'animazione cristiana dell'ordine temporale.

Promuovere la dignità della persona

1762
37. Riscoprire e far riscoprire la dignità inviolabile di ogni persona umana costituisce un compito essenziale, anzi, in un certo senso, il compito centrale e unificante del servizio che la chiesa e, in essa, i fedeli laici sono chiamati a rendere alla famiglia degli uomini. Tra tutte le creature terrene, solo l'uomo è «persona», soggetto cosciente e libero e, proprio per questo, «centro e vertice» di tutto quanto esiste sulla terra.

1763
La dignità personale è il bene più prezioso che l'uomo possiede, grazie al quale egli trascende in valore tutto il mondo materiale. La parola di Gesù: «Che giova all'uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la propria anima?» (Mc 8,36) implica una luminosa e stimolante affermazione antropologica: l'uomo vale non per quello che «ha» - possedesse pure il mondo intero! -, quanto per quello che «è». Contano non tanto i beni del mondo, quanto il bene della persona, il bene che è la persona stessa. La dignità della persona manifesta tutto il suo fulgore quando se ne considerano l'origine e la destinazione: creato da Dio a sua immagine e somiglianza e redento dal sangue preziosissimo di Cristo, l'uomo è chiamato ad essere «figlio nel Figlio» e tempio vivo nello Spirito, ed è destinato all'eterna vita di comunione beatificante con Dio. Per questo ogni violazione della dignità personale dell'essere umano grida vendetta al cospetto di Dio e si configura come offesa al Creatore dell'uomo.

1764
In forza della sua dignità personale l'essere umano è sempre un valore in sé e per sé , e come tale esige d'essere considerato e trattato, mai invece può essere considerato e trattato come un oggetto utilizzabile, uno strumento, una cosa. La dignità personale costituisce il fondamento dell'eguaglianza di tutti gli uomini tra loro. Di qui l'assoluta inaccettabilità di tutte le più svariate forme di discriminazione che, purtroppo, continuano a dividere e a umiliare la famiglia umana, da quelle razziali ed economiche a quelle sociali e culturali, da quelle politiche a quelle geografiche, ecc. Ogni discriminazione costituisce un'ingiustizia del tutto intollerabile, non tanto per le tensioni e per i conflitti ch'essa può generare nel tessuto sociale, quanto per il disonore inferto alla dignità della persona: non solo alla dignità di chi è vittima dell'ingiustizia, ma ancor più di chi quell'ingiustizia compie.

1765
Fondamento dell'uguaglianza di tutti gli uomini tra loro, la dignità personale è anche il fondamento della partecipazione e della solidarietà degli uomini tra loro : il dialogo e la comunione si radicano ultimamente su ciò che gli uomini «sono», prima e più ancora che su quanto essi «hanno». La dignità personale è proprietà indistruttibile di ogni essere umano. E' fondamentale avvertire tutta la forza dirompente di questa affermazione, che si basa sull' unicità e sull' irripetibilità di ogni persona. Ne deriva che l'individuo è assolutamente irriducibile a tutto ciò che lo vorrebbe schiacciare e annullare nell'anonimato della collettività, dell'istituzione, della struttura, del sistema. La persona, nella sua individualità, non è un numero, non è un anello d'una catena, né un ingranaggio di un sistema. L'affermazione più radicale ed esaltante del valore di ogni essere umano è stata fatta dal Figlio di Dio nel suo incarnarsi nel seno d'una donna. Anche di questo continua a parlarci il natale cristiano.

Venerare l'inviolabile diritto alla vita


1766
38. Il riconoscimento effettivo della dignità personale di ogni essere umano esige il rispetto, la difesa e la promozione dei diritti della persona umana. Si tratta di diritti naturali, universali e inviolabili: nessuno, né il singolo, né il gruppo, né l'autorità, né lo stato, li può modificare né tanto meno li può eliminare, perché tali diritti provengono da Dio stesso. Ora l'inviolabilità della persona, riflesso dell'assoluta inviolabilità di Dio stesso, trova la sua prima e fondamentale espressione nell' inviolabilità della vita umana. E' del tutto falso e illusorio il comune discorso, che peraltro giustamente viene fatto, sui diritti umani - come ad esempio sul diritto alla salute, alla casa, al lavoro, alla famiglia e alla cultura - se non si difende con la massima risolutezza il diritto alla vita , quale diritto primo e fontale, condizione per tutti gli altri diritti della persona.

1767
La chiesa non si è mai data per vinta di fronte a tutte le violazioni che il diritto alla vita, proprio di ogni essere umano, ha ricevuto e continua a ricevere sia dai singoli sia dalle stesse autorità. Titolare di tale diritto è l'essere umano in ogni fase del suo sviluppo , dal concepimento sino alla morte naturale; e in ogni sua condizione , sia essa di salute o di malattia, di perfezione o di handicap, di ricchezza o di miseria. Il concilio Vaticano II proclama apertamente: «Tutto ciò che è contro la vita stessa, come ogni specie di omicidio, il genocidio, l'aborto, l'eutanasia e lo stesso suicidio volontario; tutto ciò che viola l'integrità della persona umana, come le mutilazioni, le torture inflitte al corpo e alla mente, gli sforzi per violentare l'intimo dello spirito; tutto ciò che offende la dignità umana, come le condizioni infraumane di vita, le incarcerazioni arbitrarie, le deportazioni, la schiavitù, la prostituzione, il mercato delle donne e dei giovani, o ancora le ignominiose condizioni di lavoro con le quali i lavoratori sono trattati come semplici strumenti di guadagno, e non come persone libere e responsabili; tutte queste cose, e altre simili, sono certamente vergognose e, mentre guastano la civiltà umana, ancor più inquinano coloro che così si comportano, che non quelli che le subiscono; e ledono grandemente l'onore del Creatore».

1768
Ora se di tutti sono la missione e la responsabilità di riconoscere la dignità personale di ogni essere umano e di difenderne il diritto alla vita, alcuni fedeli laici vi sono chiamati ad un titolo particolare: tali sono i genitori, gli educatori, gli operatori della salute, e quanti detengono il potere economico e politico. Nell'accoglienza amorosa e generosa di ogni vita umana, soprattutto se debole o malata, la chiesa vive oggi un momento fondamentale della sua missione, tanto più necessaria quanto più dominante si è fatta una «cultura di morte». Infatti «la chiesa fermamente crede che la vita umana, anche se debole e sofferente, è sempre uno splendido dono del Dio della bontà. Contro il pessimismo e l'egoismo, che oscurano il mondo, la chiesa sta dalla parte della vita: e in ciascuna vita umana sa scoprire lo splendore di quel "sì", di quell'"amen", che è Cristo stesso (cf. 2Cor 1,19; Ap 3,14). Al "no" che invade e affligge il mondo, contrappone questo vivente "sì", difendendo in tal modo l'uomo e il mondo da quanti insidiano e mortificano la vita». Tocca ai fedeli laici, che più direttamente o per vocazione o per professione sono coinvolti nell'accoglienza della vita, rendere concreto ed efficace il «sì» della chiesa alla vita umana.

1769
Sulle frontiere della vita umana possibilità e responsabilità nuove si sono oggi spalancate con l'enorme sviluppo delle scienze biologiche e mediche , unitamente al sorprendente potere tecnologico : l'uomo, infatti, è in grado oggi non solo di «osservare», ma anche di «manipolare» la vita umana nello stesso suo inizio e nei suoi primi stadi di sviluppo.

1770
La coscienza morale dell'umanità non può rimanere estranea o indifferente di fronte ai passi giganteschi compiuti da una potenza tecnologica che acquista un dominio sempre più vasto e profondo sui dinamismi che presiedono alla procreazione e alle prime fasi dello sviluppo della vita umana. Forse non mai come oggi e in questo campo la sapienza si dimostra l'unica àncora di salvezza , perché l'uomo nella ricerca scientifica e in quella applicata possa agire sempre con intelligenza e con amore, ossia rispettando, anzi venerando l'inviolabile dignità personale di ogni essere umano, sin dal primo istante della sua esistenza. Ciò avviene quando con mezzi leciti, la scienza e la tecnica si impegnano nella difesa della vita e nella cura della malattia sin dagli inizi, rifiutando invece - per la dignità stessa della ricerca - interventi che risultano alterativi del patrimonio genetico dell'individuo e della generazione umana.

1771
I fedeli laici, a vario titolo e a diverso livello impegnati nella scienza e nella tecnica, come pure nell'ambito medico, sociale, legislativo ed economico devono coraggiosamente accettare le «sfide» poste dai nuovi problemi della bioetica. Come hanno detto i padri sinodali, «i cristiani debbono esercitare la loro responsabilità come padroni della scienza e della tecnologia, non come servi di essa... Nella prospettiva di quelle "sfide" morali, che stanno per essere provocate dalla nuova e immensa potenza tecnologica e che mettono in pericolo non solo i diritti fondamentali degli uomini, ma la stessa essenza biologica della specie umana, è della massima importanza che i laici cristiani - con l'aiuto di tutta la chiesa - si prendano a carico di richiamare la cultura ai principi di un autentico umanesimo, affinché la promozione e la difesa dei diritti dell'uomo possano trovare fondamento dinamico e sicuro nella stessa sua essenza, quella essenza che la predicazione evangelica ha rivelato agli uomini».

1772
Urge oggi, da parte di tutti, la massima vigilanza di fronte al fenomeno della concentrazione del potere, e in primo luogo di quello tecnologico. Tale concentrazione, infatti, tende a manipolare non solo l'essenza biologica ma anche i contenuti della stessa coscienza degli uomini e i loro modelli di vita, aggravando in tal modo la discriminazione e l'emarginazione di interi popoli.

Liberi di invocare il Nome del Signore

1773
39. Il rispetto della dignità personale, che comporta la difesa e la promozione dei diritti umani, esige il riconoscimento della dimensione religiosa dell'uomo. Non è, questa, un'esigenza semplicemente «confessionale», bensì un'esigenza che trova la sua radice inestirpabile nella realtà stessa dell'uomo. Il rapporto con Dio, infatti, è elemento costitutivo dello stesso «essere» ed «esistere» dell'uomo: è in Dio che noi «viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (At 17,28). Se non tutti credono a tale verità, quanti ne sono convinti hanno il diritto di essere rispettati nella loro fede e nelle scelte di vita, individuale e comunitaria, che da essa derivano. E' questo il diritto alla libertà di coscienza e alla libertà religiosa , il cui riconoscimento effettivo è tra i beni più alti e tra i doveri più gravi di ogni popolo che voglia veramente assicurare il bene della persona e della società: «La libertà religiosa, esigenza insopprimibile della dignità di ogni uomo, è una pietra angolare dell'edificio dei diritti umani e, pertanto, è un fattore insostituibile del bene delle persone e di tutta la società, così come della propria realizzazione di ciascuno. Ne consegue che la libertà dei singoli e delle comunità di professare e di praticare la propria religione è un elemento essenziale della pacifica convivenza degli uomini... Il diritto civile e sociale alla libertà religiosa, in quanto attinge la sfera più intima dello spirito, si rivela punto di riferimento e, in certo modo, diviene misura degli altri diritti fondamentali».

1774
Il sinodo non ha dimenticato i tanti fratelli e sorelle che ancora non godono di tale diritto e che devono affrontare disagi, emarginazioni, sofferenze, persecuzioni, e talvolta la morte a causa della confessione della fede. Nella maggioranza sono fratelli e sorelle del laicato cristiano. L'annuncio del Vangelo e la testimonianza cristiana della vita nella sofferenza e nel martirio costituiscono l'apice dell'apostolato dei discepoli di Cristo, così come l'amore al Signore Gesù sino al dono della propria vita costituisce una sorgente di fecondità straordinaria per l'edificazione della chiesa. La mistica vite testimonia così la sua rigogliosità, come rilevava sant'Agostino: «Ma quella vite, com'era stato preannunciato dai profeti e dallo stesso Signore, che diffondeva in tutto il mondo i suoi tralci fruttuosi, tanto più diveniva rigogliosa quanto più era irrigata dal molto sangue dei martiri».

1775
La chiesa tutta è profondamente grata per questo esempio e per questo dono: da questi suoi figli essa trae motivo per rinnovare il suo slancio di vita santa e apostolica. In tal senso i padri sinodali hanno ritenuto loro speciale dovere «ringraziare quei laici i quali vivono come instancabili testimoni della fede, in fedele unione con la sede apostolica, nonostante le restrizioni della libertà e la privazione dei ministri sacri. Essi si giocano tutto, perfino la vita. I laici in questo modo danno testimonianza di una proprietà essenziale della chiesa: la chiesa di Dio nasce dalla grazia di Dio e ciò si manifesta nel modo più sublime nel martirio».

1776
Quanto abbiamo sinora detto sul rispetto della dignità personale e sul riconoscimento dei diritti umani riguarda senza dubbio la responsabilità di ciascun cristiano, di ciascun uomo. Ma dobbiamo immediatamente rilevare come tale problema rivesta oggi una dimensione mondiale : è, infatti, una questione che investe oramai interi gruppi umani, anzi interi popoli che sono violentemente vilipesi nei loro fondamentali diritti. Di qui quelle forme di disuguaglianza dello sviluppo tra i diversi mondi che nella recente enciclica Sollicitudo rei socialis ( V10/2503 ss) sono state apertamente denunciate.

1777
Il rispetto della persona umana va oltre la esigenza di una morale individuale e si pone come criterio basilare, quasi pilastro fondamentale, per la strutturazione della società stessa, essendo la società finalizzata interamente alla persona. Così, intimamente congiunta alla responsabilità di servire la persona , si pone la responsabilità di servire la società , quale compito generale di quella animazione cristiana dell'ordine temporale alla quale i fedeli laici sono chiamati secondo loro proprie e specifiche modalità.

La famiglia, primo spazio per l'impegno sociale


1778
40. La persona umana ha una nativa e strutturale dimensione sociale in quanto è chiamata dall'intimo di sé alla comunione con gli altri e alla donazione agli altri: «Dio, che ha cura paterna di tutti, ha voluto che gli uomini formassero una sola famiglia e si trattassero tra loro con animo di fratelli». E così la società , frutto e segno della socialità dell'uomo, rivela la piena verità nell'essere una comunità di persone. Si dà interdipendenza e reciprocità tra persona e società: tutto ciò che viene compiuto a favore della persona è anche un servizio reso alla società, e tutto ciò che viene compiuto a favore della società si risolve a beneficio della persona. Per questo l'impegno apostolico dei fedeli laici nell'ordine temporale riveste sempre e in modo inscindibile il significato del servizio all'uomo singolo nella sua unicità e irripetibilità e il significato del servizio a tutti gli uomini.

1779
Ora la prima e originaria espressione della dimensione sociale della persona è la coppia e la famiglia : «Ma Dio non creò l'uomo lasciandolo solo: fin da principio "uomo e donna li creò" (Gn 1,27) e la loro unione costituisce la prima forma di comunione di persone». Gesù si è preoccupato di restituire alla coppia l'intera sua dignità e alla famiglia la saldezza sua propria (cf. Mt 19,3-9); san Paolo ha mostrato il rapporto profondo del matrimonio con il mistero di Cristo e della chiesa (cf. Ef 5,22-6,4; Col 3,18-21; 1Pt 3,1-7). La coppia e la famiglia costituiscono il primo spazio per l'impegno sociale dei fedeli laici. E' un impegno che può essere assolto adeguatamente solo nella convinzione del valore unico e insostituibile della famiglia per lo sviluppo della società e della stessa chiesa.

1780
Culla della vita e dell'amore, nella quale l'uomo «nasce» e «cresce», la famiglia è la cellula fondamentale della società. A questa comunità è da riservarsi una privilegiata sollecitudine, soprattutto ogniqualvolta l'egoismo umano, le campagne antinataliste, le politiche totalitarie, ma anche le situazioni di povertà e di miseria fisica, culturale e morale, nonché la mentalità edonistica e consumistica fanno disseccare le sorgenti della vita, mentre le ideologie e i diversi sistemi, insieme a forme di disinteresse e di disamore, attentano alla funzione educativa propria della famiglia.

1781
Urge così un'opera vasta, profonda e sistematica, sostenuta non solo dalla cultura ma anche dai mezzi economici e dagli strumenti legislativi, destinata ad assicurare alla famiglia il suo compito di essere il luogo primario della «umanizzazione» della persona e della società. L'impegno apostolico dei fedeli laici è anzitutto quello di rendere la famiglia cosciente della sua identità di primo nucleo sociale di base e del suo originale ruolo nella società, perché divenga essa stessa sempre più protagonista attiva e responsabile della propria crescita e della propria partecipazione alla vita sociale. In tal modo la famiglia potrà e dovrà esigere da tutti, a cominciare dalle autorità pubbliche, il rispetto di quei diritti che, salvando la famiglia, salvano la società stessa.

1782
Quanto è scritto nell'esortazione Familiaris consortio circa la partecipazione allo sviluppo della società e quanto la Santa Sede, su invito del sinodo dei vescovi del 1980, ha formulato con la Carta dei diritti della famiglia ( V9/538 ss) rappresentano un programma operativo completo e organico per tutti quei fedeli laici che, a diverso titolo, sono interessati alla promozione dei valori e delle esigenze della famiglia: un programma la cui realizzazione è da urgere con tanta maggior tempestività e decisione quanto più gravi si fanno le minacce alla stabilità e alla fecondità della famiglia e quanto più pesante e sistematico si fa il tentativo di emarginare la famiglia e di vanificarne il peso sociale. Come l'esperienza attesta, la civiltà e la saldezza dei popoli dipendono soprattutto dalla qualità umana delle loro famiglie. Per questo l'impegno apostolico verso la famiglia acquista un incomparabile valore sociale. La chiesa, da parte sua, ne è profondamente convinta, ben sapendo che «l'avvenire dell'umanità passa attraverso la famiglia».

La carità anima e sostegno della solidarietà


1783
41. Il servizio alla società si esprime e si realizza in diversissime modalità: da quelle libere e informali a quelle istituzionali, dall'aiuto dato ai singoli a quello rivolto a vari gruppi e comunità di persone. Tutta la chiesa come tale è direttamente chiamata al servizio della carità: «La santa chiesa, come nelle sue origini unendo l' agape con la cena eucaristica si manifestava tutta unita nel vincolo della carità attorno a Cristo, così, in ogni tempo, si riconosce da questo contrassegno della carità e, mentre gode delle iniziative altrui, rivendica le opere di carità come suo dovere e diritto inalienabile. Perciò la misericordia verso i poveri e gli infermi come pure le cosiddette opere caritative e di mutuo aiuto, destinate ad alleviare le necessità umane di ogni genere, sono tenute dalla chiesa in particolare onore». La carità verso il prossimo , nelle forme antiche e sempre nuove delle opere di misericordia corporale e spirituale, rappresenta il contenuto più immediato, comune e abituale di quell'animazione cristiana dell'ordine temporale che costituisce l'impegno specifico dei fedeli laici.

