Stampa
Visite: 6802

vocazioneMarzo 2013

Convegno di teologia della VC al “claretianum”

La psicologia nella formazione

La psicologia, nelle varie fasi della formazione, ci può aiutare tantissimo, proprio perché è abilitata a cogliere ciò che si muove nell’intimo della persona, nelle sue profondità, ciò che addirittura è inconscio: ci aiuta o ci costringe a dire la verità.

Il presente SPECIALE si riferisce alla relazione che P. Amedeo Cencini, canossiano, Docente all’Università Salesiana, ha tenuto al convegno organizzato dal Claretianum dall’11 al 14 dicembre 2012 presso l’Aula Magna dell’Università Urbaniana, sul tema “Vita Consacrata e Psicologia. Facciamo il punto”. La relazione descrive l’apporto che la psicologia offre alla vita consacrata anzitutto nella fase del discernimento vocazionale e più in particolare nella formazione iniziale e permanente. Di questa relazione, per ragioni di spazio, riportiamo, con qualche piccolo adattamento redazionale, le parti relative alla formazione iniziale e permanente, riservandoci di utilizzare quella sul discernimento vocazionale in un secondo momento. Gli Atti del convegno, a cura del Claretianum sono a disposizione del pubblico col titolo “Vita consacrata e psicologia”.

Apporto della psicologia nella formazione iniziale
Uno degli equivoci più rovinosi dei nostri sistemi educativi è quello di proporre subito tutto a tutti, o di indicare immediatamente i valori ideali ed esigere dal giovane in formazione l’adesione e conformazione a essi. La psicologia viene molto opportunamente a ricordarci che c’è un processo da far partire e attuare, processo che è fatto di diverse fasi, che vanno rispettate nella loro sequenza.
E sono queste: educare - formare- trasformare.
È fondamentale che prima, il più presto possibile, il giovane venga aiutato e provocato, se necessario, ovvero se ne ha poca voglia, a fare un lavoro di conoscenza di sé. La psicologia può aiutare moltissimo a fare questo percorso non facilissimo, che è già un atto orante, perché fatto davanti a Dio, non solo nella sincerità (di riconoscere e dare un nome alle proprie sensazioni e sentimenti, odi e attrazioni), ma pure nella verità (di coglierne le radici, il significato psicodinamico). Proprio questo percorso aiuta il giovane a esser sempre più vero con se stesso, con Dio, con gli altri, col suo progetto vocazionale. È evidente, in altre parole, che l’inconsistenza contamina inevitabilmente il proprio senso d’identità, la relazione con Dio e la sua parola, il rapporto con gli altri, il modo d’intendere la propria vocazione (vedi le famose “aspettative irrealistiche vocazionali”).
Sarebbe fondamentale che il giovane imparasse nel tempo della formazione iniziale un metodo che lo aiuti a leggersi, a non raccontarsi balle, a scoprire in tempo reale quel che s’agita nel suo cuore. Se uno non si conosce non fa nessuna formazione; abita nella casa di formazione, ma non è in formazione. E quanti ne abbiamo avuti di giovani che hanno attraversato tutto il tempo della formazione senza far mai neanche un giorno di educazione, dunque inutilmente! Anche se hanno studiato teologia e superato gli esami pure di spiritualità, e sono stati, e continuano a essere, “liturgicamente perfetti”.
Quando invece la persona comincia a conoscersi:
– primo, finalmente sa dove lavorarsi e concentrare i suoi sforzi, sempre in quelle quattro strategiche direzioni, quella del sé e del senso dell’io, del rapporto con Dio, del rapporto con gli altri e infine della comprensione della sua propria vocazione;
– secondo, diventa molto più esigente con se stesso, disposto a lottare e a lottare duramente, e non solo con se stesso ma anche e soprattutto con Dio, libero di lasciarsi guardare da Dio e leggere e scrutare dalla sua parola, capace di donare agli altri la propria stima, comprensione e misericordia;
– terzo, allora i suoi sensi cominciano ad aprirsi, o a entrare in contatto con la verità, la bellezza e la bontà, e a liberarsi da paure e rigidità, e gli occhi “vedono”, le orecchie “sentono”, le mani “toccano”, il cuore “gusta”, la persona si sente chi-amata…: è il momento che può iniziare la formazione, ovvero in cui il soggetto è finalmente sensibile, reso sempre più sensibile nei confronti dei valori dello spirito…
– per poi lasciarsene lentamente trasformare.
In tal senso la psicologia dà un apporto di natura metodologica, ha una funzione pedagogica, può indicare un percorso fondato su questa scansione (educare-formare-trasformare, dunque uguale per tutti), e pure un percorso personalizzato, proprio a partire dall’identificazione dell’area inconsistente del soggetto, che ora impara a tenere sotto controllo. Ciò potrebbe prevenire tantissime crisi future, e svelare dunque anche la funzione preventiva della psicologia. Ma sempre tutto al servizio della verità.

