fraternita_e_pace29 Dicembre 2013

Insieme a "pace" crea un binomio coinvolgente


La parola "Fraternità" in chiave vocazionale

Parola delicata, difficile, passibile di interpretazioni le più contrastanti, eppur sempre piena di fascino, la fraternità è tornata in auge grazie a Papa Francesco. Considerata, fin dai suoi primi discorsi, strumento per superare la cultura dello scarto a favore della cultura dell’incontro, la fraternità è ampiamente analizzata nell’Esortazione “Evangelii Gaudium”, e costituisce l’argomento portante del Messaggio per la Giornata mondiale della Pace attorno al quale ruotano numerose iniziative che culmineranno il 31 dicembre a Campobasso con la Marcia nazionale.



Fraternità e pace: un binomio coinvolgente, concretissimo, che attraversa tutta la storia dell’umanità. Già nella Genesi, primo libro della Bibbia, la fratellanza  è considerata una realtà costitutiva ma fragile, contraddetta dall’istinto del male, che è “accovacciato alla porta di ciascuno di noi” e di cui Abele è il primo a farne le spese. Secondo la cultura classica fratelli si diventa lentamente, con fatica,  giorno dopo giorno attraverso parole, gesti, condivisione di tempo e di esperienze  significative. Qualche decennio fa l’opinione pubblica fu colpita dal  richiamo di Paolo VI  all’ONU “Ogni uomo è mio fratello“, e dal grido di Nelson Mandela “Tutti siamo nati per essere fratelli”. Richiami che nella storia  conoscono momenti di conquiste e di fallimenti.

Tra i primi la fraternità monastica che nell’Europa del V e VI  secolo con Benedetto da Norcia crea una rete di centri spirituali, economici e culturali attorno ai quali rinasce l’Europa. Più tardi la fraternità mendicante che vede la vita consacrata lasciare i monasteri per scendere nei borghi e nelle città. Fratelli tra i fratelli è l’ideale di vita dei monaci, di cui Francesco di Assisi diventa icona e modello insuperabile. I rapporti fraterni che si generano nelle sue comunità vengono estesi ai poveri e agli emarginati, ma anche ai nobili e agli ecclesiastici, ai lontani come i musulmani, per coinvolgere infine tutte le creature.
Nel XVI secolo le Reduciones dei gesuiti in America Latina costituiscono un esempio di fraternità con gli indios, base dell’evangelizzazione e del riscatto di un intero popolo. Anche oggi un significativo apporto alla pace può venire dalla fraternità vissuta dai consacrati nelle loro comunità. Ne ha parlato recentemente papa Francesco ai superiori generali degli ordini religiosi, evidenziando l’enorme forza di attrazione vocazionale che la fraternità  esercita sui giovani, e lo stimolo che può dare a tutti per ridurre i danni che il vivere ripiegati su se stessi sta producendo.

Da tempo il cinema si è accorto di questo. Molte pellicole mettono in rapporto la fraternità con la pace. Stanco di vedere migliaia d’immigrati che dall’Africa vengono a morire nei nostri mari, il regista finlandese Aki Kaurismaki fa dire al protagonista del film Miracolo a Le Havre: “Gli altri sono l’unica cosa che abbiamo”. E nei dialoghi finali del film drammatico 12, diretto dal regista russo Nikita Mikalkov, campeggia la frase del protagonista: “Dobbiamo aiutare gli altri, prima che sia troppo tardi”! E’ quanto esattamente hanno testimoniato in Algeria i monaci di Thiribine, sette dei quali furono uccisi nella notte del 26 maggio 1996. La loro vicenda è stata ricostruita storicamente nel film Uomini di Dio, che riporta anche la lettera scritta tre anni prima della tragedia dal superiore della comunità, padre Christian De Chergè. “Se a Dio piace -si legge in questo scritto che sa di profezia- potrò immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i Suoi figli dell’Islam così come li vede Lui, tutti illuminati dalla gloria del Cristo, frutto della Sua Passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre di stabilire la comunione, giocando con le differenze. Di questa vita perduta, totalmente mia e totalmente loro, io rendo grazie a Dio che sembra averla voluta tutta intera per questa gioia, attraverso e nonostante tutto”.

(Vito Magno su Avvenire del 29 Dicembre 2013)