1784
Con la carità verso il prossimo i fedeli laici vivono e manifestano la loro partecipazione alla regalità di Gesù Cristo, al potere cioè del Figlio dell'uomo che «non è venuto per essere servito, ma per servire» (Mc 10,45): essi vivono e manifestano tale regalità nel modo più semplice, possibile a tutti e sempre, ed insieme nel modo più esaltante, perché la carità è il più alto dono che lo Spirito offre per l'edificazione della chiesa (cf. 1Cor 13,13) e per il bene dell'umanità. La carità , infatti, anima e sostiene un'operosa solidarietà attenta alla totalità dei bisogni dell'essere umano.

1785
Una simile carità, attuata non solo dai singoli ma anche in modo solidale dai gruppi e dalle comunità, è e sarà sempre necessaria: niente e nessuno la può e la potrà sostituire, neppure le molteplici istituzioni e iniziative pubbliche, che pure si sforzano di dare risposta ai bisogni - spesso oggi così gravi e diffusi - d'una popolazione. Paradossalmente tale carità si fa più necessaria quanto più le istituzioni, diventando complesse nell'organizzazione e pretendendo di gestire ogni spazio disponibile, finiscono per essere rovinate dal funzionalismo impersonale, dall'esagerata burocrazia, dagli ingiusti interessi privati, dal disimpegno facile e generalizzato.

1786
Proprio in questo contesto continuano a sorgere e a diffondersi, in particolare nelle società organizzate, varie forme di volontariato che si esprimono in una molteplicità di servizi e di opere. Se vissuto nella sua verità di servizio disinteressato al bene delle persone, specialmente le più bisognose e le più dimenticate dagli stessi servizi sociali, il volontariato deve dirsi una espressione importante di apostolato, nel quale i fedeli laici, uomini e donne, hanno un ruolo di primo piano.

Tutti destinatari e protagonisti della politica


1787
42. La carità che ama e serve la persona non può mai essere disgiunta dalla giustizia : e l'una e l'altra, ciascuna a suo modo, esigono il pieno riconoscimento effettivo dei diritti della persona, alla quale è ordinata la società con tutte le sue strutture ed istituzioni. Per animare cristianamente l'ordine temporale, nel senso detto di servire la persona e la società, i fedeli laici non possono affatto a bdicare alla partecipazione alla «politica» , ossia alla molteplice e varia azione economica, sociale, legislativa, amministrativa e culturale, destinata a promuovere organicamente e istituzionalmente il bene comune. Come ripetutamente hanno affermato i padri sinodali, tutti e ciascuno hanno diritto e dovere di partecipare alla politica, sia pure con diversità e complementarietà di forme, livelli, compiti e responsabilità. Le accuse di arrivismo, di idolatria del potere, di egoismo e di corruzione che non infrequentemente vengono rivolte agli uomini del governo, del parlamento, della classe dominante, del partito politico; come pure l'opinione non poco diffusa che la politica sia un luogo di necessario pericolo morale, non giustificano minimamente né lo scetticismo né l'assenteismo dei cristiani per la cosa pubblica.

1788
E', invece, quanto mai significativa la parola del concilio Vaticano II: «La chiesa stima degna di lode e di considerazione l'opera di coloro che per servire gli uomini si dedicano al bene della cosa pubblica e assumono il peso delle relative responsabilità». Una politica per la persona e per la società trova il suo criterio basilare nel perseguimento del bene comune , come bene di tutti gli uomini e di tutto l'uomo, bene offerto e garantito alla libera e responsabile accoglienza delle persone, sia singole che associate: «La comunità politica - leggiamo nella costituzione Gaudium et spes - esiste proprio in funzione di quel bene comune, nel quale essa trova piena giustificazione e significato e dal quale ricava il suo ordinamento giuridico, originario e proprio. Il bene comune si concreta nell'insieme di quelle condizioni della vita sociale, con le quali gli uomini, le famiglie e le associazioni possono ottenere il conseguimento più pieno della propria perfezione».

1789
Inoltre, una politica per la persona e per la società trova la sua linea costante di cammino nella difesa e nella promozione della giustizia , intesa come «virtù» alla quale tutti devono essere educati e come «forza» morale che sostiene l'impegno a favorire i diritti e i doveri di tutti e di ciascuno, sulla base della dignità personale dell'essere umano. Nell'esercizio del potere politico è fondamentale lo spirito di servizio , che solo, unitamente alla necessaria competenza ed efficienza, può rendere «trasparente» o «pulita» l'attività degli uomini politici, come del resto la gente giustamente esige. Ciò sollecita la lotta aperta e il deciso superamento di alcune tentazioni, quali il ricorso alla slealtà e alla menzogna, lo sperpero del pubblico denaro per il tornaconto di alcuni pochi e con intenti clientelari, l'uso di mezzi equivoci o illeciti per conquistare, mantenere e aumentare ad ogni costo il potere.

1790
I fedeli laici impegnati nella politica devono certamente rispettare l'autonomia rettamente intesa delle realtà terrene, così come leggiamo nella costituzione Gaudium et spes : «E' di grande importanza, soprattutto in una società pluralistica, che si abbia una giusta visione dei rapporti tra la comunità politica e la chiesa e che si faccia una chiara distinzione tra le azioni che i fedeli, individualmente o in gruppo, compiono in proprio nome, come cittadini, guidati dalla coscienza cristiana, e le azioni che essi compiono in nome della chiesa in comunione con i loro pastori. La chiesa, che, in ragione del suo ufficio e della sua competenza, in nessuna maniera si confonde con la comunità politica e non è legata ad alcun sistema politico, è insieme il segno e la salvaguardia del carattere trascendente della persona umana». Nello stesso tempo - e questo è sentito oggi come urgenza e responsabilità - i fedeli laici devono testimoniare quei valori umani ed evangelici che sono intimamente connessi con l'attività politica stessa, come la libertà e la giustizia, la solidarietà, la dedizione fedele e disinteressata al bene di tutti, lo stile semplice di vita, l'amore preferenziale per i poveri e gli ultimi. Ciò esige che i fedeli laici siano sempre più animati da una reale partecipazione alla vita della chiesa e illuminati dalla sua dottrina sociale. In questo potranno essere accompagnati e aiutati dalla vicinanza delle comunità cristiane e dei loro pastori.

1791
Stile e mezzo per il realizzarsi d'una politica che intenda mirare al vero sviluppo umano è la solidarietà : questa sollecita la partecipazione attiva e responsabile di tutti alla vita politica, dai singoli cittadini ai gruppi vari, dai sindacati ai partiti: insieme, tutti e ciascuno, siamo destinatari e protagonisti della politica. In questo ambito, come ho scritto nell'enciclica Sollicitudo rei socialis , la solidarietà «non è un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone, vicine o lontane. Al contrario, è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune : ossia per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo veramente responsabili di tutti ».

1792
La solidarietà politica esige oggi d'attuarsi secondo un orizzonte che, superando la singola nazione o il blocco di nazioni, si configura come propriamente continentale e mondiale. Il frutto dell'attività politica solidale, da tutti tanto desiderato ma pur sempre tanto immaturo, è la pace. I fedeli laici non possono rimanere indifferenti, estranei e pigri di fronte a tutto ciò che è negazione e compromissione della pace: violenza e guerra, tortura e terrorismo, campi di concentramento, militarizzazione della politica, corsa agli armamenti, minaccia nucleare. Al contrario, come discepoli di Gesù Cristo «principe della pace» (Is 9,5) e «nostra pace» (Ef 2,14), i fedeli laici devono assumersi il compito di essere «operatori di pace» (Mt 5,9), sia mediante la conversione del «cuore», sia mediante l'azione a favore della verità, della libertà, della giustizia e della carità, che della pace sono gli irrinunciabili fondamenti.

1793
Collaborando con tutti coloro che cercano veramente la pace e servendosi degli specifici organismi e istituzioni nazionali e internazionali, i fedeli laici devono promuovere un'opera educativa capillare destinata a sconfiggere l'imperante cultura dell'egoismo, dell'odio, della vendetta e dell'inimicizia e a sviluppare la cultura della solidarietà ad ogni livello. Tale solidarietà, infatti, è « via alla pace e insieme allo sviluppo ». In questa prospettiva i padri sinodali hanno invitato i cristiani a rifiutare forme inaccettabili di violenza, a promuovere atteggiamenti di dialogo e di pace e ad impegnarsi per instaurare un ordine sociale e internazionale giusto.

Porre l'uomo al centro della vita economico-sociale

1794
43. Il servizio alla società da parte dei fedeli laici trova un suo momento essenziale nella questione economico-sociale , la cui chiave è data dall'organizzazione del lavoro. La gravità attuale di tali problemi, colta nel panorama dello sviluppo e secondo la proposta di soluzione da parte della dottrina sociale della chiesa, è stata ricordata recentemente nell'enciclica Sollicitudo rei socialis ( V10/2503 ss), alla quale desidero caldamente rimandare tutti, in particolare i fedeli laici.

1795
Tra i caposaldi della dottrina sociale della chiesa sta il principio della destinazione universale dei beni : i beni della terra sono, nel disegno di Dio, offerti a tutti gli uomini e a ciascun uomo come mezzo per lo sviluppo d'una vita autenticamente umana. Al servizio di questa destinazione si pone la proprietà privata , la quale - proprio per questo - possiede un' intrinseca funzione sociale. Concretamente il lavoro dell'uomo e della donna rappresenta lo strumento più comune e più immediato per lo sviluppo della vita economica, strumento che insieme costituisce un diritto e un dovere d'ogni uomo. Tutto questo rientra in modo particolare nella missione dei fedeli laici. Il fine e il criterio della loro presenza e della loro azione sono formulati in termini generali dal concilio Vaticano II: «Anche nella vita economico-sociale sono da onorare e da promuovere la dignità e l'integrale vocazione della persona umana come pure il bene dell'intera società. L'uomo infatti è l'autore, il centro e il fine di tutta la vita economico-sociale».

1796
Nel contesto delle sconvolgenti trasformazioni in atto nel mondo dell'economia e del lavoro, i fedeli laici siano impegnati in prima fila a risolvere i gravissimi problemi della crescente disoccupazione, a battersi per il superamento più tempestivo di numerose ingiustizie che derivano da distorte organizzazioni del lavoro, a far diventare il luogo di lavoro una comunità di persone rispettate nella loro soggettività e nel loro diritto alla partecipazione, a sviluppare nuove solidarietà tra coloro che partecipano al lavoro comune, a suscitare nuove forme di imprenditorialità e a rivedere i sistemi di commercio, di finanza e di scambi tecnologici.

1797
A tal fine i fedeli laici devono compiere il loro lavoro con competenza professionale, con onestà umana, con spirito cristiano, come via della propria santificazione, secondo l'esplicito invito del concilio: «Con il lavoro, l'uomo ordinariamente provvede alla vita propria e dei suoi familiari, comunica con gli altri e rende servizio agli uomini suoi fratelli, può praticare una vera carità e collaborare con la propria attività al completarsi della divina creazione. Ancor più: sappiamo che, offrendo a Dio il proprio lavoro, l'uomo si associa all'opera stessa redentiva di Cristo, il quale ha conferito al lavoro una elevatissima dignità, lavorando con le proprie mani a Nazaret».

1798
In rapporto alla vita economico-sociale e al lavoro si pone oggi, in modo sempre più acuto, la questione cosiddetta «ecologica». Certamente l'uomo ha da Dio stesso il compito di «dominare» le cose create e di «coltivare il giardino» del mondo; ma è un compito, questo, che l'uomo deve assolvere nel rispetto dell'immagine divina ricevuta, e quindi con intelligenza e con amore: egli deve sentirsi responsabile dei doni che Dio gli ha elargito e continuamente gli elargisce. L'uomo ha fra le mani un dono che deve passare - e, se possibile, persino migliorato - alle generazioni future, anch'esse destinatarie dei doni del Signore: «Il dominio accordato dal Creatore all'uomo... non è un potere assoluto, né si può parlare di libertà di "usare e abusare", o di disporre delle cose come meglio aggrada. La limitazione imposta dallo stesso Creatore fin dal principio, ed espressa simbolicamente con la proibizione di "mangiare il frutto dell'albero" (cf. Gn 2,16-17), mostra con sufficiente chiarezza che, nei confronti della natura visibile..., siamo sottomessi a leggi non solo biologiche, ma anche morali, che non si possono impunemente trasgredire. Una giusta concezione dello sviluppo non può prescindere da queste considerazioni - relative all'uso degli elementi della natura, alla rinnovabilità delle risorse e alle conseguenze di una industrializzazione disordinata -, le quali ripropongono alla nostra coscienza la dimensione morale , che deve distinguere lo sviluppo».

Evangelizzare la cultura e le culture dell'uomo

1799
44. Il servizio alla persona e alla società umana si esprime e si attua attraverso la creazione e la trasmissione della cultura , che, specialmente ai nostri giorni, costituisce uno dei più gravi compiti della convivenza umana e dell'evoluzione sociale. Alla luce del concilio, intendiamo per «cultura» tutti quei «mezzi con i quali l'uomo affina ed esplica le molteplici sue doti di anima e di corpo; procura di ridurre in suo potere il cosmo stesso con la conoscenza e il lavoro; rende più umana la vita sociale sia nella famiglia che in tutta la società civile, mediante il progresso del costume e delle istituzioni; infine, con l'andare del tempo, esprime, comunica e conserva nelle sue opere le grandi esperienze e aspirazioni spirituali, affinché possano servire al progresso di molti, anzi di tutto il genere umano». In questo senso, la cultura deve ritenersi come il bene comune di ciascun popolo, l'espressione della sua dignità, libertà e creatività; la testimonianza del suo cammino storico. In particolare, solo all'interno e tramite la cultura la fede cristiana diventa storica e creatrice di storia.

1800
Di fronte allo sviluppo di una cultura che si configura dissociata non solo dalla fede cristiana, ma persino dagli stessi valori umani; come pure di fronte ad una certa cultura scientifica e tecnologica impotente nel dare risposta alla pressante domanda di verità e di bene che brucia nel cuore degli uomini, la chiesa è pienamente consapevole dell'urgenza pastorale che alla cultura venga riservata un'attenzione del tutto speciale.

1801
Per questo la chiesa sollecita i fedeli laici ad essere presenti, all'insegna del coraggio e della creatività intellettuale, nei posti privilegiati della cultura, quali sono il mondo della scuola e dell'università, gli ambienti della ricerca scientifica e tecnica, i luoghi della creazione artistica e della riflessione umanistica. Tale presenza è destinata non solo al riconoscimento e all'eventuale purificazione degli elementi della cultura esistente criticamente vagliati, ma anche alla loro elevazione mediante le originali ricchezze del Vangelo e della fede cristiana. Quanto il concilio Vaticano II scrive circa il rapporto tra il Vangelo e la cultura rappresenta un fatto storico costante ed insieme un ideale operativo di singolare attualità e urgenza; è un programma impegnativo consegnato alla responsabilità pastorale dell'intera chiesa e in essa alla responsabilità specifica dei fedeli laici: «La buona novella di Cristo rinnova continuamente la vita e la cultura dell'uomo decaduto, combatte e rimuove gli errori e i mali, derivanti dalla sempre minacciosa seduzione del peccato. Continuamente purifica ed eleva la moralità dei popoli... In tal modo la chiesa, compiendo la sua missione, già con questo stesso fatto stimola e dà il suo contributo alla cultura umana e civile e, mediante la sua azione, anche liturgica, educa l'uomo alla libertà interiore».

1802
Meritano di essere qui riascoltate alcune espressioni particolarmente significative della esortazione Evangelii nuntiandi di Paolo VI: «La chiesa evangelizza allorquando, in virtù della sola potenza divina del messaggio che essa proclama (cf. Rm 1,16; 1Cor 1,18; 2,4), cerca di convertire la coscienza personale e insieme collettiva degli uomini, l'attività nella quale essi sono impegnati, la vita e l'ambiente concreto loro propri. Strati dell'umanità che si trasformano: per la chiesa non si tratta soltanto di predicare il Vangelo in fasce geografiche sempre più vaste o a popolazioni sempre più estese, ma anche di raggiungere e quasi sconvolgere mediante la forza del Vangelo i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti d'interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell'umanità, che sono in contrasto con la parola di Dio e col disegno della salvezza. Si potrebbe esprimere tutto ciò dicendo così: occorre evangelizzare - non in maniera decorativa, a somiglianza di vernice superficiale, ma in modo vitale, in profondità e fino alle radici - la cultura e le culture dell'uomo... La rottura tra Vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca, come lo fu anche di altre. Occorre quindi fare tutti gli sforzi in vista di una generosa evangelizzazione della cultura, più esattamente delle culture».

1803
La via attualmente privilegiata per la creazione e per la trasmissione della cultura sono gli strumenti della comunicazione sociale. Anche il mondo dei mass-media, in seguito all'accelerato sviluppo innovativo e all'influsso insieme planetario e capillare sulla formazione della mentalità e del costume, rappresenta una nuova frontiera della missione della chiesa. In particolare, la responsabilità professionale dei fedeli laici in questo campo, esercitata sia a titolo personale sia mediante iniziative ed istituzioni comunitarie, esige di essere riconosciuta in tutto il suo valore e sostenuta con più adeguate risorse materiali, intellettuali e pastorali.

1804
Nell'impiego e nella recezione degli strumenti di comunicazione urgono sia un'opera educativa al senso critico, animato dalla passione per la verità, sia un'opera di difesa della libertà, del rispetto alla dignità personale, dell'elevazione dell'autentica cultura dei popoli, mediante il rifiuto fermo e coraggioso di ogni forma di monopolizzazione e di manipolazione. Né a quest'opera di difesa si ferma la responsabilità pastorale dei fedeli laici: su tutte le strade del mondo, anche su quelle maestre della stampa, del cinema, della radio, della televisione e del teatro, dev'essere annunciato il Vangelo che salva.