Formazione umana: superamento d’un equivoco
Di solito si dice che la psicologia può dare un contributo per quanto riguarda la formazione umana. È come un riconoscimento e complimento che è facile trovare anche nei testi magisteriali, ove si parla di formazione umana come “necessario fondamento” d’una formazione cristiana. Ma cosa s’intende per formazione umana?
L’espressione suona subito un po’ singolare sul piano psicologico, perché farebbe pensare che possa esistere una formazione anche sub-umana o super-umana, dimenticando che anche quando uno vive le virtù cosiddette teologali le vive sempre con le risorse umane che ha in dotazione, cioè con la sua umanità; non può credere che col suo cuore, mente, volontà. Oppure a volte si parla di “virtù umane” come di quelle virtù che sono particolarmente apprezzate nel contesto della cultura del tempo (lealtà, sincerità, senso della giustizia, solidarietà…):  onestamente, mi sembra un po’ poco, e questo confermerebbe la sostanziale povertà del concetto.
Sovente, però, si parla di formazione umana come “necessario fondamento” della formazione vera e propria, lasciando così intendere che è sì fondamentale, ma come una premessa, che a un certo punto dovrà terminare, ed esser sostituita dalla formazione specifica, stricto sensu, quella spirituale, teologica, pastorale… Infatti in certe case di formazione si parla di formazione umana proprio in questi termini: qualcosa (soprattutto riferentesi a quella certa parte della nostra umanità più turbolenta, come la sessualità) che deve essere assicurato nei primi tempi, entro il noviziato, perché poi la persona possa dedicarsi al cammino formativo vero e proprio, con la pretesa (o l’illusione) di rispettare così il classico principio secondo cui si deve formare prima l’uomo (o la donna), poi il credente, quindi il consacrato/a, infine l’apostolo. Sarebbe, insomma, la formazione per strati o livelli.
Non mi sembra francamente un modo corretto di pensare la formazione.
Ed ecco anche qui l’apporto della psicologia, ma a partire dall’interpretazione molto bella e significativa che Vita consecrata dà della formazione stessa (e della VC), come d’un cammino formativo di progressiva conformazione ai sentimenti del Figlio. Non solo sequela o identificazione, come nel passato, ma “sentimenti”, i suoi sentimenti da rivivere. Come dire, non basta imitare i comportamenti, occorre arrivare fino a vibrare dei suoi sentimenti, fino ad avere la stessa sua sensibilità e umanità. Questa è formazione, ed è formazione umana! Il concetto di formazione umana, dunque, ci fa capire fino a che punto della nostra umanità o del nostro mondo interiore deve arrivare l’identificazione-conformazione a Cristo. Altro che formazione umana come semplice premessa destinata a sparire, o come pacchetto di virtù particolarmente apprezzate dal contesto culturale contemporaneo, o come qualcosa che si può aggiustare in un paio d’anni propedeutici alla formazione vera e propria!
La formazione umana è destinata ad accompagnare tutto il percorso formativo, fino all’ultimo giorno, perché ci sarà sempre un qualche pezzo o angolo della nostra umanità che non è ancora evangelizzato. Pensiamo all’affettività, alla sessualità, al senso dell’identità.
È indubitabile che proprio in queste aree la psicologia ci può aiutare tantissimo, proprio perché è abilitata a cogliere ciò che si muove nell’intimo della persona, nelle sue profondità, ciò che addirittura è inconscio: ci aiuta o ci costringe a dire la verità. La formazione classica ha sempre dato molta attenzione ai comportamenti, al dato esteriore visibile, senza preoccuparsi granché di quel che la persona sentiva, delle sue motivazioni profonde, dei suoi sentimenti ed emozioni…, per poi ritrovarsi con persone che nel tempo della prima formazione sembravano o erano quanto mai corrette e perfette nell’agire, ma poi sono andate in crisi, o hanno dimostrato che quella correttezza era solo esteriore, forse sincera (non volevano ingannare nessuno, di solito…), ma non vera, o con poca profondità. E così hanno finito per ingannare se stesse prima ancora che gli altri.
La formazione d’un tempo non poteva dare quest’attenzione anche perché non aveva gli strumenti per questo tipo d’indagine, ma ora li ha grazie a un uso intelligente e proporzionato delle competenze psicologiche. Che possono aiutare la persona a conoscere il proprio mondo interiore, a lavorare sulle proprie motivazioni, sentimenti, attrazioni, perché il cuore sia tutto preso dal fascino del più bello tra i figli dell’uomo.
In tal senso la psicologia svolgerebbe un ruolo di grande realismo veritativo: riporterebbe tutte le tematiche formative, dalle esortazioni spirituali alle provocazioni intellettuali, alla verifica della propria umanità o di quanto queste realtà diventino parte di sé e della sua carne, cioè del suo mondo interiore, dei suoi sentimenti, o quanto divengano attrazione e desiderio, qualcosa che lo attira e che ama e mette in pratica, in cui si riconosce e che vuol egli stesso diventare. Non semplice aspirazione astratta o presuntuosamente mistica che poi di fatto non cambia nulla della sua persona, e diventa dunque finzione. La psicologia mi può aiutare a esser vero, e non solo a dire o credere la verità (oggettiva), ma a tradurla in verità soggettiva, a farne la verità del mio corpo, dei miei sensi, dei miei desideri….
Assieme la psicologia avrebbe anche una funzione integrativa, poiché sarebbe al servizio d’una formazione integrale, che dà cioè attenzione a tutti gli aspetti della persona. E l’aiuta a esser vera e a fare la verità.

Dai comportamenti alla sensibilità
Personalmente, all’interno di questa concezione della formazione umana, trovo molto importante e indispensabile un lavoro metodico proprio sulla sensibilità (che spesso rimane del tutto fuori dai nostri programmi formativi), ovvero sull’orientamento emotivo che la persona, spesso senza accorgersene, impara o s’abitua a dare alla propria vita e a se stesso.
Ognuno ha la propria sensibilità, ma normalmente si pensa che nessuno abbia alcuna colpa nell’avere una certa sensibilità, come fosse un dato ereditario, per cui ognuno va rispettato e lasciato nella sua sensibilità. Al punto che se un celibe per il regno dei cieli mi dice, come m’è successo, che secondo lui può permettersi un certo tipo di relazione pseudo-coniugale con una donna, perché sente che questo gli fa bene, e io cerco di obiettargli che forse non è questo il modo di vivere l’impegno celibatario, lui mi potrà sempre dire (come di fatto m’ha detto): “la mia sensibilità psicologica e morale mi fa vedere le cose in tal modo, se lei la vede diversamente vuol dire che lei ha una differente sensibilità. Ognuno ha la sua, io rispetto la sua, ma anche lei - per favore - rispetti la mia”.
Un’autentica psicologia fa piazza pulita di tutte queste sciocchezze. E ci fa capire che non si tratta di andare dove ti porta il cuore, ma semmai di portare il cuore dove vai e dove devi andare. Ovvero ognuno ha la sensibilità che si merita, e che s’è costruito attraverso le sue scelte, non solo quelle importanti e più determinanti, ma anche le cosiddette piccole scelte d’ogni giorno. Poiché ogni scelta significa orientamento dell’energia psichica e spirituale in una direzione precisa, che può esser in linea con i valori e ideali del soggetto oppure no. Dunque ogni scelta è importante.
Non esistono in psicologia scelte insignificanti o di poco conto; per la morale potranno esistere scelte neutre o prive di connotazione morale, o magari con connotazione morale minima (veniale) o rilevante (mortale); per la psicologia tutte le scelte implicano un orientamento dell’energia interiore in un senso o in un altro e dunque lasciano una traccia o rinforzano un’attrazione, e tendono a essere ripetute. Per questo non basta il criterio morale per decidere (questa cosa è peccato o no?), ma ci vuole il criterio psicologico (questa cosa è in linea con la mia identità e verità?). Troppo poco e troppo comodo che il giovane in formazione impari ad adottare solo il criterio morale, poiché una cosa può anche non esser peccato (dunque è lecita), ma potrebbe anche non esser del tutto o in parte in sintonia con la mia identità vocazionale, con la mia verità. Da questo punto di vista è più rigorosa e severa la psicologia che non la morale (alla faccia di chi ritiene che la psicologia ignori la morale o finisca per cancellare ogni responsabilità).
Questo è un esempio di sensibilità morale (detta anche coscienza), ma ci sono diversi tipi di sensibilità: relazionale (quanto conta l’altro nella mia vita, quale attenzione gli do?), spirituale (nel senso del rapporto con Dio), psicologica, intellettuale, estetica, affettiva, liturgica… Si tratta di settori importantissimi per qualsiasi essere umano e tanto più per chi si consacra. Ebbene, ribadiamo che la persona va formata fino a toccare-convertire i suoi sensi e la sua sensibilità; la sensibilità deve esser oggetto di formazione, e porsi al centro d’essa, è lì che deve avvenire la conversione, perché il cuore del giovane sia secondo il cuore del Figlio obbediente, del Servo sofferente, dell’Agnello innocente. E la sua sia una sensibilità evangelica, sensibilità del tutto umana e dunque capace d’entrare in contatto con l’umano, ma per tradurre il Vangelo in termini significativi e attraenti per la sensibilità umana. Il giovane deve assolutamente comprendere che è responsabile della formazione della propria sensibilità.
E di nuovo la psicologia oltre a chiarire il concetto e le sue dinamiche può dare un notevole contributo per aiutare in questo cammino formativo, fondamentalmente attraverso un richiamo alla propria responsabilità, attraverso la vigilanza e l’attenzione costanti, attraverso l’ascesi delle scelte di ogni giorno. In tal senso la psicologia svolgerebbe un ruolo che potremmo chiamare almeno indirettamente etico-morale. Un ruolo molto importante per la formazione della coscienza, o della sensibilità morale e non solo morale.