Capitolo Quarto: GLI OPERAI DELLA VIGNA DEL SIGNORE BUONI AMMINISTRATORI DELLA MULTIFORME GRAZIA DI DIO

La varietà delle vocazioni

1805
45. Secondo la parabola evangelica, il "padrone di casa" chiama gli operai alla sua vigna nelle diverse ore della giornata : alcuni all'alba, altri verso le nove del mattino, altri ancora verso mezzogiorno e le tre, gli ultimi verso le cinque (cf. Mt 20,1ss). Nel commento a questa pagina del Vangelo, san Gregorio Magno interpreta le ore diverse della chiamata rapportandole alle età della vita : "E' possibile applicare la diversità delle ore - egli scrive - alle diverse età dell'uomo. Il mattino può certo rappresentare, in questa nostra interpretazione, la fanciullezza. L'ora terza, poi, si può intendere come l'adolescenza: il sole si muove verso l'alto del cielo, cioè cresce l'ardore dell'età. La sesta ora è la giovinezza: il sole sta come nel mezzo del cielo, ossia in quest'età si rafforza la pienezza del vigore. L'anzianità rappresenta l'ora nona, perché come il sole declina dal suo alto asse così quest'età comincia a perdere l'ardore della giovinezza. L'undicesima ora è l'età di quelli molto avanzati negli anni... Gli operai sono, dunque, chiamati alla vigna in diverse ore, come per dire che alla vita santa uno è condotto durante la fanciullezza, un altro nella giovinezza, un altro nell'anzianità e un altro nell'età più avanzata".

1806
Possiamo riprendere ed estendere il commento di san Gregorio Magno in rapporto alla straordinaria varietà di presenze nella chiesa, tutte e ciascuna chiamate a lavorare per l'avvento del regno di Dio secondo la diversità di vocazioni e situazioni, carismi e ministeri. E' una varietà legata non solo all'età, ma anche alla differenza di sesso e alla diversità delle doti, come pure alle vocazioni e alle condizioni di vita; è una varietà che rende più viva e concreta la ricchezza della chiesa.

Giovani, bambini, anziani

I giovani, speranza della chiesa


1807
46. Il sinodo ha voluto riservare un'attenzione particolare ai giovani. E giustamente. In tanti paesi del mondo, essi rappresentano la metà dell'intera popolazione e, spesso, la metà numerica dello stesso popolo di Dio che in quei paesi vive. Già sotto questo aspetto i giovani costituiscono una forza eccezionale e sono una grande sfida per l'avvenire della chiesa. Nei giovani, infatti, la chiesa legge il suo camminare verso il futuro che l'attende e trova l'immagine e il richiamo di quella lieta giovinezza di cui lo Spirito di Cristo costantemente l'arricchisce. In questo senso il concilio ha definito i giovani "speranza della chiesa".

1808
Nella lettera scritta ai giovani e alle giovani del mondo il 31 marzo 1985, leggiamo: "La chiesa guarda i giovani; anzi, la chiesa in modo speciale guarda se stessa nei giovani , in voi tutti ed insieme in ciascuna e in ciascuno di voi. Così è stato sin dall'inizio, dai tempi apostolici. Le parole di san Giovanni nella sua prima lettera possono essere una particolare testimonianza: "Scrivo a voi, giovani , perché avete vinto il maligno. Ho scritto a voi, figlioli, perché avete conosciuto il Padre. .. Ho scritto a voi, giovani , perché siete forti , e la parola di Dio dimora in voi " (1Gv 2,13-14)... Nella nostra generazione, al termine del secondo millennio dopo Cristo, anche la chiesa guarda se stessa nei giovani".

1809
I giovani non devono essere considerati semplicemente come l'oggetto della sollecitudine pastorale della chiesa: sono di fatto, e devono venire incoraggiati ad esserlo, soggetti attivi, protagonisti dell'evangelizzazione e artefici del rinnovamento sociale. La giovinezza è il tempo di una scoperta particolarmente intensa del proprio "io" e del proprio "progetto di vita", è il tempo di una crescita che deve avvenire "in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini" (Lc 2,52). Come hanno detto i padri sinodali, "la sensibilità dei giovani percepisce profondamente i valori della giustizia, della non violenza e della pace. Il loro cuore è aperto alla fraternità, all'amicizia e alla solidarietà. Sono mobilitati al massimo per le cause che riguardano la qualità della vita e la conservazione della natura. Ma essi sono anche carichi di inquietudini, di delusioni, di angosce e paure del mondo, oltre che delle tentazioni proprie del loro stato".

1810
La chiesa deve rivivere l'amore di predilezione che Gesù ha testimoniato al giovane del Vangelo: "Gesù, fissatolo, lo amò" (Mc 10,21). Per questo la chiesa non si stanca di annunciare Gesù Cristo, di proclamare il suo Vangelo come l'unica e sovrabbondante risposta alle più radicali aspirazioni dei giovani, come la proposta forte ed esaltante di una sequela personale ("vieni e seguimi" [Mc 10,21]), che comporta la condivisione all'amore filiale di Gesù per il Padre e la partecipazione alla sua missione di salvezza per l'umanità.

1811
La chiesa ha tante cose da dire ai giovani, e i giovani hanno tante cose da dire alla chiesa. Questo reciproco dialogo, da attuarsi con grande cordialità, chiarezza e coraggio, favorirà l'incontro e lo scambio tra le generazioni, e sarà fonte di ricchezza e di giovinezza per la chiesa e per la società civile. Nel suo messaggio ai giovani il concilio dice: "La chiesa vi guarda con fiducia e con amore... Essa è la vera giovinezza del mondo..., guardatela e troverete in lei il volto di Cristo".

I bambini e il regno dei cieli

1812
47. I bambini sono certamente il termine dell'amore delicato e generoso del Signore Gesù: ad essi riserva la sua benedizione e ancor più assicura il regno dei cieli (cf. Mt 19,13-15; Mc 10,14). In particolare Gesù esalta il ruolo attivo che i piccoli hanno nel regno di Dio: sono il simbolo eloquente e la splendida immagine di quelle condizioni morali e spirituali che sono essenziali per entrare nel regno di Dio e per viverne la logica di totale affidamento al Signore: "In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli. E chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio accoglie me" (Mt 18,3-5; cf. Lc 9,48).

1813
I bambini ci ricordano che la fecondità missionaria della chiesa ha la sua radice vivificante non nei mezzi e nei meriti umani, ma nel dono assolutamente gratuito di Dio. La vita di innocenza e di grazia dei bambini, come pure le sofferenze loro ingiustamente inflitte, ottengono, in virtù della croce di Cristo, uno spirituale arricchimento per loro e per l'intera chiesa: di questo tutti dobbiamo prendere più viva e grata coscienza.

1814
Si deve riconoscere, inoltre, che anche nell'età dell'infanzia e della fanciullezza sono aperte preziose possibilità operative sia per l'edificazione della chiesa che per l'umanizzazione della società. Quanto il concilio dice della presenza benefica e costruttiva dei figli all'interno della famiglia "chiesa domestica": "I figli, come membra vive della famiglia, contribuiscono pure a loro modo alla santificazione dei genitori", dev'essere ripetuto dei bambini in rapporto alla chiesa particolare e universale. Lo rilevava già Jean Gerson, teologo ed educatore del XV secolo, per il quale "i fanciulli e gli adolescenti non sono certo una parte trascurabile della chiesa".

Gli anziani e il dono della sapienza

1815
48. Alle persone anziane, spesso ingiustamente ritenute inutili se non addirittura d'insopportabile peso, ricordo che la chiesa chiede e attende che esse abbiano a continuare la loro missione apostolica e missionaria, non solo possibile e doverosa anche a quest'età, ma da questa stessa età resa in qualche modo specifica e originale. La Bibbia ama presentare l'anziano come il simbolo della persona ricca di sapienza e di timore di Dio (cf. Sir 25,4-6). In questo senso il "dono" dell'anziano potrebbe qualificarsi come quello di essere, nella chiesa e nella società, il testimone della tradizione di fede (cf. Sal 44,2; Es 12,26-27), il maestro di vita (cf. Sir 6,34; 8,9), l'operatore di carità.

1816
Ora l'aumentato numero di persone anziane in diversi paesi del mondo e la cessazione anticipata dell'attività professionale e lavorativa aprono uno spazio nuovo al compito apostolico degli anziani: è un compito da assumersi superando con decisione la tentazione di rifugiarsi nostalgicamente in un passato che non ritorna più o di rifuggire da un impegno presente per le difficoltà incontrate in un mondo dalle continue novità; e prendendo sempre più chiara coscienza che il proprio ruolo nella chiesa e nella società non conosce affatto soste dovute all'età, bensì conosce solo modi nuovi. Come dice il salmista: "Nella vecchiaia daranno ancora frutti, saranno vegeti e rigogliosi, per annunziare quanto è retto il Signore" (Sal 92,15-16). Ripeto quanto ho detto durante la celebrazione del giubileo degli anziani: "L'ingresso nella terza età è da considerarsi un privilegio: non solo perché non tutti hanno la fortuna di raggiungere questo traguardo, ma anche e soprattutto perché questo è il periodo delle possibilità concrete di riconsiderare meglio il passato, di conoscere e di vivere più profondamente il mistero pasquale, di divenire esempio nella chiesa a tutto il popolo di Dio... Nonostante la complessità dei vostri problemi da risolvere, le forze che progressivamente si affievoliscono, e malgrado le insufficienze delle organizzazioni sociali, i ritardi della legislazione ufficiale, le incomprensioni di una società egoistica, voi non siete né dovete sentirvi ai margini della vita della chiesa, elementi passivi di un mondo in eccesso di movimento, ma soggetti attivi di un periodo umanamente e spiritualmente fecondo dell'esistenza umana. Avete ancora una missione da compiere, un contributo da dare. Secondo il progetto divino ogni singolo essere umano è una vita in crescita, dalla prima scintilla dell'esistenza fino all'ultimo respiro".

Donne e uomini

1817
49. I padri sinodali hanno riservato una speciale attenzione alla condizione e al ruolo della donna, secondo un duplice intento: riconoscere e invitare a riconoscere, da parte di tutti ed ancora una volta, l'indispensabile contributo della donna all'edificazione della chiesa e allo sviluppo della società; operare, inoltre, un'analisi più specifica circa la partecipazione della donna alla vita e alla missione della chiesa. Riferendosi a Giovanni XXIII, che vide nella coscienza femminile della propria dignità e nell'ingresso delle donne nella vita pubblica un segno dei nostri tempi, i padri del sinodo hanno affermato ripetutamente e fortemente, di fronte alle forme più varie di discriminazioni e di emarginazioni alle quali soggiace la donna a motivo del suo semplice essere donna, l'urgenza di difendere e di promuovere la dignità personale della donna , e quindi la sua eguaglianza con l'uomo.

1818
Se di tutti nella chiesa e nella società è questo compito, lo è in particolare delle donne, che si devono sentire impegnate come protagoniste in prima linea. C'è ancora tanto sforzo da compiere, in più parti del mondo e in diversi ambiti, perché sia distrutta quella ingiusta e deleteria mentalità che considera l'essere umano come una cosa, come un oggetto di compra-vendita, come uno strumento dell'interesse egoistico o del solo piacere, tanto più che di tale mentalità la prima vittima è proprio la donna stessa. Al contrario, solo l'aperto riconoscimento della dignità personale della donna costituisce il primo passo da compiere per promuoverne la piena partecipazione sia alla vita ecclesiale che a quella sociale e pubblica. Si deve dare risposta più ampia e decisiva alla richiesta fatta dall'esortazione Familiaris consortio circa le molteplici discriminazioni delle quali le donne sono vittime: "Che da parte di tutti si svolga un'azione pastorale specifica più vigorosa e incisiva, affinché esse siano definitivamente vinte, così da giungere alla stima piena dell'immagine di Dio che risplende in tutti gli esseri umani, nessuno escluso". Nella stessa linea i padri sinodali hanno affermato: "La chiesa, come espressione della sua missione, deve opporsi con fermezza contro tutte le forme di discriminazione e di abuso delle donne". E ancora: "La dignità della donna, gravemente ferita nell'opinione pubblica, dev'essere ricuperata per mezzo dell'effettivo rispetto dei diritti della persona umana e per mezzo della pratica della dottrina della chiesa".

1819
In particolare, circa la partecipazione attiva e responsabile alla vita e alla missione della chiesa , è da rilevarsi come già il concilio Vaticano II sia stato oltre modo esplicito nel sollecitarla: "Poiché ai nostri giorni le donne prendono sempre più parte attiva in tutta la vita della società, è di grande importanza una loro più larga partecipazione anche nei vari campi dell'apostolato della chiesa". La coscienza che la donna, con i doni e i compiti propri, ha una sua specifica vocazione è andata crescendo e approfondendosi nel periodo post-conciliare, ritrovando la sua ispirazione più originale nel Vangelo e nella storia della chiesa. Per il credente, infatti, il Vangelo, ossia la parola e l'esempio di Gesù Cristo, rimane il punto di riferimento necessario e decisivo: ed è quanto mai fecondo ed innovativo anche per l'attuale momento storico.

1820
Pur non chiamate all'apostolato proprio dei Dodici, e quindi al sacerdozio ministeriale, molte donne accompagnano Gesù nel suo ministero e assistono il gruppo degli apostoli (cf. Lc 8,2-3); sono presenti sotto la croce (cf. Lc 23,49); assistono alla sepoltura di Gesù (cf. Lc 23,55) e il mattino di pasqua ricevono e trasmettono l'annuncio della risurrezione (cf. Lc 24,1-10); pregano con gli apostoli nel cenacolo nell'attesa della pentecoste (cf. At 1,14). Nella scia del Vangelo, la chiesa delle origini si distacca dalla cultura del tempo e chiama la donna a compiti connessi con l'evangelizzazione. Nelle sue lettere l'apostolo Paolo ricorda, anche per nome, numerose donne per le loro varie funzioni all'interno e al servizio delle prime comunità ecclesiali (cf. Rm 16,1-15; Fil 4,2-3; Col 4,15 e 1Cor 11,5; 1Tm 5,16). "Se la testimonianza degli apostoli fonda la chiesa - ha detto Paolo VI -, quella delle donne contribuisce grandemente a nutrire la fede delle comunità cristiane".

1821
E come alle origini, così nello sviluppo successivo la chiesa ha sempre conosciuto, anche se in differenti modi e con accentuazioni diverse, donne che hanno esercitato un ruolo talvolta decisivo e svolto compiti di valore considerevole per la chiesa stessa. E' una storia d'immensa operosità, il più delle volte umile e nascosta ma non per questo meno decisiva per la crescita e per la santità della chiesa. E' necessario che questa storia sia continuata, anzi che si allarghi e si intensifichi di fronte all'accresciuta e universalizzata consapevolezza della dignità personale della donna e della sua vocazione, nonché di fronte all'urgenza di una "nuova evangelizzazione" e di una maggiore "umanizzazione" delle relazioni sociali. Raccogliendo la consegna del concilio Vaticano II, nella quale si specchia il messaggio del Vangelo e della storia della chiesa, i padri del sinodo hanno formulato, tra le altre, questa precisa "raccomandazione": "E' necessario che la chiesa, per la sua vita e la sua missione, riconosca tutti i doni delle donne e degli uomini e li traduca in pratica". E ancora: "Questo sinodo proclama che la chiesa esige il riconoscimento e l'utilizzazione di tutti questi doni, esperienze e attitudini degli uomini e delle donne perché la sua missione risulti più efficace (cf. Congregazione per la dottrina della fede, Istruzione su libertà cristiana e liberazione , 72)".

Fondamenti antropologici e teologici

1822
50. La condizione per assicurare la giusta presenza della donna nella chiesa e nella società è una considerazione più penetrante e accurata dei fondamenti antropologici della condizione maschile e femminile , destinata a precisare l'identità personale propria della donna nel suo rapporto di diversità e di reciproca complementarietà con l'uomo, non solo per quanto riguarda i ruoli da tenere e le funzioni da svolgere, ma anche e più profondamente per quanto riguarda la sua struttura e il suo significato personale. I padri sinodali hanno sentito vivamente questa esigenza affermando che "i fondamenti antropologici e teologici hanno bisogno di studi approfonditi per la risoluzione dei problemi relativi al vero significato e dignità di ambedue i sessi".

1823
Impegnandosi nella riflessione sui fondamenti antropologici e teologici della condizione femminile, la chiesa si rende presente nel processo storico dei vari movimenti di promozione della donna e, scendendo alle radici stesse dell'essere personale della donna, vi apporta il suo contributo più prezioso. Ma prima e più ancora la chiesa intende, in tal modo, obbedire a Dio che, creando l'uomo "a sua immagine", "maschio e femmina li creò" (Gn 1,27); così come intende accogliere la chiamata di Dio a conoscere, ad ammirare e a vivere il suo disegno. E' un disegno che "al principio" è stato indelebilmente impresso nello stesso essere della persona umana - uomo e donna - e, pertanto, nelle sue strutture significative e nei suoi profondi dinamismi. Proprio questo disegno, sapientissimo e amoroso, chiede di essere esplorato in tutta la ricchezza del suo contenuto: è la ricchezza che dal "principio" si è venuta poi progressivamente manifestando e attuando lungo l'intera storia della salvezza, ed è culminata nella "pienezza del tempo", allorquando "Dio mandò il suo Figlio, nato da donna" (Gal 4,4). Quella "pienezza" continua nella storia: la lettura del disegno di Dio sulla donna è incessantemente operata e da operarsi nella fede della chiesa, anche grazie alla vita vissuta di tante donne cristiane. Senza dimenticare l'aiuto che può venire dalle diverse scienze umane e dalle varie culture: queste, grazie ad un illuminato discernimento, potranno aiutare a cogliere e a precisare i valori e le esigenze che appartengono all'essenza perenne della donna e quelli legati all'evolversi storico delle culture stesse. Come ci ricorda il concilio Vaticano II, "la chiesa afferma che al di sotto di tutti i mutamenti ci sono molte cose che non cambiano; esse trovano il loro ultimo fondamento in Cristo, che è sempre lo stesso: ieri, oggi e nei secoli (cf. Eb 13,8)".

1824
Sui fondamenti antropologici e teologici della dignità personale della donna si sofferma la lettera apostolica sulla dignità e vocazione della donna. Il documento, che riprende, prosegue e specifica le riflessioni della catechesi del mercoledì dedicata per lungo tempo alla "teologia del corpo", vuole essere insieme l'adempimento di una promessa fatta nell'enciclica Redemptoris mater e la risposta alla richiesta dei padri sinodali. La lettura della lettera Mulieris dignitatem ( V11/1206 ss), anche per il suo carattere di meditazione biblico-teologica, potrà stimolare tutti, uomini e donne, e in particolare i cultori delle scienze umane e delle discipline teologiche, a proseguire nello studio critico così da approfondire sempre meglio, sulla base della dignità personale dell'uomo e della donna e della loro reciproca relazione, i valori ed i doni specifici della femminilità e della mascolinità, non solo nell'ambito del vivere sociale ma anche e soprattutto in quello dell'esistenza cristiana ed ecclesiale.