Rappresentazione psicologica e religiosa di Dio
La psicologia, infine, nella formazione iniziale può svolgere un notevole ruolo nel momento in cui non solo cura quel particolare aspetto della formazione che è rappresentato dall’umanità del soggetto, ma quando e nella misura in cui consente al soggetto stesso d’accogliere in sé la verità di Colui che gli si dona, nella sua oggettività, sempre più liberata da paure, resistenze, rigidità…, e così pure gli permette di scegliere la sua vocazione per la sua verità-bontà-bellezza intrinseche, e non per gratificare sue attese infantili-adolescenziali o difendersi da esse.
Sono come due tappe da curare con attenzione, su cui l’intervento psicologico può esser significativo. La prima si riferisce a obiettivi vocazionali intermedi, la seconda alla vera e propria relazione con Dio, punto terminale d’ogni percorso educativo.

Obiettivi formativi-relazionali intermedi
Il documento sull’uso delle competenze psicologiche nella formazione (al sacerdozio in questo caso), definisce e descrive così gli ambiti in cui dovrebbe muoversi e i fini cui dovrebbe tendere un aiuto anche psicologico: «il senso positivo e stabile della propria identità virile e la capacità di relazionarsi in modo autentico con altre persone o gruppi di persone; un solido senso di appartenenza, fondamento della futura comunione con il presbiterio e di una responsabile collaborazione al ministero del vescovo; la libertà di entusiasmarsi per grandi ideali e la coerenza nel realizzarli nell’azione di ogni giorno; il coraggio di prendere decisioni e di restarvi fedeli; la conoscenza di sé, delle proprie doti e limiti integrandoli in una stima di sé di fronte a Dio; la capacità di correggersi; il gusto per la bellezza intesa come “splendore della verità” e l’arte di riconoscerla; la fiducia che nasce dalla stima per l’altro e che porta all’accoglienza; la capacità di integrare, secondo la visione cristiana, la propria sessualità, anche in considerazione dell’obbligo al celibato », oltre alla capacità di vedere la vita, la propria esistenza storica come segno della Bellezza di Dio, luogo in cui si è manifestata la sua salvezza attraverso mediazioni umane.
Sono tutti aspetti che a volte rischiano di restare defilati in un cammino formativo ricco di luoghi comuni e sempre ricchissimo di alta spiritualità, ma poco declinato in atteggiamenti esistenziali come quelli che abbiamo ora citato. Va bene la spiritualità, ma se non fa nascere questi modi di porsi dinanzi alla vita, è per lo meno dubbia, e proprio per questo si rende necessario l’intervento anche psicologico, che cioè dà attenzione non solo al comportamento (al fatto che la persona faccia tutte le pratiche di pietà o esegua gli ordini ricevuti o abbia buoni rapporti con tutti…), ma a tutta intera la sua umanità, come abbiamo ricordato prima; non solo alla sua correttezza esteriore, ma anche alla sua sensibilità, più o meno nascosta (o a ciò che lo fa esser beato o triste); non solo al suo presente, ma anche al suo passato; non solo all’aspetto conscio, ma anche a quello inconscio; non solo alle trasgressioni, ma anche alle osservanze; non solo a quel che fa, ma al perché e al per chi lo fa… Finché tutto questo non diventi un metodo, come un’attenzione costante della persona stessa su di sé.