1825
La meditazione sui fondamenti antropologici e teologici della donna deve illuminare e guidare la risposta cristiana alla domanda così frequente, e talvolta così acuta, circa lo "spazio" che la donna può e deve avere nella chiesa e nella società. Dalla parola e dall'atteggiamento di Cristo, che sono normativi per la chiesa, risulta con grande chiarezza che nessuna discriminazione esiste sul piano del rapporto con Cristo, nel quale "non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù" (Gal 3,28) e sul piano della partecipazione alla vita e alla santità della chiesa, come splendidamente attesta la profezia di Gioele realizzatasi con la pentecoste: "Io effonderò il mio spirito sopra ogni uomo e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie" (Gl 3,1; cf. At 2,17ss). Come si legge nella lettera apostolica sulla dignità e sulla vocazione della donna, "tutt'e due - la donna come l'uomo - ... sono suscettibili in eguale misura dell'elargizione della verità divina e dell'amore nello Spirito santo. Ambedue accolgono le sue "visite" salvifiche e santificanti".

Missione nella chiesa e nel mondo

1826
51. Circa poi la partecipazione alla missione apostolica della chiesa, non c'è dubbio che, in forza del battesimo e della cresima, la donna - come l'uomo - è resa partecipe del triplice ufficio di Gesù Cristo sacerdote, profeta, re, e quindi è abilitata e impegnata all'apostolato fondamentale della chiesa: l' evangelizzazione. D'altra parte, proprio nel compimento di questo apostolato, la donna è chiamata a mettere in opera i suoi "doni" propri: anzitutto, il dono che è la sua stessa dignità personale, mediante la parola e la testimonianza di vita; i doni, poi, connessi con la sua vocazione femminile.

1827
Nella partecipazione alla vita e alla missione della chiesa la donna non può ricevere il sacramento dell'ordine e, pertanto, non può compiere le funzioni proprie del sacerdozio ministeriale. E' questa una disposizione che la chiesa ha sempre ritrovato nella precisa volontà, totalmente libera e sovrana, di Gesù Cristo che ha chiamato solo uomini come suoi apostoli; una disposizione che può trovare luce nel rapporto tra Cristo sposo e la chiesa sposa. Siamo nell'ambito della funzione , non della dignità e della santità. Si deve, in realtà, affermare: "Anche se la chiesa possiede una struttura "gerarchica", tuttavia tale struttura è totalmente ordinata alla santità delle membra di Cristo".

1828
Ma, come già diceva Paolo VI, se "noi non possiamo cambiare il comportamento di nostro Signore né la chiamata da lui rivolta alle donne, però dobbiamo riconoscere e promuovere il ruolo delle donne nella missione evangelizzatrice e nella vita della comunità cristiana". E' del tutto necessario passare dal riconoscimento teorico della presenza attiva e responsabile della donna nella chiesa alla realizzazione pratica. E in questo preciso senso deve leggersi la presente esortazione che si rivolge ai fedeli laici, con la deliberata e ripetuta specificazione "uomini e donne". Inoltre il nuovo Codice di diritto canonico contiene molteplici disposizioni sulla partecipazione della donna alla vita e alla missione della chiesa: sono disposizioni che esigono d'essere più comunemente conosciute e, sia pure secondo le diverse sensibilità culturali e opportunità pastorali, attuate con maggiore tempestività e risoluzione.

1829
Si pensi, ad esempio, alla partecipazione delle donne ai consigli pastorali diocesani e parrocchiali, come pure ai sinodi diocesani e ai concili particolari. In questo senso i padri sinodali hanno scritto: "Le donne partecipino alla vita della chiesa senza alcuna discriminazione, anche nelle consultazioni e nell'elaborazione di decisioni". E ancora: "Le donne, le quali hanno già una grande importanza nella trasmissione della fede e nel prestare servizi di ogni genere nella vita della chiesa, devono essere associate alla preparazione dei documenti pastorali e delle iniziative missionarie e devono essere riconosciute come cooperatrici della missione della chiesa nella famiglia, nella professione e nella comunità civile". Nell'ambito più specifico dell'evangelizzazione e della catechesi è da promuovere con più forza il compito particolare che la donna ha nella trasmissione della fede, non solo nella famiglia ma anche nei più diversi luoghi educativi e, in termini più ampi, in tutto ciò che riguarda l'accoglienza della parola di Dio, la sua comprensione e la sua comunicazione, anche mediante lo studio, la ricerca e la docenza teologica.

1830
Mentre adempirà il suo impegno di evangelizzazione, la donna sentirà più vivo il bisogno di essere evangelizzata. Così, con gli occhi illuminati dalla fede (cf. Ef 1,18), la donna potrà distinguere ciò che veramente risponde alla sua dignità personale e alla sua vocazione da tutto ciò che, magari sotto il pretesto di questa "dignità" e nel nome della "libertà" e del "progresso", fa sì che la donna non serva al consolidamento dei veri valori ma, al contrario, diventi responsabile del degrado morale delle persone, degli ambienti e della società. Operare un simile "discernimento" è un'urgenza storica indilazionabile e, nello stesso tempo, è una possibilità e un'esigenza che derivano dalla partecipazione all'ufficio profetico di Cristo e della sua chiesa da parte della donna cristiana. Il "discernimento", di cui parla più volte l'apostolo Paolo, non è solo valutazione delle realtà e degli avvenimenti alla luce della fede; è anche decisione concreta e impegno operativo, non solo nell'ambito della chiesa ma anche in quello della società umana.

1831
Si può dire che tutti i problemi del mondo contemporaneo, di cui già parlava la seconda parte della costituzione conciliare Gaudium et spes ( V1/1466 ss) e che il tempo non ha affatto né risolto né attutito, devono vedere le donne presenti e impegnate, e precisamente con il loro contributo tipico e insostituibile. In particolare, due grandi compiti affidati alla donna meritano di essere riproposti all'attenzione di tutti.

1832
Il compito, anzitutto, di dare piena dignità alla vita matrimoniale e alla maternità. Nuove possibilità si aprono oggi alla donna per una comprensione più profonda e per una realizzazione più ricca dei valori umani e cristiani implicati nella vita coniugale e nell'esperienza della maternità: l'uomo stesso - il marito e il padre - può superare forme di assenteismo o di presenza episodica e parziale, anzi può coinvolgersi in nuove e significative relazioni di comunione interpersonale, proprio grazie all'intervento intelligente, amorevole e decisivo della donna.

1833
Il compito, poi, di assicurare la dimensione morale della cultura , la dimensione cioè di una cultura degna dell'uomo , della sua vita personale e sociale. Il concilio Vaticano II sembra collegare la dimensione morale della cultura con la partecipazione dei laici alla missione regale di Cristo: "I laici, anche mettendo in comune la loro forza, risanino le istituzioni e le condizioni di vita del mondo, se ve ne sono che spingono i costumi al peccato, così che tutte siano rese conformi alle norme della giustizia, e anziché ostacolare, favoriscano l'esercizio delle virtù. Così agendo impregneranno di valore morale la cultura e i lavori dell'uomo".

1834
Man mano che la donna partecipa attivamente e responsabilmente alla funzione delle istituzioni, dalle quali dipende la salvaguardia del primato dovuto ai valori umani nella vita delle comunità politiche, le parole del concilio ora citate indicano un importante campo d'apostolato della donna: in tutte le dimensioni della vita di queste comunità, dalla dimensione socio-economica a quella socio-politica, devono essere rispettate e promosse la dignità personale della donna e la sua specifica vocazione: nell'ambito non solo individuale ma anche comunitario, non solo in forme lasciate alla libertà responsabile delle persone ma anche in forme garantite da leggi civili giuste.

1835
"Non è bene che l'uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto a lui simile" (Gn 2,18). Alla donna Dio creatore ha affidato l'uomo. Certo, l'uomo è stato affidato ad ogni uomo, ma in modo particolare alla donna, perché proprio la donna sembra avere una specifica sensibilità , grazie alla speciale esperienza della sua maternità, per l'uomo e per tutto ciò che costituisce il suo vero bene, a cominciare dal fondamentale valore della vita. Quanto grandi sono le possibilità e le responsabilità della donna in questo campo, in un tempo nel quale lo sviluppo della scienza e della tecnica non è sempre ispirato e misurato dalla vera sapienza, con l'inevitabile rischio di "disumanizzare" la vita umana, soprattutto quando essa esigerebbe amore più intenso e più generosa accoglienza.

1836
La partecipazione della donna alla vita della chiesa e della società, mediante i suoi doni, costituisce insieme la strada necessaria per la sua realizzazione personale - sulla quale oggi giustamente tanto si insiste - e il contributo originale della donna all'arricchimento della comunione ecclesiale e al dinamismo apostolico del popolo di Dio. In questa prospettiva si deve considerare la presenza anche dell'uomo, insieme alla donna.

Compresenza e collaborazione degli uomini e delle donne

1837
52. Non è mancata nell'aula sinodale la voce di quanti hanno espresso il timore che un'eccessiva insistenza portata sulla condizione e sul ruolo delle donne potesse sfociare in un'inaccettabile dimenticanza: quella, appunto, riguardante gli uomini. In realtà diverse situazioni ecclesiali devono lamentare l'assenza o la troppo scarsa presenza degli uomini, una parte dei quali abdica alle proprie responsabilità ecclesiali, lasciando che siano assolte soltanto dalle donne: così, ad esempio, la partecipazione alla preghiera liturgica in chiesa, l'educazione e in particolare la catechesi ai propri figli e ad altri fanciulli, la presenza ad incontri religiosi e culturali, la collaborazione ad iniziative caritative e missionarie.

1838
E' allora da urgere pastoralmente la presenza coordinata degli uomini e delle donne perché sia resa più completa, armonica e ricca la partecipazione dei fedeli laici alla missione salvifica della chiesa. La ragione fondamentale che esige e spiega la compresenza e la collaborazione degli uomini e delle donne non è solo, come ora si è rilevato, la maggiore significatività ed efficacia dell'azione pastorale della chiesa; né, tanto meno, il semplice dato sociologico di una convivenza umana che è naturalmente fatta di uomini e di donne. E', piuttosto, il disegno originario del Creatore che dal "principio" ha voluto l'essere umano come "unità dei due", ha voluto l'uomo e la donna come prima comunità di persone, radice di ogni altra comunità, e, nello stesso tempo, come "segno" di quella comunione interpersonale d'amore che costituisce la misteriosa vita intima di Dio uno e trino.

1839
Proprio per questo il modo più comune e capillare, e nello stesso tempo fondamentale, per assicurare questa presenza coordinata e armonica di uomini e di donne nella vita e nella missione della chiesa, è l'esercizio dei compiti e delle responsabilità della coppia e della famiglia cristiana, nel quale traspare e si comunica la varietà delle diverse forme di amore e di vita: la forma coniugale, paterna e materna, filiale e fraterna. Leggiamo nell'esortazione Familiaris consortio : "Se la famiglia cristiana è comunità, i cui vincoli sono rinnovati da Cristo mediante la fede e i sacramenti, la sua partecipazione alla missione della chiesa deve avvenire secondo una modalità comunitaria : insieme, dunque i coniugi in quanto coppia , i genitori e i figli in quanto famiglia , devono vivere il loro servizio alla chiesa e al mondo... La famiglia cristiana, poi, edifica il regno di Dio nella storia mediante quelle stesse realtà quotidiane che riguardano e contraddistinguono la sua condizione di vita : è allora nell' amore coniugale e familiare - vissuto nella sua straordinaria ricchezza di valori ed esigenze di totalità, unicità, fedeltà e fecondità - che si esprime e si realizza la partecipazione della famiglia cristiana alla missione profetica, sacerdotale e regale di Gesù Cristo e della sua chiesa".

1840
Situandosi in questa prospettiva, i padri sinodali hanno ricordato il significato che il sacramento del matrimonio deve assumere nella chiesa e nella società per illuminare e ispirare tutte le relazioni tra l'uomo e la donna. In tal senso hanno ribadito "l'urgente necessità che ciascun cristiano viva e annunci il messaggio di speranza contenuto nella relazione tra l'uomo e la donna. Il sacramento del matrimonio, che consacra questa relazione nella sua forma coniugale e la rivela come segno della relazione di Cristo con la sua chiesa, contiene un insegnamento di grande importanza per la vita della chiesa; questo insegnamento deve arrivare per mezzo della chiesa al mondo di oggi; tutte le relazioni tra l'uomo e la donna debbono ispirarsi a questo spirito. La chiesa deve utilizzare questa ricchezza ancora più pienamente". Gli stessi padri hanno giustamente rilevato che "la stima della verginità e il rispetto della maternità debbono ambedue essere ricuperate": ancora una volta per lo sviluppo di vocazioni diverse e complementari nel contesto vivo della comunione ecclesiale e al servizio della sua continua crescita.

Malati e sofferenti

1841
53. L'uomo è chiamato alla gioia ma fa quotidiana esperienza di tantissime forme di sofferenza e di dolore. Agli uomini e alle donne colpiti dalle più varie forme di sofferenza e di dolore i padri sinodali si sono rivolti nel loro finale Messaggio con queste parole: "Voi abbandonati ed emarginati dalla nostra società consumistica; voi malati, handicappati, poveri, affamati, emigranti, profughi, prigionieri, disoccupati, anziani, bambini abbandonati e persone sole; voi, vittime della guerra e di ogni violenza emananti dalla nostra società permissiva. La chiesa partecipa alla vostra sofferenza conducente al Signore, che vi associa alla sua passione redentrice e vi fa vivere alla luce della sua redenzione. Contiamo su di voi per insegnare al mondo intero che cosa è l'amore. Faremo tutto il possibile, perché troviate il posto di cui avete diritto nella società e nella chiesa".

1842
Nel contesto di un mondo sconfinato come quello della sofferenza umana, rivolgiamo ora l'attenzione a quanti sono colpiti dalla malattia nelle sue diverse forme: i malati, infatti, sono l'espressione più frequente e comune del soffrire umano. A tutti e a ciascuno è rivolto l'appello del Signore: anche i malati sono mandati come operai nella sua vigna. Il peso, che affatica le membra del corpo e scuote la serenità dell'anima, lungi dal distoglierli dal lavorare nella vigna, li chiama a vivere la loro vocazione umana e cristiana ed a partecipare alla crescita del regno di Dio in modalità nuove, anche più preziose. Le parole dell'apostolo Paolo devono divenire il loro programma e, prima ancora, sono luce che fa splendere ai loro occhi il significato di grazia della loro stessa situazione: "Completo quello che manca ai patimenti di Cristo nella mia carne, in favore del suo corpo, che è la chiesa" (Col 1,24). Proprio facendo questa scoperta, l'apostolo è approdato alla gioia: "Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi" (Col 1,24). Similmente molti malati possono diventare portatori della "gioia dello Spirito santo in molte tribolazioni" (1Ts 1,6) ed essere testimoni della risurrezione di Gesù. Come ha espresso un handicappato nel suo intervento in aula sinodale, "è di grande importanza porre in luce il fatto che i cristiani che vivono in situazioni di malattia, di dolore e di vecchiaia, non sono invitati da Dio soltanto ad unire il proprio dolore con la passione di Cristo, ma anche ad accogliere già ora in se stessi e a trasmettere agli altri la forza del rinnovamento e la gioia di Cristo risuscitato (cf. 2Cor 4,10-11; 1Pt 4,13; Rm 8,18ss)".

1843
Da parte sua - come si legge nella lettera apostolica Salvifici doloris - "la chiesa, che nasce dal mistero della redenzione nella croce di Cristo, è tenuta a cercare l'incontro con l'uomo in modo particolare sulla via della sofferenza. In un tale incontro l'uomo "diventa la via della chiesa", ed è, questa, una delle vie più importanti". Ora l'uomo sofferente è via della chiesa perché egli è, anzitutto, via di Cristo stesso, il buon samaritano che "non passa oltre", ma "ne ha compassione, si fa vicino... gli fascia le ferite... si prende cura di lui" (Lc 10,32-34).

1844
La comunità cristiana ha ritrascritto, di secolo in secolo nell'immensa moltitudine delle persone malate e sofferenti, la parabola evangelica del buon samaritano, rivelando e comunicando l'amore di guarigione e di consolazione di Gesù Cristo. Ciò è avvenuto mediante la testimonianza della vita religiosa consacrata al servizio degli ammalati e mediante l'infaticabile impegno di tutti gli operatori sanitari. Oggi, anche negli stessi ospedali e case di cura cattolici si fa sempre più numerosa, e talvolta anche totale ed esclusiva, la presenza dei fedeli laici, uomini e donne: proprio loro, medici, infermieri, altri operatori della salute, volontari, sono chiamati ad essere l'immagine viva di Cristo e della sua chiesa nell'amore verso i malati e i sofferenti.

Azione pastorale rinnovata

1845
54. E' necessario che questa preziosissima eredità, che la chiesa ha ricevuto da Gesù Cristo "medico di carne e di spirito", non solo non venga mai meno, ma sia sempre più valorizzata e arricchita attraverso una ripresa e un rilancio deciso di un' azione pastorale per e con i malati e i sofferenti. Dev'essere un'azione capace di sostenere e promuovere attenzione, vicinanza, presenza, ascolto, dialogo, condivisione e aiuto concreto verso l'uomo nei momenti nei quali, a causa della malattia e della sofferenza, sono messe a dura prova non solo la sua fiducia nella vita ma anche la sua stessa fede in Dio e nel suo amore di Padre. Questo rilancio pastorale ha la sua espressione più significativa nella celebrazione sacramentale con e per gli ammalati, come fortezza nel dolore e nella debolezza, come speranza nella disperazione, come luogo d'incontro e di festa.

1846
Uno dei fondamentali obiettivi di questa rinnovata e intensificata azione pastorale, che non può non coinvolgere e in modo coordinato tutte le componenti della comunità ecclesiale, è di considerare il malato, il portatore di handicap, il sofferente non semplicemente come termine dell'amore e del servizio della chiesa, bensì come soggetto attivo e responsabile dell'opera di evangelizzazione e di salvezza. In questa prospettiva la chiesa ha una buona novella da far risuonare all'interno di società e di culture che, avendo smarrito il senso del soffrire umano, "censurano" ogni discorso su tale dura realtà della vita. E la buona novella sta nell'annuncio che il soffrire può avere anche un significato positivo per l'uomo e per la stessa società, chiamato com'è a divenire una forma di partecipazione alla sofferenza salvifica di Cristo e alla sua gioia di risorto, e pertanto una forza di santificazione e di edificazione della chiesa.

1847
L'annuncio di questa buona novella diventa credibile allorquando non risuona semplicemente sulle labbra, ma passa attraverso la testimonianza della vita, sia di tutti coloro che curano con amore i malati, gli handicappati e i sofferenti, sia di questi stessi, resi sempre più coscienti e responsabili del loro posto e del loro compito nella chiesa e per la chiesa.

1848
Di grande utilità perché "la civiltà dell'amore" possa fiorire e fruttificare nell'immenso mondo del dolore umano, potrà essere la rinnovata meditazione della lettera apostolica Salvifici doloris , di cui ricordiamo ora le righe conclusive: "Occorre pertanto, che sotto la croce del Calvario idealmente convengano tutti i sofferenti che credono in Cristo e, particolarmente, coloro che soffrono a causa della loro fede in lui crocifisso e risorto, affinché l'offerta delle loro sofferenze affretti il compimento della preghiera dello stesso Salvatore per l'unità di tutti (cf. Gv 17,11.21-22). Là pure convengano gli uomini di buona volontà, perché sulla croce sta il "Redentore dell'uomo", l'Uomo dei dolori, che in sé ha assunto le sofferenze fisiche e morali degli uomini di tutti i tempi, affinché nell'amore possano trovare il senso salvifico del loro dolore e risposte valide a tutti i loro interrogativi. Insieme con Maria , madre di Cristo, che stava sotto la croce (cf. Gv 19,25), ci fermiamo accanto a tutte le croci dell'uomo d'oggi... E chiediamo a tutti voi, che soffrite , di sostenerci. Proprio a voi, che siete deboli, chiediamo che diventiate una sorgente di forza per la chiesa e per l'umanità. Nel terribile combattimento tra le forze del bene e del male, di cui ci offre spettacolo il nostro mondo contemporaneo, vinca la vostra sofferenza in unione con la croce di Cristo!".

Stati di vita e vocazioni


1849
55. Operai della vigna sono tutti i membri del popolo di Dio: i sacerdoti, i religiosi e le religiose, i fedeli laici, tutti ad un tempo oggetto e soggetto della comunione della chiesa e della partecipazione alla sua missione di salvezza. Tutti e ciascuno lavoriamo nell'unica e comune vigna del Signore con carismi e con ministeri diversi e complementari. Già sul piano dell' essere , prima ancora che su quello dell' agire , i cristiani sono tralci dell'unica feconda vite che è Cristo, sono membra vive dell'unico corpo del Signore edificato nella forza dello Spirito. Sul piano dell'essere: non significa solo mediante la vita di grazia e di santità, che è la prima e più rigogliosa sorgente della fecondità apostolica e missionaria della santa madre chiesa; ma significa anche mediante lo stato di vita che caratterizza i sacerdoti e i diaconi, i religiosi e le religiose, i membri degli istituti secolari, i fedeli laici.

1850
Nella chiesa-comunione gli stati di vita sono tra loro così collegati da essere ordinati l'uno all'altro. Certamente comune, anzi unico è il loro significato profondo: quello di essere modalità secondo cui vivere l'eguale dignità cristiana e l'universale vocazione alla santità nella perfezione dell'amore. Sono modalità insieme diverse e complementari , sicché ciascuna di esse ha una sua originale e inconfondibile fisionomia e nello stesso tempo ciascuna di esse si pone in relazione alle altre e al loro servizio. Così lo stato di vita laicale ha nell'indole secolare la sua specificità e realizza un servizio ecclesiale nel testimoniare e nel richiamare, a suo modo, ai sacerdoti, ai religiosi e alle religiose il significato che le realtà terrene e temporali hanno nel disegno salvifico di Dio. A sua volta il sacerdozio ministeriale rappresenta la permanente garanzia della presenza sacramentale, nei diversi tempi e luoghi, di Cristo redentore. Lo stato religioso testimonia l'indole escatologica della chiesa, ossia la sua tensione verso il regno di Dio, che viene prefigurato e in qualche modo anticipato e pregustato dai voti di castità, povertà e obbedienza.

1851
Tutti gli stati di vita, sia nel loro insieme sia ciascuno di essi in rapporto agli altri, sono al servizio della crescita della chiesa, sono modalità diverse che si unificano profondamente nel "mistero di comunione" della chiesa e che si coordinano dinamicamente nella sua unica missione. In tal modo, l'unico e identico mistero della chiesa rivela e rivive, nella diversità degli stati di vita e nella varietà delle vocazioni, l'infinita ricchezza del mistero di Gesù Cristo. Come amano ripetere i padri, la chiesa è come un campo dall'affascinante e meravigliosa varietà di erbe, piante, fiori e frutti. Sant'Ambrogio scrive: "Un campo produce molti frutti, ma migliore è quello che abbonda di frutti e di fiori. Orbene, il campo della santa chiesa è fecondo degli uni e degli altri. Qui puoi vedere le gemme della verginità metter fiori, là la vedovanza dominare austera come le foreste nella pianura; altrove la ricca mietitura delle nozze benedette dalla chiesa riempire i grandi granai del mondo di messe abbondante, e i torchi del Signore Gesù ridondare come di frutti di vite rigogliosa, frutti dei quali sono ricche le nozze cristiane".

Le varie vocazioni laicali

1852
56. La ricca varietà della chiesa trova una sua ulteriore manifestazione all'interno di ciascuno stato di vita. Così entro lo stato di vita laicale si danno diverse "vocazioni" , ossia diversi cammini spirituali e apostolici che riguardano i singoli fedeli laici. Nell'alveo d'una vocazione laicale "comune" fioriscono vocazioni laicali "particolari". In questo ambito possiamo ricordare anche l'esperienza spirituale che è maturata recentemente nella chiesa con il fiorire di diverse forme di istituti secolari: ai fedeli laici, ma anche agli stessi sacerdoti, è aperta la possibilità di professare i consigli evangelici di povertà, castità e obbedienza per mezzo dei voti o delle promesse, conservando pienamente la propria condizione laicale o clericale. Come hanno rilevato i padri sinodali, "lo Spirito santo suscita anche altre forme di offerta di se stessi cui si dedicano persone che rimangono pienamente nella vita laicale".

1853
Possiamo concludere rileggendo una bella pagina di san Francesco di Sales, che tanto ha promosso la spiritualità dei laici. Parlando della "devozione", ossia della perfezione cristiana o "vita secondo lo Spirito", egli presenta in una maniera semplice e splendida la vocazione di tutti i cristiani alla santità e nello stesso tempo la forma specifica con cui i singoli cristiani la realizzano: "Nella creazione Dio comandò alle piante di produrre i loro frutti, ognuna "secondo la propria specie" (Gn 1,11). Lo stesso comando rivolge ai cristiani, che sono le piante vive della sua chiesa, perché producano frutti di devozione, ognuno secondo il suo stato e la sua condizione. La devozione deve essere praticata in modo diverso dal gentiluomo, dall'artigiano, dal domestico, dal principe, dalla vedova, dalla donna non sposata e da quella coniugata. Ciò non basta, bisogna anche accordare la pratica della devozione alle forze, agli impegni e ai doveri di ogni persona... E' un errore, anzi un'eresia, voler escludere l'esercizio della devozione dall'ambiente militare, dalla bottega degli artigiani, dalla corte dei principi, dalle case dei coniugati. E' vero, Filotea, che la devozione puramente contemplativa, monastica e religiosa può essere vissuta solo in questi stati, ma, oltre a questi tre tipi di devozione, ve ne sono molti altri capaci di rendere perfetti coloro che vivono in condizioni secolari. Perciò dovunque ci troviamo, possiamo e dobbiamo aspirare alla vita perfetta".

1854
Ponendosi nella stessa linea il concilio Vaticano II scrive: "Questo comportamento spirituale dei laici deve assumere una peculiare caratteristica dallo stato di matrimonio e di famiglia, di celibato o di vedovanza, dalla condizione di infermità, dall'attività professionale e sociale. Non tralascino, dunque, di coltivare costantemente le qualità e le doti ad essi conferite corrispondenti a tali condizioni, e di servirsi dei propri doni ricevuti dallo Spirito santo". Ciò che vale delle vocazioni spirituali vale anche, e in un certo senso a maggior ragione, delle infinite varie modalità secondo cui tutti e singoli i membri della chiesa sono operai che lavorano nella vigna del Signore, edificando il corpo mistico di Cristo. Veramente ciascuno è chiamato per nome, nell'unicità e irripetibilità della sua storia personale, a portare il suo proprio contributo per l'avvento del regno di Dio. Nessun talento, neppure il più piccolo, può essere nascosto e lasciato inutilizzato (cf. Mt 25,24-27). L'apostolo Pietro ci ammonisce: "Ciascuno viva secondo la grazia ricevuta, mettendola a servizio degli altri, come buoni amministratori di una multiforme grazia di Dio" (1Pt 4,10).

Capitolo Quinto: PERCHE PORTIATE PIU' FRUTTO LA FORMAZIONE DEI FEDELI LAICI

Maturare in continuità

1855
57. L'immagine evangelica della vite e dei tralci ci rivela un altro aspetto fondamentale della vita e della missione dei fedeli laici: la chiamata a crescere, a maturare in continuità, a portare sempre più frutto. Come solerte vignaiolo, il Padre si prende cura della sua vigna. La presenza premurosa di Dio è ardentemente invocata da Israele, che così prega: "Dio degli eserciti, volgiti, / guarda dal cielo e vedi / e visita questa vigna, / proteggi il ceppo che la tua destra ha piantato, / il germoglio che ti sei coltivato" (Sal 80,15-16). Gesù stesso parla dell'opera del Padre: "Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto" (Gv 15,1-2).

1856
La vitalità dei tralci è legata al loro rimanere radicati nella vite, che è Cristo Gesù: "Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto , perché senza di me non potete far nulla" (Gv 15,5). L'uomo è interpellato nella sua libertà dalla chiamata di Dio a crescere, a maturare, a portare frutto. Non può non rispondere, non può non assumersi la sua personale responsabilità. E' a questa responsabilità, tremenda ed esaltante, che alludono le gravi parole di Gesù: "Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano" (Gv 15,6).

1857
In questo dialogo tra Dio che chiama e la persona interpellata nella sua responsabilità si situa la possibilità, anzi la necessità di una formazione integrale e permanente dei fedeli laici, alla quale i padri sinodali hanno giustamente riservato un'ampia parte del loro lavoro. In particolare, dopo aver descritto la formazione cristiana come "un continuo processo personale di maturazione nella fede e di configurazione con il Cristo, secondo la volontà del Padre, con la guida dello Spirito santo", hanno chiaramente affermato che "la formazione dei fedeli laici va posta tra le priorità della diocesi e va collocata nei programmi di azione pastorale in modo che tutti gli sforzi della comunità (sacerdoti, laici e religiosi) convergano a questo fine".

Scoprire e vivere la propria vocazione e missione

1858
58. La formazione dei fedeli laici ha come obiettivo fondamentale la scoperta sempre più chiara della propria vocazione e la disponibilità sempre più grande a viverla nel compimento della propria missione. Dio chiama me e manda me come operaio nella sua vigna; chiama me e manda me a lavorare per l'avvento del suo Regno nella storia: questa vocazione e missione personale definisce la dignità e la responsabilità dell'intera opera formativa, ordinata al riconoscimento gioioso e grato di tale dignità e all'assolvimento fedele e generoso di tale responsabilità.

1859
Infatti, Dio dall'eternità ha pensato a noi e ci ha amato come persone uniche e irripetibili, chiamando ciascuno di noi con il suo proprio nome, come il buon pastore che "chiama le sue pecore per nome"( Gv 10,3). Ma il piano eterno di Dio si rivela a ciascuno di noi solo nello sviluppo storico della nostra vita e delle sue vicende, e pertanto solo gradualmente: in un certo senso, di giorno in giorno. Ora per poter scoprire la concreta volontà del Signore sulla nostra vita sono sempre indispensabili l'ascolto pronto e docile della parola di Dio e della chiesa, la preghiera filiale e costante, il riferimento a una saggia e amorevole guida spirituale, la lettura nella fede dei doni e dei talenti ricevuti e nello stesso tempo delle diverse situazioni sociali e storiche entro cui si è inseriti.

1860
Nella vita di ciascun fedele laico ci sono poi momenti particolarmente significativi e decisivi per discernere la chiamata di Dio e per accogliere la missione da lui affidata: tra questi ci sono i momenti dell' adolescenza e della giovinezza. Nessuno però dimentichi che il Signore, come il padrone con gli operai della vigna, chiama - nel senso di rendere concreta e puntuale la sua santa volontà - a tutte le ore della vita: per questo la vigilanza, quale attenzione premurosa alla voce di Dio, è un atteggiamento fondamentale e permanente del discepolo.

1861
Non si tratta, comunque, soltanto di sapere quello che Dio vuole da noi, da ciascuno di noi nelle varie situazioni della vita. Occorre fare quello che Dio vuole: così ci ricorda la parola di Maria, la madre di Gesù, rivolta ai servi di Cana: "Fate quello che vi dirà" (Gv 2,5). E per agire in fedeltà alla volontà di Dio occorre essere capaci e rendersi sempre più capaci. Certo, con la grazia del Signore, che non manca mai, come dice san Leone Magno: "Darà il vigore colui che conferì la dignità!"; ma anche con la libera e responsabile collaborazione di ciascuno di noi.

1862
Ecco il compito meraviglioso e impegnativo che attende tutti i fedeli laici, tutti i cristiani, senza sosta alcuna: conoscere sempre più le ricchezze della fede e del battesimo e viverle in crescente pienezza. L'apostolo Pietro, parlando di nascita e di crescita come delle due tappe della vita cristiana, ci esorta: "Come bambini appena nati, bramate il puro latte spirituale, per crescere con esso verso la salvezza" (1Pt 2,2).

Una formazione integrale a vivere in unità


1863
59. Nello scoprire e nel vivere la propria vocazione e missione, i fedeli laici devono essere formati a quell' unità di cui è segnato il loro stesso essere di membri della chiesa e di cittadini della società umana. Nella loro esistenza non possono esserci due vite parallele: da una parte, la vita cosiddetta "spirituale", con i suoi valori e con le sue esigenze; e dall'altra, la vita cosiddetta "secolare", ossia la vita di famiglia, di lavoro, dei rapporti sociali, dell'impegno politico e della cultura. Il tralcio, radicato nella vite che è Cristo, porta i suoi frutti in ogni settore dell'attività e dell'esistenza. Infatti, tutti i vari campi della vita laicale rientrano nel disegno di Dio, che li vuole come il "luogo storico" del rivelarsi e del realizzarsi della carità di Gesù Cristo a gloria del Padre e a servizio dei fratelli. Ogni attività, ogni situazione, ogni impegno concreto - come, ad esempio, la competenza e la solidarietà nel lavoro, l'amore e la dedizione nella famiglia e nell'educazione dei figli, il servizio sociale e politico, la proposta della verità nell'ambito della cultura- sono occasioni provvidenziali per un "continuo esercizio della fede, della speranza e della carità".

1864
A questa unità di vita il concilio Vaticano II ha invitato tutti i fedeli laici denunciando con forza la gravità della frattura tra fede e vita, tra Vangelo e cultura: "Il concilio esorta i cristiani, che sono cittadini dell'una e dell'altra città, di sforzarsi di compiere fedelmente i propri doveri terreni, facendosi guidare dallo spirito del Vangelo. Sbagliano coloro che, sapendo che qui non abbiamo una cittadinanza stabile ma cerchiamo quella futura, pensano di poter per questo trascurare i propri doveri terreni, e non riflettono che invece proprio la fede li obbliga ancora di più a compierli, secondo la vocazione di ciascuno (...). Il distacco, che si constata in molti, tra la fede che professano e la loro vita quotidiana, va annoverato tra i più gravi errori del nostro tempo". Perciò ho affermato che una fede che non diventa cultura è una fede "non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta".

Aspetti della formazione


1865
60. Entro questa sintesi di vita si situano i molteplici e coordinati aspetti della formazione integrale dei fedeli laici. Non c'è dubbio che la formazione spirituale debba occupare un posto privilegiato nella vita di ciascuno, chiamato a crescere senza sosta nell'intimità con Gesù Cristo, nella conformità alla volontà del Padre, nella dedizione ai fratelli nella carità e nella giustizia. Scrive il concilio: "Questa vita d'intima unione con Cristo si alimenta nella chiesa con gli aiuti spirituali, che sono comuni a tutti i fedeli, soprattutto con la partecipazione attiva alla sacra liturgia, e questi aiuti i laici devono usarli in modo che, mentre compiono con rettitudine gli stessi doveri del mondo nelle condizioni ordinarie di vita, non separino dalla propria vita l'unione con Cristo, ma, svolgendo la propria attività secondo il volere divino, crescano in essa".

1866
Sempre più urgente si rivela oggi la formazione dottrinale dei fedeli laici, non solo per il naturale dinamismo di approfondimento della loro fede, ma anche per l'esigenza di "rendere ragione della speranza" che è in loro di fronte al mondo e ai suoi gravi e complessi problemi. Si rendono così assolutamente necessarie una sistematica azione di catechesi , da graduarsi in rapporto all'età e alle diverse situazioni di vita, e una più decisa promozione cristiana della cultura , come risposta agli eterni interrogativi che agitano l'uomo e la società d'oggi.

1867
In particolare, soprattutto per i fedeli laici variamente impegnati nel campo sociale e politico, è del tutto indispensabile una conoscenza più esatta della dottrina sociale della chiesa , come ripetutamente i padri sinodali hanno sollecitato nei loro interventi. Parlando della partecipazione politica dei fedeli laici, si sono così espressi: "Perché i laici possano realizzare attivamente questo nobile proposito nella politica (ossia il proposito di far riconoscere e stimare i valori umani e cristiani), non bastano le esortazioni, ma bisogna offrire loro la dovuta formazione della coscienza sociale, specialmente nella dottrina sociale della chiesa, la quale contiene i principi di riflessione, i criteri di giudizio e le direttrici pratiche (cf. Congregazione per la dottrina della fede ( V10/293 ss), Istruzione su libertà cristiana e liberazione , 72). Tale dottrina deve essere già presente nella istruzione catechistica generale, negli incontri specializzati e nelle scuole ed università. Questa dottrina sociale della chiesa è, tuttavia, dinamica, cioè adattata alle circostanze dei tempi e dei luoghi. E' diritto e dovere dei pastori proporre i principi morali anche sull'ordine sociale; è dovere di tutti i cristiani dedicarsi alla difesa dei diritti umani; tuttavia, la partecipazione attiva nei partiti politici è riservata ai laici".

1868
E, infine, nel contesto della formazione integrale e unitaria dei fedeli laici, è particolarmente significativa per la loro azione missionaria e apostolica la personale crescita nei valori umani. Proprio in questo senso il concilio ha scritto: "(i laici) facciano pure gran conto della competenza professionale, del senso della famiglia e del senso civico e di quelle virtù che riguardano i rapporti sociali, cioè la probità, lo spirito di giustizia, la sincerità, la cortesia, la fortezza d'animo, senza le quali non ci può essere neanche vera vita cristiana". Nel maturare la sintesi organica della loro vita, che insieme è espressione dell'unità del loro essere e condizione per l'efficace compimento della loro missione, i fedeli laici saranno interiormente guidati e sostenuti dallo Spirito santo, quale Spirito di unità e di pienezza di vita.

Collaboratori di Dio educatore


1869
61. Quali sono i luoghi e i mezzi della formazione dei fedeli laici? Quali sono le persone e le comunità chiamate ad assumersi il compito della formazione integrale e unitaria dei fedeli laici? Come l'opera educativa umana è intimamente congiunta con la paternità e la maternità, così la formazione cristiana trova la sua radice e la sua forza in Dio, il Padre che ama ed educa i suoi figli. Sì, Dio è il primo e grande educatore del suo popolo , come dice lo stupendo passo del cantico di Mosè: "Egli lo trovò in terra deserta, / in una landa di ululati solitari. / Lo circondò, lo allevò, / lo custodì come pupilla del suo occhio. / Come un'aquila che veglia la sua nidiata, / che vola sopra i suoi nati, / egli spiegò le sue ali e lo prese, / lo sollevò sulle sue ali. / Il Signore lo guidò da solo, / non c'era con lui alcun dio straniero" (Dt 32,10-12; cf. 8,5).

1870
L'opera educativa di Dio si rivela e si compie in Gesù, il Maestro, e raggiunge dal di dentro il cuore d'ogni uomo grazie alla presenza dinamica dello Spirito. A prendere parte all'opera educativa divina è chiamata la chiesa madre , sia in se stessa, sia nelle sue varie articolazioni ed espressioni. E' così che i fedeli laici sono formati dalla chiesa e nella chiesa , in una reciproca comunione e collaborazione di tutti i suoi membri: sacerdoti, religiosi e fedeli laici. Così l'intera comunità ecclesiale, nei suoi diversi membri, riceve la fecondità dello Spirito e ad essa coopera attivamente. In tal senso Metodio di Olimpo scriveva: "Gli imperfetti... sono portati e formati, come nel seno di una madre, dai più perfetti finché siano generati e partoriti per la grandezza e la bellezza della virtù", come avvenne per Paolo, portato e introdotto nella chiesa dai perfetti (nella persona di Anania) e diventato poi a sua volta perfetto e fecondo di tanti figli.

1871
Educatrice è, anzitutto, la chiesa universale , nella quale il papa svolge il ruolo di primo formatore dei fedeli laici. A lui, come successore di Pietro, spetta il ministero di "confermare nella fede i fratelli", insegnando a tutti i credenti i contenuti essenziali della vocazione e missione cristiana ed ecclesiale. Non solo la sua parola diretta, ma anche la sua parola veicolata dai documenti dei vari dicasteri della Santa Sede chiede l'ascolto docile e amoroso dei fedeli laici.

1872
La chiesa una e universale è presente nelle varie parti del mondo nelle chiese particolari. In ognuna di esse il vescovo ha una responsabilità personale nei riguardi dei fedeli laici, che deve formare mediante l'annuncio della Parola, la celebrazione dell'eucaristia e dei sacramenti, l'animazione e la guida della loro vita cristiana.

1873
Entro la chiesa particolare o diocesi si situa ed opera la parrocchia , la quale ha un compito essenziale per la formazione più immediata e personale dei fedeli laici. Infatti, in un rapporto che può raggiungere più facilmente le singole persone e i singoli gruppi, la parrocchia è chiamata a educare i suoi membri all'ascolto della Parola, al dialogo liturgico e personale con Dio, alla vita di carità fraterna, facendo percepire in modo più diretto e concreto il senso della comunione ecclesiale e della responsabilità missionaria.

1874
All'interno poi di talune parrocchie, soprattutto se vaste e disperse, le piccole comunità ecclesiali presenti possono essere di notevole aiuto nella formazione dei cristiani, potendo rendere più capillari e incisive la coscienza e l'esperienza della comunione e della missione ecclesiale. Un aiuto può essere dato, come hanno detto i padri sinodali, anche da una catechesi postbattesimale a modo di catecumenato, mediante la riproposizione di alcuni elementi del Rito dell'iniziazione cristiana degli adulti , destinati a far cogliere e vivere le immense e straordinarie ricchezze e responsabilità del battesimo ricevuto.

1875
Nella formazione che i fedeli laici ricevono nella diocesi e nella parrocchia, in particolare al senso della comunione e della missione, di speciale importanza è l'aiuto che i diversi membri della chiesa reciprocamente si danno: è un aiuto che insieme rivela e attua il mistero della chiesa madre ed educatrice. I sacerdoti e i religiosi devono aiutare i fedeli laici nella loro formazione. In questo senso i padri del sinodo hanno invitato i presbiteri e i candidati agli ordini a "prepararsi accuratamente ad essere capaci di favorire la vocazione e la missione dei laici". A loro volta, gli stessi fedeli laici possono e devono aiutare i sacerdoti e i religiosi nel loro cammino spirituale e pastorale.

Altri ambiti educativi

1876
62. Pure la famiglia cristiana , in quanto "chiesa domestica", costituisce una scuola nativa e fondamentale per la formazione della fede: il padre e la madre ricevono dal sacramento del matrimonio la grazia e il ministero dell'educazione cristiana nei riguardi dei figli, ai quali testimoniano e trasmettono insieme valori umani e valori religiosi. Imparando le prime parole, i figli imparano anche a lodare Dio, che sentono vicino come Padre amorevole e provvidente; imparando i primi gesti d'amore, i figli imparano anche ad aprirsi agli altri, cogliendo nel dono di sé il senso del vivere umano. La stessa vita quotidiana di una famiglia autenticamente cristiana costituisce la prima "esperienza di chiesa", destinata a trovare conferma e sviluppo nel graduale inserimento attivo e responsabile dei figli nella più ampia comunità ecclesiale e nella società civile. Quanto più i coniugi e i genitori cristiani cresceranno nella consapevolezza che la loro "chiesa domestica" è partecipe della vita e missione della chiesa universale, tanto più i figli potranno essere formati al "senso della chiesa" e sentiranno tutta la bellezza di dedicare le loro energie al servizio del regno di Dio.

1877
Luoghi importanti di formazione sono anche le scuole e le università cattoliche , come pure i centri di rinnovamento spirituale che oggi vanno sempre più diffondendosi. Come hanno rilevato i padri sinodali, nell'attuale contesto sociale e storico, segnato da una profonda svolta culturale, non basta più la partecipazione - peraltro sempre necessaria e insostituibile - dei genitori cristiani alla vita della scuola; occorre preparare fedeli laici che si dedichino all'opera educativa come a una vera e propria missione ecclesiale; occorre costituire e sviluppare delle "comunità educative", formate insieme da genitori, docenti, sacerdoti, religiosi e religiose, rappresentanti di giovani. E perché la scuola possa degnamente svolgere la sua funzione formativa, i fedeli laici si devono sentire impegnati a esigere da tutti e a promuovere per tutti una vera libertà di educazione, anche mediante un'opportuna legislazione civile.

1878
I padri sinodali hanno avuto parole di stima e d'incoraggiamento verso tutti quei fedeli laici, uomini e donne, che con spirito civile e cristiano svolgono un compito educativo nella scuola e negli istituti formativi. Hanno inoltre rilevato l'urgente necessità che i fedeli laici maestri e professori nelle diverse scuole, cattoliche o no, siano veri testimoni del Vangelo, mediante l'esempio della vita, la competenza e la rettitudine professionale, l'ispirazione cristiana dell'insegnamento, salva sempre - com'è evidente - l'autonomia delle varie scienze e discipline. E' di singolare importanza che la ricerca scientifica e tecnica svolta dai fedeli laici sia retta dal criterio del servizio all'uomo nella totalità dei suoi valori e delle sue esigenze: a questi fedeli laici la chiesa affida il compito di rendere a tutti più comprensibile l'intimo legame che esiste tra la fede e la scienza, tra il Vangelo e la cultura umana.

1879
"Questo sinodo - leggiamo in una proposizione - fa appello al ruolo profetico delle scuole e delle università cattoliche e loda la dedizione dei maestri e degli insegnanti, al presente in massima parte laici, perché negli istituti di educazione cattolica possano formare uomini e donne in cui si incarni il "comandamento nuovo". La presenza contemporanea di sacerdoti e laici, e anche di religiosi e religiose, offre agli alunni un'immagine viva della chiesa e rende più facile la conoscenza delle sue ricchezze (cf. Congregazione per l'educazione cattolica, Il laico educatore, testimone della fede nella scuola )" ( V8/298 ss).

1880
Anche i gruppi, le associazioni e i movimenti hanno un loro posto nella formazione dei fedeli laici: hanno, infatti, la possibilità, ciascuno con i propri metodi, di offrire una formazione profondamente inserita nella stessa esperienza di vita apostolica, come pure hanno l'opportunità di integrare, concretizzare e specificare la formazione che i loro aderenti ricevono da altre persone e comunità.

La formazione reciprocamente ricevuta e donata da tutti

1881
63. La formazione non è il privilegio di alcuni, bensì un diritto e un dovere per tutti. I padri sinodali al riguardo hanno detto: "Sia offerta a tutti la possibilità della formazione, soprattutto ai poveri, i quali possono essere essi stessi fonte di formazione per tutti", e hanno aggiunto: "Per la formazione si usino mezzi adatti che aiutino ciascuno ad assecondare la piena vocazione umana e cristiana".

1882
Ai fini d'una pastorale veramente incisiva ed efficace è da svilupparsi, anche mettendo in atto opportuni corsi o scuole apposite, la formazione dei formatori. Formare coloro che, a loro volta, dovranno essere impegnati nella formazione dei fedeli laici costituisce un'esigenza primaria per assicurare la formazione generale e capillare di tutti i fedeli laici.

1883
Nell'opera formativa un'attenzione particolare dovrà essere riservata alla cultura locale, secondo l'esplicito invito dei padri del sinodo: "La formazione dei cristiani terrà nel massimo conto la cultura umana del luogo, la quale contribuisce alla stessa formazione e aiuterà a giudicare il valore sia insito nella cultura tradizionale, sia proposto in quella moderna. Si dia la dovuta attenzione anche alle diverse culture che possono coesistere in uno stesso popolo e in una stessa nazione. La chiesa, madre e maestra dei popoli, si sforzerà di salvare, dove ne sia il caso, la cultura delle minoranze che vivono in grandi nazioni".

1884
Nell'opera formativa alcune convinzioni si rivelano particolarmente necessarie e feconde. La convinzione, anzitutto, che non si dà formazione vera ed efficace se ciascuno non si assume e non sviluppa da se stesso la responsabilità della formazione: questa, infatti, si configura essenzialmente come "autoformazione".

1885
La convinzione, inoltre, che ognuno di noi è il termine e insieme il principio della formazione: più veniamo formati e più sentiamo l'esigenza di proseguire e approfondire tale formazione, come pure più veniamo formati e più ci rendiamo capaci di formare gli altri.

1886
Di singolare importanza è la coscienza che l'opera formativa, mentre ricorre con intelligenza ai mezzi e ai metodi delle scienze umane, è tanto più efficace quanto più è disponibile alla azione di Dio : solo il tralcio che non teme di lasciarsi potare dal vignaiolo produce più frutto per sé e per gli altri.

APPELLO E PREGHIERA

1887
64. A conclusione di questo documento post-sinodale ripropongo ancora una volta l'invito del "padrone di casa" di cui parla il Vangelo: Andate anche voi nella mia vigna. Si può dire che il significato del sinodo sulla vocazione e missione dei laici stia proprio in questo appello del Signore Gesù rivolto a tutti , e in particolare ai fedeli laici, uomini e donne.

1888
I lavori sinodali hanno costituito per tutti i partecipanti una grande esperienza spirituale: quella di una chiesa attenta, nella luce e nella forza dello Spirito, a discernere e ad accogliere il rinnovato appello del suo Signore in ordine a riproporre al mondo d'oggi il mistero della sua comunione e il dinamismo della sua missione di salvezza, in particolare cogliendo il posto e il ruolo specifici dei fedeli laici. Il frutto poi del sinodo, che questa esortazione intende sollecitare il più abbondante possibile in tutte le chiese sparse nel mondo, sarà dato dall'effettiva accoglienza che l'appello del Signore riceverà da parte dell'intero popolo di Dio e, in esso, da parte dei fedeli laici.

1889
Per questo rivolgo a tutti e a ciascuno, pastori e fedeli, la vivissima esortazione a non stancarsi mai di mantenere vigile, anzi di rendere sempre più radicata nella mente, nel cuore e nella vita la coscienza ecclesiale , la coscienza cioè di essere membri della chiesa di Gesù Cristo, partecipi del suo mistero di comunione e della sua energia apostolica e missionaria.

1890
E' di particolare importanza che tutti i cristiani siano consapevoli di quella straordinaria dignità che è stata loro donata mediante il santo battesimo: per grazia siamo chiamati ad essere figli amati dal Padre, membra incorporate a Gesù Cristo e alla sua chiesa, templi vivi e santi dello Spirito. Riascoltiamo, commossi e grati, le parole di Giovanni evangelista: "Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!" (1Gv 3,1). Questa "novità cristiana" donata ai membri della chiesa, mentre costituisce per tutti la radice della loro partecipazione all'ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo e della loro vocazione alla santità nell'amore, si esprime e si attua nei fedeli laici secondo "l'indole secolare" loro "propria e peculiare".

1891
La coscienza ecclesiale comporta, unitamente al senso della comune dignità cristiana, il senso di appartenere al mistero della chiesa-comunione : è questo un aspetto fondamentale e decisivo per la vita e per la missione della chiesa. Per tutti e per ciascuno la preghiera ardente di Gesù nell'ultima cena: " Ut unum sint! " deve diventare, ogni giorno, un esigente e irrinunciabile programma di vita e di azione.

1892
Il senso vivo della comunione ecclesiale, dono dello Spirito che sollecita la nostra libera risposta, avrà come suo prezioso frutto la valorizzazione armonica nella chiesa "una e cattolica" della ricca varietà delle vocazioni e condizioni di vita, dei carismi, dei ministeri e dei compiti e responsabilità, come pure una più convinta e decisa collaborazione dei gruppi, delle associazioni e dei movimenti di fedeli laici nel solidale compimento della comune missione salvifica della chiesa stessa. Questa comunione è già in se stessa il primo grande segno della presenza di Cristo salvatore nel mondo; nello stesso tempo essa favorisce e stimola la diretta azione apostolica e missionaria della chiesa.

1893
Alle soglie del terzo millennio, la chiesa tutta, pastori e fedeli, deve sentire più forte la sua responsabilità di obbedire al comando di Cristo: "Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo a ogni creatura" (Mc 16,15), rinnovando il suo slancio missionario. Una grande, impegnativa e magnifica impresa è affidata alla chiesa: quella di una nuova evangelizzazione , di cui il mondo attuale ha immenso bisogno. I fedeli laici devono sentirsi parte viva e responsabile di quest'impresa, chiamati come sono ad annunciare e a vivere il Vangelo nel servizio ai valori e alle esigenze della persona e della società.

1894
Il sinodo dei vescovi, celebratosi nel mese di ottobre durante l'anno mariano, ha affidato i suoi lavori, in modo del tutto particolare, alla intercessione di Maria santissima, madre del Redentore. Ed ora alla stessa intercessione affido la fecondità spirituale dei frutti del sinodo. Alla Vergine mi rivolgo al termine di questo documento post-sinodale, in unione con i padri e i fedeli laici presenti al sinodo e con tutti gli altri membri del popolo di Dio. L'appello si fa preghiera.

1895
O Vergine santissima, madre di Cristo e madre della chiesa, con gioia e con ammirazione, ci uniamo al tuo "Magnificat", al tuo canto di amore riconoscente. Con te rendiamo grazie a Dio, "la cui misericordia si stende di generazione in generazione", per la splendida vocazione e per la multiforme missione dei fedeli laici, chiamati per nome da Dio a vivere in comunione di amore e di santità con lui e ad essere fraternamente uniti nella grande famiglia dei figli di Dio, mandati a irradiare la luce di Cristo e a comunicare il fuoco dello Spirito per mezzo della loro vita evangelica in tutto il mondo.

1896
Vergine del "Magnificat", riempi i loro cuori di riconoscenza e di entusiasmo per questa vocazione e per questa missione. Tu che sei stata, con umiltà e magnanimità, "la serva del Signore", donaci la tua stessa disponibilità per il servizio di Dio e per la salvezza del mondo. Apri i nostri cuori alle immense prospettive del regno di Dio e dell'annuncio del Vangelo ad ogni creatura.

1897
Nel tuo cuore di madre sono sempre presenti i molti pericoli e i molti mali che schiacciano gli uomini e le donne del nostro tempo. Ma sono presenti anche le tante iniziative di bene, le grandi aspirazioni ai valori, i progressi compiuti nel produrre frutti abbondanti di salvezza.

1898
Vergine coraggiosa, ispiraci forza d'animo e fiducia in Dio, perché sappiamo superare tutti gli ostacoli che incontriamo nel compimento della nostra missione. Insegnaci a trattare le realtà del mondo con vivo senso di responsabilità cristiana e nella gioiosa speranza della venuta del regno di Dio, dei nuovi cieli e della terra nuova.

1899
Tu che insieme agli apostoli in preghiera sei stata nel cenacolo in attesa della venuta dello Spirito di pentecoste, invoca la sua rinnovata effusione su tutti i fedeli laici, uomini e donne, perché corrispondano pienamente alla loro vocazione e missione, come tralci della vera vite, chiamati a portare molto frutto per la vita del mondo.

1900
Vergine madre, guidaci e sostienici perché viviamo sempre come autentici figli e figlie della chiesa di tuo Figlio e possiamo contribuire a stabilire sulla terra la civiltà della verità e dell'amore, secondo il desiderio di Dio e per la sua gloria.
Amen.

Roma, presso San Pietro, 30 dicembre, festa della santa famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, dell'anno 1988, undicesimo del mio pontificato.

GIOVANNI PAOLO II

I PIANI PASTORALI DIOCESANI PER LE VOCAZIONI


I. LETTERA CIRCOLARE

Eccellenza reverendissima,

518

Agli inizi del corrente decennio, quando la crisi di aspiranti alla vita consacrata nella chiesa aveva raggiunto limiti di eccezionale gravità, la S. Sede, e in particolare questo s. dicastero, non volle tirarsi indietro di fronte alla difficile situazione, ma ritenne suo dovere affrontarla insieme con i vescovi, nella volontà di pervenire ad una visione comune dei complessi problemi esistenti e degli interventi che essi esigevano.

Per tali motivi la s. congregazione, dopo avere consultato le conferenze episcopali, rivolse preghiera alle conferenze stesse, affinché volessero redigere e approvare i nuovi "piani di azione" nazionali per tutte le vocazioni consacrate.

Le conferenze episcopali accolsero l'invito, ed in un breve volgere di anni i "piani di azione" nazionali divennero realtà: mirabile esempio di iniziativa concorde in un settore essenziale per la vita e l'avvenire della chiesa. Il santo padre riconobbe che i "piani di azione" furono "elaborati dalle conferenze episcopali in spirito di autentica collegialità" (cf. L'osservatore romano, 22-11-1973).

519

Gli em.mi cardinali ed ecc.mi vescovi membri di questa s. congregazione, nelle riunioni plenarie tenute durante il decennio, seguirono premurosamente l'evolversi della situazione. Nella riunione più recente, del 29-30 marzo 1977, poterono rilevare i segni evidenti di miglioramento che si stanno manifestando in varie parti del mondo. Il santo padre li aveva già interpretati come "simboli di confortante ripresa" (cf. AAS 68, 1976,§658). Tuttavia la stessa riunione plenaria dovette riconoscere che, accanto a segni positivi, sussistono ancora fenomeni preoccupanti i quali potrebbero aggravarsi, qualora si diffondessero ancora di più un certo spirito di indifferenza o di rassegnazione al peggio, o certe valutazioni in contrasto con il bisogno di sacri ministri.

In considerazione di ciò, gli em.mi ed ecc.mi membri della plenaria dopo avere espresso gratitudine ai pastori di diocesi per quanto è stato attuato in questi anni, manifestarono unanimi il parere che sia necessario compiere ancora uno sforzo comune e deciso, al fine di dare piena applicazione, nelle chiese particolari, alle direttive contenute nei "piani di azione" nazionali degli episcopati. L'iniziativa avrebbe il duplice scopo: di consolidare ed estendere, con il divino aiuto, i successi già conseguiti; di offrire incoraggiamento ed esempio, con vera carità ecclesiale, a quelle parti che si trovassero ancora in difficoltà.

520

Questa s. congregazione, pertanto, in ossequio al voto formulato dalla riunione plenaria, in accordo con le altre ss. congregazioni competenti, con il consenso dell'augusto pontefice, rivolge ora rispettosa preghiere all'eccellenza vostra reverendissima, affinché voglia personalmente prendere in considerazione la grande convenienza di redigere e pubblicare - se ciò non fosse ancora avvenuto - un programma pastorale o "piano di azione" diocesano per tutte le vocazioni consacrate. Nel manifestare a vostra eccellenza questo cordiale ma pressante invito, la s. congregazione è cosciente di muoversi sulle linee stabilite dal concilio:

521

1. Si chiede infatti ai pastori un nuovo sforzo operante non solo a vantaggio delle proprie diocesi, ma di tutta la chiesa (cf. LG 22; CD 6; AG 38). La s. congregazione contribuirà con il suo interessamento, affinché le migliori esperienze di singole chiese siano conosciute e poste a servizio di altre.

522

2. Si chiede ai pastori un nuovo sforzo a favore di tutte le vocazioni consacrate, perché tutte sono state confidate alle loro cure( cf. CD 15; OT 2; AC 38). La chiesa ha immenso bisogno, in primo luogo, di vocazioni presbiterali. Ma ha pure immenso bisogno di vocazioni alle altre forme di vita consacrata. Senza il continuo affluire di persone consacrate, le istituzioni educative, culturali, caritative, sociali della chiesa deperiscono. E con il loro declino si riduce il raggio operativo della chiesa in ordine alla sua missione.

523

3. Si chiede ai pastori un nuovo sforzo "in aiuto particolarmente a quelle regioni, dove più urgente è la richiesta di operai per la vigna del Signore" (cf. OT 2). L'esaurirsi di vocazioni in paesi che finora avevano offerto numeroso personale ecclesiastico a chiese in stato di necessità, causerebbe conseguenze di portata incalcolabile.

524

Per contribuire fin d'ora, in qualche modo, alla elaborazione del "piano" diocesano, ci permettiamo di allegare alla presente comunicazione un breve "indice di argomenti", che meritano di essere particolarmente considerati e approfonditi in sede locale. Tali argomenti sono tratti dal concilio, da direttive pontificie, dalla "summa" formata dai "piani di azione" nazionali, da suggerimenti degli em.mi cardinali ed ecc.mi vescovi membri di questa s. congregazione.

525

Nel medesimo spirito di servizio con cui porgiamo a vostra eccellenza il nostro modesto contributo, la preghiamo di volerci comunicare, se già pubblicato, o quando sarà pubblicato, il testo del suo "piano" diocesano. Questo cortese atto dell'eccellenza vostra ci consentirà di iniziare il previsto scambio di informazioni con altre chiese particolari. Ma esso sarà pure prezioso per la preparazione di un nuovo congresso di vescovi delegati dalle conferenze episcopali e dalle assemblee episcopali dei patriarchi, di superiori e superiore generali, di direttori nazionali delle vocazioni, e di altri responsabili. Da quell'incontro dovrebbe derivare nuovo impulso alla causa delle vocazioni consacrate, nella prospettiva del prossimo decennio. Tale congresso dovrebbe avere luogo alla fine del 1979.

In fiduciosa attesa della sua gradita risposta, significhiamo a vostra eccellenza reverendissima la nostra riconoscenza per questo dono che ella vorrà offrire alla sua diocesi e a tutta la chiesa.

Con sensi di profonda stima e sincera venerazione la ossequio e mi confermo suo devotissimo.

Gabriel-Marie card. Garrone

II. SUGGERIMENTI E INDICE DI ARGOMENTI

I. Come dovrebbe essere elaborato il "piano"

526

In analogia con i "piani di azione" degli episcopati, anche il "piano" diocesano per le vocazioni dovrebbe rispettare alcune condizioni:

1. La pastorale delle vocazioni nel quadro della pastorale d'insieme. - Il "piano" dovrebbe essere concepito in relazione all'insieme della pastorale diocesana e definire il suo programma in rapporto ai vari settori che possono condizionare la manifestazione e la perseveranza delle vocazioni consacrate. E quindi, praticamente: in rapporto alla evangelizzazione interna, alla pastorale giovanile e familiare, alla vita e apostolato del clero e altre persone consacrate, al funzionamento degli istituti destinati alla formazione specifica dei nuovi aspiranti, anche di coloro che optano per gli istituti missionari.

527

2. Aspetti essenziali della pastorale per le vocazioni. - Il "piano" deve dare rilievo agli aspetti essenziali dell'azione da svolgere. Praticamente: all'aspetto dottrinale (la comunità che accoglie la parola di Dio sulla vocazione cristiana e le vocazioni consacrate e che deve produrre presbiteri per la perpetuazione della "frazione del pane"). All'aspetto spirituale (la comunità che partecipa alla liturgia, soprattutto all'eucaristia, e domanda operai per la messe del Signore). All'aspetto organizzativo-operativo (la comunità che agisce ordinatamente a servizio dei nuovi chiamati, cooperando, per la sua parte, con colui che chiama).

528

3. Realismo e adattamento. - Il "piano" diocesano non può essere un" piano" nazionale in miniatura. Esistono differenze tra diocesi e diocesi. Ogni chiesa particolare ha la sua identità. Praticamente: il "piano" deve cercare di vedere chiaro nella realtà locale, anche se non fosse delle migliori. Deve scegliere obiettivi prioritari. Ammettere delle tappe. Indicare modi e mezzi per raggiungere gli scopi: le direttive più sagge resterebbero inefficaci, se non si accettassero i sacrifici necessari per attuarle.

II. Quale iter il "Piano" dovrebbe seguire

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Un semplice cenno a questi punti: redazione, approvazione, pubblicazione, trasmissione alla S. Sede.

1. Redazione in collaborazione. - Il "piano" deve servire a tutte le vocazioni, salva la preminenza che compete, per sua natura, al presbiterato. Praticamente: il "piano" dovrebbe essere elaborato con il concorso, e sostenuto dal consenso dei responsabili delle varie vocazioni: presbiterato, diaconato permanente, istituti religiosi, istituti secolari, vita missionaria. Quegli stessi che dovranno poi anche cooperare attivamente alla applicazione.

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2. Applicazione e pubblicazione. - E' necessario che il testo definitivo sia munito dell'approvazione del vescovo diocesano. Cosى il" piano" costituirà norma di comportamento per l'intera comunità. Nell'ipotesi che sorgesse qualche conflitto di competenza in materia di pastorale delle vocazioni, il concilio ha già offerto il criterio per la composizione: attenersi alle disposizioni della S. Sede e dell'ordinario del luogo (cf. PC 24). E' conveniente che il "piano" venga pubblicato, ossia presentato ufficialmente dal vescovo alla diocesi. Da qualche parte la pubblicazione è avvenuta in occasione della "giornata mondiale di preghiera per le vocazioni".

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3. Trasmissione alla S. Sede. - il "piano" diocesano dovrà concorrere al bene di tutta la chiesa. Perciò si rivolge cortese invito, affinché il testo sia trasmesso alla s. Congregazione per l'educazione cattolica - Città del Vaticano - non oltre ia pasqua del 1979. La trasmissione potrà essere effettuata direttamente dall'ordinario diocesano, oppure attraverso la rappresentanza pontificia.

III. Indice degli argomenti

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Il "piano" potrà assumere la forma che sembrerà più opportuna al pastore della diocesi e ai suoi collaboratori. Anche i "piani di azione" nazionali degli episcopati furono redatti in modi assai diversi. Questo "indice di argomenti" segue un semplice schema logico, non esclusivo, non esauriente, tanto meno obbligante:

1.Premesse; 2. Persone responsabili; 3. Mezzi necessari; 4. Conclusioni operative.

1 - Premesse

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In via preliminare il "piano" dovrebbe contenere: 1) Un esame della situazione locale. 2) Una riflessione teologica sulla chiesa particolare in ordine alle vocazioni consacrate.

1. Esame della situazione locale. - I "piani di azione" degli episcopati hanno illustrato le situazioni nazionali. Sarà utile che il" piano" diocesano esamini bene la situazione su scala locale. L'esame dovrebbe riguardare:

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a) Alcuni aspetti quantitativi: ad esempio, numero ed età dei sacerdoti operanti a servizio della diocesi. Numero degli aspiranti al clero diocesano. Previsioni circa le nuove ordinazioni. Analogamente per altre persone consacrate, operanti a servizio della diocesi. Personale ecclesiastico che la diocesi offre ad altre chiese. Aspiranti alla vita consacrata e missionaria, nativi nella diocesi, ma che svolgeranno la loro missione altrove. Previsioni sul personale ecclesiastico ritenuto necessario alla diocesi, a breve e medio termine. Previsioni su parrocchie e altre istituzioni che si troveranno eventualmente in difficoltà, per insufficienza di personale, ecc.

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b) Alcuni aspetti qualitativi: aspetti positivi e meno positivi nella vita della comunità; nella vita e apostolato del clero diocesano e di altre persone consacrate; nell'atteggiamento dei giovani verso la chiesa, ecc.

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c) La ricerca delle cause di una eventuale rarefazione e scarsa perseveranza degli aspiranti. Potrebbero esservi cause esterne, ad esempio, le rapide trasformazioni di mentalità e di costume, ecc.; e cause interne alla comunità, ad esempio, incomprensione dei giovani verso la chiesa e le sue istituzioni; insufficienze nella pastorale giovanile e nella pastorale delle vocazioni; forse difetti di "leadership", ecc.

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2. Riflessione teologica sulla chiesa particolare in ordine alle vocazioni. - Il "piano" dovrebbe trascendere le realtà immediate e porre in rilievo, nella luce della fede, il valore e la missione della chiesa particolare (cf. LG 23; CD 11 ss.; AG 19 ss.). La chiesa particolare deve apparire essa stessa in stato di vocazione alla santità, in stato di missione, in stato di testimonianza, in stato di servizio (cf. At 2,42-48; 4, 32 s.). Ne derivano applicazioni importanti.

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Il concilio ha affermato che "il dovere di promuovere le vocazioni appartiene a tutta la comunità cristiana", e che "tale dovere si assolve anzitutto con una vita perfettamente cristiana" della stessa comunità (cf OT 2). E quindi la "necessità di formare vere comunità profonde nella preghiera, fraterne nella carità, dinamiche nella missione. La vocazione viene compresa all'interno di una comunità, di cui normalmente è il frutto più prezioso" (dagli Atti della congregazione plenaria del 30-31.3.1976). La riflessione teologica dovrebbe indurre ad un esame di coscienza. Il "piano" dovrebbe porre la questione della immagine che la chiesa locale offre di se stessa alla sua gioventù. "Bisogna riconoscere che le vocazioni corrispondono alla vita della chiesa. Se i giovani vedono che la chiesa vale, essi vengono. Molti giovani dicono le motivazioni della propria scelta. Ci vuole infatti una ragione per offrire la vita. E' molto importante vedere come la chiesa vive in determinati luoghi" (dagli Atti citati).

2 - Persone responsabili

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Premesso che "il dovere di promuovere le vocazioni appartiene a tutta la comunità cristiana", il concilio enumera le persone che più direttamente ne sostengono la responsabilità (l. c.). Il "piano" dovrebbe dunque fare riferimento ad esse: 1. Il vescovo; 2. Sacerdoti e altre persone consacrate; 3. Genitori e altri educatori.

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1. Il vescovo. - E' opportuno (e sarà motivo di edificazione) che in un documento pubblicato per sua iniziativa e con la sua approvazione, il vescovo manifesti alla diocesi le proprie sollecitudini pastorali. Il concilio ha insistito sul dovere e sulla responsabilità del vescovo verso tutte le vocazioni (cf. testo fondamentale in CD 15, che applica LG 44-45; anche AG 38; OT 2). In sostanza, il vescovo opera per le vocazioni nell'esercizio del suo ordinario "munus docendi, sanctificandi et regendi". E quindi: "La soluzione del problema delle vocazioni dipende in gran parte dai vescovi, che sono gli animatori della chiesa locale; dipende dal modo con cui esercitano il loro episcopato, dalle loro relazioni, come padri della fede, con il popolo di Dio" (dagli Atti della congregazione plenaria del 30-31.3.1976). Gli em.mi ed ecc.mi pastori, membri della s. congregazione, hanno particolarmente menzionato:

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a) Atti di magistero episcopale per illuminare i fedeli in genere e gruppi particolari: giovani, famiglie, educatori.

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b) Assemblee liturgiche: "Si segnala l'interesse che presenta la preparazione al sacramento della confermazione mediante il contatto personale del vescovo con i cresimandi e anche con i loro genitori e educatori, da attuarsi prima della celebrazione liturgica. E' un impegno oneroso, però molto vantaggioso, poiché consente un incontro diretto, semplice e franco, che fa cadere vari pregiudizi e contribuisce a rafforzare la comunione dei fedeli con il primo pastore della diocesi" (dagli Atti citati). Analogamente avviene nella "giornata mondiale di preghiera per le vocazioni", preparata con interventi del pastore e celebrata, nella sede episcopale, sotto la sua presidenza.

543

c) Personale appello del vescovo a singoli giovani e a gruppi di giovani, scelti e maturi, perché apprendano direttamente dal loro pastore le necessità della chiesa particolare e della chiesa universale.

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d) Inoltre: "Interessare le nuove strutture ecclesiali, come il consiglio presbiterale e pastorale. Anche il sinodo diocesano dovrebbe interessarsi alla questione" (dagli Atti citati). Incoraggiare il clero, le persone consacrate, i seminari e i responsabili di essi. Dare impulso all'opera delle vocazioni, secondo le finalità pastorali, l'estensione, i mezzi previsti dal concilio (cf. OT 2-3).

545

2. Sacerdoti e altre persone consacrate. - Il "piano" deve sottolineare con forza la responsabilità privilegiata dei sacerdoti e di altre persone consacrate. Per il clero, testo-base del concilio in PO 11, dove si illustra il principio che la responsabilità verso le vocazioni "sane pertinet ad ipsam missionem sacerdotalem" (cf. anche OT 2; AG 39). Per analoghe responsabilità di altre persone consacrate, cf. PC 24. All'efficacia di questa azione si oppongono alcuni fatti: "Il grande numero di sacerdoti che chiedono la riduzione allo stato laicale crea l'impressione che il sacerdozio non costituisca un impegno serio e perpetuo". "Accade che sacerdoti tormentati da una crisi d'identità dissuadano i giovani dal pensare a una vocazione sacerdotale. Accade che altri sacerdoti, che abbandonano il ministero, creino scoraggiamento tra i giovani, timorosi di andare incontro, fra pochi anni, ad una medesima sorte di frustrazione senza speranza" (dagli Atti della congregazione plenaria del 29-30.3.1977). Praticamente, il "piano" dovrebbe porre in rilievo alcuni punti:

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a) L'efficacia dipende innanzitutto dalla persona stessa del sacerdote, sostenuto dalla grazia divina: "Un sacerdote sereno e felice nel suo ministero, svolto con generosità e dedizione, è il migliore promotore delle vocazioni" (dagli Atti citati). Un ministero nel quale il sacerdote deve sentirsi segno visibile di Cristo sacerdote, strumento di Cristo salvatore, testimone del suo Vangelo, servitore del popolo di Dio (cf. PO 1-3; 10; 11; 12; 16). Un ministero nel quale deve rivelarsi, in comunione col vescovo, maestro di dottrina, di preghiera, di vita cristiana, di apostolato. Analogamente, per i religiosi, cf. LG 44: consacrazione, segno: testimonianza. Per i missionari, cf. AG 24. Per i diaconi, cf. LG 29.

547

b) L'efficacia deriva dalla qualità dell'azione apostolica che il sacerdote svolge nell'esercizio quotidiano del suo ministero. Al sacerdote, cooperatore del vescovo, si applica ciò che è stato accennato a riguardo del vescovo. Quindi: qualità della sua predicazione e catechesi. Qualità della cura dedicata alle azioni liturgiche, particolarmente alle assemblee eucaristiche e al sacramento della penitenza. Qualità dei suoi contatti personali con i giovani, dei suoi consigli, della sua direzione spirituale.

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c) Ma tutto questo esige competenza, e quindi preparazione. Esige scambio di esperienza e collaborazione con altri sacerdoti, religiosi, religiose, laici. Esige anche incoraggiamento: "Occorre ravvivare nel cuore dei sacerdoti la preoccupazione costante di suscitare, con l'aiuto divino, delle vocazioni sacerdotali, religiose, missionarie. Appositi incontri sacerdotali su questo argomento rinvigoriscono la fede dei sacerdoti e gli restituiscono la speranza" (dagli Atti citati).

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d) Quanto si è detto del sacerdote, vale pure, con le dovute distinzioni, per altre persone consacrate. Particolare menzione meritano le molte suore e fratelli che dedicano la loro vita ai giovani, nelle scuole e in altre istituzioni, in ogni parte del mondo, e possono svolgere un'opera mirabile anche in ordine alle vocazioni.

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3. Genitori e altri educatori. - Il "piano" diocesano deve invitare i genitori - e altri educatori che ne prolungano l'azione educativa - ad una migliore cooperazione. Il concilio ha trattato l'argomento: cf. LC 11: PC 24; OT 2; AA 11; AG 19; 39; 41; PO 11; GS 52. Quest'ultimo testo è fondamentale, perché delinea l'immagine della famiglia credente, che educa i figli alla maturità umana e cristiana, con cui potranno seguire in piena responsabilità la loro vocazione, anche alla vita consacrata. Questo è il contributo essenziale che la famiglia deve dare. Se volesse spingersi oltre, potrebbe invadere la competenza specifica dei pastori, condizionare la libertà dei figli, turbare l'azioni della grazia. Praticamente, il "piano" deve dare suggerimenti:

551

a) Per aiutare i genitori, e altri educatori, a formarsi una giusta mentalità, e ad acquisire la necessaria preparazione anche in questo settore della loro responsabilità educativa. b) Invitarli quindi a operare: con l'impegno dei mezzi educativi che ad essi competono con l'esempio di vita cristiana, di amore alla chiesa, di dedizione apostolica; con la preghiera; con il saggio consiglio dato al giusto momento.

3 - Mezzi necessari

552

La chiesa si serve di determinati "mezzi" per conseguire i suoi fini generali di evangelizzazione e santificazione (cf. CIC, can. 726). La chiesa applica i medesimi mezzi, con modalità opportune, anche al fine particolare di promuovere le vocazioni consacrate. Qui vengono menzionati brevemente alcuni punti. I "piani" diocesani potranno svilupparli e completarli. I) Annuncio della parola di Dio sulla vocazione e sulle vocazioni. 2) La vocazione e le vocazioni nella liturgia e nella preghiera della comunità. 3) Educazione, istituzioni educative e vocazioni. 4) Lo strumento operativo: l'opera delle vocazioni secondo il concilio.

553

1. Annuncio della parola di Dio sulla vocazione e sulle vocazioni. - Il "piano" diocesano deve dare indicazioni per la predicazione e la catechesi sulla vocazione cristiana e le vocazioni consacrate. Una predicazione e catechesi completa, sicura, proporzionata, nell'esposizione, al grado di comprensione delle diverse categorie. Il concilio ha offerto alla chiesa un ricco patrimonio di dottrina. Ha illustrato la vocazione nel suo oggetto, come vocazione generale e come vocazioni particolari. Precisamente: vocazione generale dell'umanità alla salvezza; vocazione della chiesa ad essere sacramento di salvezza; vocazione cristiana battesimale alla fede, alla santità, alla missione evangelizzatrice. Vocazioni particolari ai ministeri gerarchici; alla vita consacrata mediante i voti e altri sacri legami; alla vita missionaria. Vocazione dei laici alle ordinarie mansioni della vita laicale e a certi uffici ecclesiali. Il concilio ha illustrato la vocazione nella sua natura: come dono di Dio; come appello della coscienza individuale; come chiamata della chiesa attraverso i legittimi pastori, nel caso di particolari vocazioni ecclesiali. Il concilio ha illustrato la vocazione nei suoi fini: gloria di Dio; santificazione dei chiamati; servizio per il bene e la salvezza dell'umanità (cf. LG nell'insieme; DV 2; PC 1; 7-11; AG 1; 2-7; 16-17; 23; 35; AA 2-5; PO 2; 4-5; 11; OT 2; GS 52. Cf. anche testi del magistero pontificio: messaggi del s. padre per le "giornate mondiali di preghiera per le vocazioni"; lettera apostolica Sacrum diaconatus ordinem, 18-61967, per la vocazione diaconale, AAS 59 (1967) 697-707; esortazione apostolica Evangelica testificatio. 29-6-1971, per le vocazioni religiose, AAS 63 (1971) 497-526; esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, 8-12-1975, per una visione d'insieme, AAS 68 (1976) 5-76. cf. anche i rispettivi "piani di azione" delle conferenze episcopali). Sull'aspetto dottrinale, gli em.mi ed ecc.mi pastori, membri della s. congregazione hanno manifestato preoccupazioni e suggerimenti: "Se guardiamo ad una certa confusione di idee sul sacerdozio ministeriale, ne consegue la necessità che la dottrina della chiesa sul sacerdozio ministeriale e sulla vocazione sacerdotale sia fedelmente esposta nel" piano di azione "diocesano. Si ponga attenzione, affinché non si faccia confusione tra vocazione al sacerdozio ministeriale e altre vocazioni ecclesiali". "Si raccomandi lo studio dei documenti conciliari che hanno trattato la questione delle vocazioni. In un'ampia visione dei carismi e dei ministeri esistenti nella chiesa, si potrà discernere meglio la forma di responsabilità a cui ciascuno potrà essere chiamato per servire all'opera della evangelizzazione". "E' venuto nuovamente il tempo di predicare che ogni vita è una vocazione che viene da Dio. Molto si ha da imparare dal cardinale Newman, anche quando dice: "Dio mi ha creato per un suo particolare disegno: mio dovere è di scoprirlo"" (dagli Atti della congregazione plenaria del 29-30.3.1977). Il "piano" diocesano dovrebbe dunque, praticamente:

554

a) Ricordare che i fedeli in genere, e i giovani in particolare, non si interessano di cose che non conoscono; e non le conoscono se non ne sono adeguatamente interessati. Pertanto, ogni annuncio della parola di Dio nelle varie forme, specialmente nelle assemblee liturgiche e nella catechesi ordinaria, può offrire occasione di parlare - "pro opportunitate" - della vocazione cristiana e delle vocazioni consacrate. La "giornata mondiale di preghiera per le vocazioni" può e deve rappresentare una occasione privilegiata, come di fatto avviene, per questo annuncio. I messaggi del santo padre ne costituiscono un esempio illuminante.

555

b) Offrire, nello stesso "piano", una chiara sintesi dottrinale a uso dei sacerdoti, religiosi, religiose, genitori, laici particolarmente impegnati in questo apostolato.

556

c) Prevedere l'elaborazione e diffusione di speciali sussidi per la catechesi, adatti a vari livelli di età e di cultura. Esistono esperienze esemplari in diverse diocesi.

557

d) Programmare il buon uso di altri mezzi di comunicazione sociale, per destare interesse nel pubblico; creare un clima di simpatia verso le persone consacrate; deporre i germi di alcune conoscenze che potranno svilupparsi in altre occasioni.

558

2. La vocazione e le vocazioni nella liturgia e nella preghiera della comunità. - La migliore conoscenza dottrinale aiuta i fedeli a convincersi che ogni vocazione è dono divino, che deve essere chiesto con la preghiera, secondo la volontà espressa dal Signore e la tradizione risalente agli inizi della chiesa (cf. Mt 9,37-38; Lc 6, 12-13; 10,2; Gv 17; At 6, 6; 13, 1-3). Il concilio fa appello a questo dovere (cf. OT 2; AG 36; PO 11). Vi sono però aspetti da illustrare, perché il dovere della preghiera va oltre le pie pratiche di singole persone e gruppi. Praticamente, il "piano" diocesano dovrebbe:

559

a) sottolineare che il dovere della preghiera per le vocazioni rientra nel disegno divino di salvezza universale, che si attua anche con la nostra cooperazione; che pertanto questo dovere appartiene a tutta la comunità, riguarda tutte le vocazioni, per il bene di tutta la chiesa;

560

b) che questa preghiera deve chiedere tutto ciò che è necessario non solo per il sorgere delle vocazioni, ma anche per la perseveranza dei chiamati, per la loro santificazione, per la fecondità della loro missione;

561

c) che questa preghiera della comunità trova la massima espressione nella assemblea eucaristica, dove la parola di Dio è annunciata, dove il sacrificio del Signore si offre, dove egli stesso è presente alla lode e alla supplica della comunità (cf. SC 7). La "giornata mondiale di preghiera per le vocazioni" si presenta come un segno visibile della comunità in preghiera, riunita col pastore della diocesi, con i sacerdoti e altre persone consacrate, con i nuovi aspiranti, in comunione con il sommo pontefice e con la chiesa universale.

562

3. Educazione, istituzioni educative e vocazioni. - Supposto il programma diocesano di pastorale giovanile, il "piano" per le vocazioni espone in particolare gli interventi educativi di propria competenza. Il concilio ha presentato una visione d'insieme della pedagogia rivolta al pieno sviluppo della personalità giovanile, nelle sue componenti: umana e cristiana, sociale e apostolica (cf. GE 1-2). Ferme restando queste basi, il concilio ha dato indicazioni sulla pedagogia specifica delle vocazioni consacrate (cf. OT 2-3; PO 11;, AG 38; GS 52). Gli em.mi ed ecc.mi pastori, membri della s. congregazione, hanno offerto notevoli contributi in merito. Praticamente, il "piano" diocesano dovrebbe svolgere alcuni punti:

563

a) Prima di tutto, operare affinché i giovani diventino coscienti della loro fede, amino la chiesa, vivano cristianamente, coltivino i loro migliori sentimenti di giustizia, fraternità, vita intesa come servizio.

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b) Più in particolare, deve trovare qui applicazione ciò che si è detto circa l'annunzio della parola di Dio: presentare ai giovani, per tempo, in forma proporzionata alla loro comprensione, le varie scelte a speciale servizio del Signore, della chiesa, dell'umanità, e non solo le scelte ordinarie della famiglia, della professione, dell'impegno sociale e politico.

565

c) Deve trovare applicazione ciò che si è detto circa la liturgia: invitare i giovani, molto per tempo, non solo a partecipare, ma anche ad esercitare il servizio liturgico, secondo le norme liturgiche dei diversi riti. In questo modo i giovani cominceranno presto a scoprire il loro posto e la loro dignità nella comunità credente. Dal servizio liturgico è facile il passaggio all'esercizio dell'apostolato a servizio della stessa comunità. In questo clima di fede, di preghiera, di apostolato, possono maturare con il divino aiuto decisioni di più ampia portata.

566

d) Deve trovare applicazione ciò che si è detto circa il contatto diretto del pastore della diocesi, dei sacerdoti, di altre persone consacrate, con singoli giovani e gruppi di giovani. "L'esperienza insegna che è molto utile ''ante baccalaureatum'' o prima della ''maturità'' (secondo le strutture scolastiche dei vari paesi), invitare dei giovani disposti a riflettere sulla vocazione sacerdotale e religiosa, perché trascorrano una giornata di riflessione in un seminario maggiore o altro istituto religioso, per parlare con essi, dare le informazioni che desiderano, pregare insieme" (dagli Atti della congregazione plenaria del 29-30.3.1977).

567

e) Deve trovare applicazione ciò che si è detto sulla speciale responsabilità del sacerdote come guida di anime: "Tra i mezzi che possono contribuire al discernimento e alla maturazione delle vocazioni è necessario dedicare particolare attenzione alla direzione spirituale, fecondata dalla grazia sacramentale della penitenza" (dagli Atti citati).

568

f) L'applicazione dei principi sopra esposti è favorita dai raggruppamenti giovanili: "I movimenti di apostolato e le comunità di base dovrebbero normalmente contribuire al manifestarsi di vocazioni ecclesiastiche. Però a condizione che questi gruppi siano radicati nella fede, assidui alla preghiera e all'ascolto della parola di Dio, aperti alla comunione con la chiesa universale" (dagli Atti citati). Questi gruppi dovrebbero trovare il terreno ideale "particolarmente nella parrocchia, la quale, con la sua fiorente vita cristiana, deve attrarre i giovani ed indirizzarli ad una attiva partecipazione" (dagli Atti citati).

569

g) L'applicazione dei principi sopra esposti è particolarmente favorita dalle scuole cattoliche, nelle quali, sia l'attuazione di un completo "progetto educativo" umano e cristiano, sia l'esempio del personale ecclesiastico che svolge la sua missione tra i giovani e per i giovani, possono orientare ottimi elementi "a impegnarsi nel servizio di Dio a vantaggio dei propri fratelli", anche in ordine alle vocazioni consacrate (cf. s. congregazione per l'educazione cattolica, La scuola cattolica, 19-3-1977, specialmente nn. 34-47).

570

h) L'applicazione dei principi sopra esposti è in modo privilegiato favorita dalle istituzioni specifiche preparatorie al seminario maggiore e agli istituti di formazione religiosa e missionaria (seminari minori, scuole apostoliche, ecc.) (cf. OT 3; s. congregazione per le chiese orientali, decreto Orientalium religiosorum supremi moderatores, 27-6-1972: AAS 64 (1972) 738-743; s. congregazione per i religiosi e gli istituti secolari, istruzione Renovationis causam, 6-1-1969, I, n. 4; AAS 61 (1969) 107-108; s. congregazione per l'educazione cattolica, "Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis", 6-1-1970, nn. 11-19: AAS 62 (1970) 338-342).

571

i) L'applicazione dei principi sopra esposti deve conseguire il risultato di orientare alla vita ecclesiastica elementi accuratamente scelti, ossia dotati di buone qualità, sostenuti da valide motivazioni, liberamente decisi a seguire una vocazione consacrata solo per i fini soprannaturali per cui la vocazione consacrata sussiste. "Sarebbe cosa vana perseguire come scopo dell'attività per le vocazioni il numero dei candidati, se non si avesse prima di tutto la preoccupazione di guardare alla qualità dei soggetti, al loro equilibrio psichico, alla loro maturità, alla loro apertura mentale, al loro senso apostolico, alla profondità della loro fede e alla testimonianza della loro vita" (dagli Atti citati). L'accurata scelta porterà, con il divino aiuto, i suoi frutti: maggiore serenità negli aspiranti e nei candidati, perseveranza più sicura, buon ordine negli istituti formativi, prestigio dello stato ecclesiastico, edificazione dei fedeli e, in definitiva, un vantaggio per tutta la chiesa.

572

4. Lo strumento operativo: l'opera delle vocazioni secondo il concilio. - L'azione pastorale per le vocazioni è complessa. Esige quindi un minimo di organizzazione. Le diocesi avevano avvertito questa necessità e nel corso degli ultimi due secoli avevano creato uno strumento idoneo: l'opera delle vocazioni. Ciò fa onore al senso apostolico delle chiese locali ed è un segno della presenza dello Spirito. Sulla base di quella tradizione viva nelle diocesi il sommo pontefice istituى, presso la s. congregazione dei seminari e delle università degli studi, la "pontificia opera delle vocazioni ecclesiastiche", per l'ulteriore promozione dell'opera in ogni parte della chiesa (cf. Motu proprio Cum nobis, 4-11-1941: AAS 33 (1941) 479; Statuti e norme esecutive: AAS 35 (1943) 369-373. Cf. anche il documento della s. congregazione per le chiese orientali, 25-8-1954, inviato a tutti i gerarchi orientali). Il concilio prese atto di queste istituzioni centrali e periferiche e delineò un progetto di opera delle vocazioni idoneo ad affrontare le nuove necessità. Il concilio infatti vuole ("mandat") che d'ora innanzi l'opera delle vocazioni promuova e diriga, sotto l'autorità dei pastori, tutta l'attività pastorale per le vocazioni; con l'impiego di tutti i mezzi necessari e utili; a servizio di tutte le vocazioni; non solo nell'interesse della chiesa particolare, ma per il bene della chiesa universale, guardando oltre i limiti delle diocesi, nazioni, famiglie religiose, riti, con particolare sollecitudine verso quelle chiese che si trovassero in maggiore difficoltà (cf. OT 2). Il "piano" diocesano deve tradurre in pratica fedelmente questo mandato del concilio:

573

a) Se l'opera diocesana non esistesse ancora, prevederne l'istituzione. (Non c'è problema di nome: l'opera può assumere diverse denominazioni, secondo le usanze locali).

b) Se già esiste, adeguarla, se necessario, alle direttive del concilio.

c) E quindi: stabilire il ruolo delle persone che ne assumono la responsabilità per incarico del vescovo diocesano, al quale devono rendere conto. Preparare programmi. Elaborare sussidi pastorali. Dare esecuzione al "piano" diocesano. Attuare il "piano" anche nelle parrocchie.

574

d) Fare il possibile affinché l'opera diocesana sia unitaria per tutte le vocazioni e agisca con la collaborazione dei rappresentanti di tutti i settori. Il santo padre ha raccomandato ai superiori religiosi e ai moderatori di istituti secolari di intraprendere una nuova "azione in profondità" per le vocazioni sacerdotali e religiose nella chiesa particolare, ed ha aggiunto: "Questa azione guadagnerà certamente efficacia, se tutte le energie esistenti nella chiesa locale accetteranno di essere opportunamente coordinate dalla guida sapiente del vescovo, come già disponeva il concilio Vaticano II( cf. OT 2), stabilendo in concreto che le diverse iniziative fossero dirette , in maniera metodica e armonica dall'organismo diocesano, che va sotto il nome di opera delle vocazioni (ibid.). Ciò si risolverà anche in vantaggio delle vostre rispettive famiglie religiose" (cf. AAS 68, 1976§568).

4 - Conclusioni operative

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Il "piano" diocesano per le vocazioni deve guardare lontano nel tempo. Frattanto esistono, forse, situazioni che richiedono decisioni urgenti. Occorre quindi che il "piano" annunci alcune iniziative che meritano priorità. A titolo di esempio: se vi è una certa indifferenza da parte della comunità, si agisca per superarla. Alcuni pastori hanno indetto, a tale fine, un "mese delle vocazioni", un "anno delle vocazioni". Se - sempre per ipotesi - sono le famiglie che non rispondono, si dia inizio ad un programma rivolto a sensibilizzare le famiglie. Se la pastorale giovanile è in difetto, si provveda in quella direzione. Se non vi sono rapporti personali tra pastore, persone consacrate e giovani, in ordine alle vocazioni, si preparino incontri. Se la catechesi sembra ignorare le scelte consacrate, si arricchisca con questo contenuto. Se la comunità nel suo insieme non prega abbastanza, si prenda occasione dalla "giornata mondiale di preghiera per le vocazioni" per risvegliare le coscienze a questo dovere. Se il clero, nel suo modo di vivere e di operare, non offrisse sufficiente motivo di edificazione, si inviti il clero ai suoi doveri pastorali, soprattutto nei riguardi dei fedeli più bisognosi. Se mancasse l'aperto invito alla vita consacrata, si provveda a farla conoscere anche mediante sacerdoti, religiosi e religiose, deputati "ad hoc". Se vi fossero incertezze dottrinali, quasi che - ad esempio - il sacerdozio comune dei fedeli potesse sostituire quello ministeriale, si insista sui necessari chiarimenti...

Non sono cose impossibili. Con la buona volontà, diverranno reali. Con l'aiuto divino, per l'intercessione della Vergine ss., madre di Dio e madre della chiesa, risulteranno efficaci.