Obiettivo formativo-relazionale finale
C’è poi un obiettivo vocazionale finale: vedere il volto del Padre, ovvero la qualità del rapporto con Dio.
Dice uno stimato autore di spiritualità come T. Green: «Molti dicono che è estremamente difficile conoscere Dio, dato che non è possibile vederlo, udirlo o toccarlo come si farebbe con un essere umano. Questo è vero, naturalmente, ma io sono giunto alla convinzione che l’ostacolo più grande al vero discernimento (e a una vera crescita nella preghiera) non è la natura intangibile di Dio, ma […] il fatto che non conosciamo noi stessi e non vogliamo nemmeno conoscerci per come siamo veramente. Quasi tutti noi ci nascondiamo dietro a una maschera, non solo di fronte agli altri, ma anche quando ci guardiamo allo specchio». Ovvero, pazienza finché raccontiamo balle agli altri, il problema è quando le raccontiamo a noi stessi. Perché questo rischia di falsificare tutto nella nostra vita, anche il rapporto con Dio. Senza che ce ne rendiamo conto.
È chiaro che tale rapporto pesca nell’infanzia dell’essere umano: la primitiva immagine di Dio è inevitabilmente mediata dall’immagine dei genitori. Lo dice con chiarezza e assieme con grande tatto, senza stabilire alcun indebito automatismo, Imoda: «L’esistenza di riferimenti e di connessioni tra le umili vicende e concomitanze dello sviluppo della vita umana e i grandi temi della vita e della morte, per cui il destino di queste realtà formidabili può in qualche modo “giocarsi” negli stadi originari dello sviluppo, è forse una delle manifestazioni più stupefacenti del mistero della persona. Che la dignità umana, l’immagine stessa di Dio sia consegnata e venga a dipendere da fragili relazioni con altri soggetti umani in cui la vulnerabilità delle parti predispone a illusioni, a limitazioni, ad abusi; e che, allo stesso tempo, siano proprio queste fragili relazioni umane a divenire il canale e la mediazione per la costituzione, per l’offuscamento o spesso per la ricostituzione di questa dignità, è qualcosa di meraviglioso e di tremendum». Mistero grande! E che merita, dunque, tantissima attenzione nel tempo della prima formazione. La psicoanalista A. M .Rizzuto riferisce il caso d’un sacerdote in terapia che parlava di Dio negli stessi termini
in cui parlava del proprio padre, «con paura della sua voce, descritto con una certa ammirazione, severo e punitivo». Questa descrizione, che coincideva con un’immagine “archeologica” di Dio, era antitetica all’immagine di Dio ricevuta nel corso degli studi teologici; di qui il contrasto tra le due rappresentazioni, teologica e psichica di Dio, presenti a livelli diversi nella stessa persona.
Quando le due immagini sono state messe a confronto, non senza resistenze e conflitti, si è anche giunti alla risoluzione di alcuni fastidiosi sintomi come ansia, insonnia, una generale sensazione di pesantezza, una situazione interiore di rigidità, impossibilità a rilassarsi e lasciarsi andare, come se vi fosse sempre su di lui l’immagine del padre trasferita su Dio a controllarlo. Il lavoro terapeutico consistette nell’aggiornare-adattare la sua rappresentazione soggettiva di Dio al livello delle sue convinzioni teologiche, o lasciare che il Dio rivelato dalla storia d’Israele correggesse un po’ alla volta l’immagine trasmessa dall’esperienza con la figura paterna.
È un problema di memoria o di memorie, e a volte non è problema semplice, si tratta - in estrema sintesi - di lasciare che la memoria credente (e biblica) curi progressivamente la memoria affettiva (e storica) del soggetto, per non incorrere in una sorta di “schizofrenia spirituale” che può portare anche all’abbandono della fede.

Apporto della psicologia per la formazione permanente
Il titoletto va spiegato e chiarito. Non intendo in questa relazione affrontare il problema del contributo della psicologia alla formazione permanente, ma solo indicare alcuni elementi che nel tempo della formazione iniziale potrebbero e dovrebbero disporre la persona a continuare la propria formazione per tutta la vita. E questo perché, in realtà, il vero problema della formazione permanente è un problema psicologico, di libertà-disponibilità e convinzione soggettiva dell’individuo. Questa è dunque la mia tesi: la formazione permanente, come disponibilità soggettiva, inizia in realtà nella formazione iniziale e solo a precise condizioni. Ne vediamo alcune, a titolo solo esemplificativo.

Dall’estensione intrapsichica all’estensione temporale
Si crea nel giovane un’autentica disponibilità nei confronti della formazione permanente nella misura in cui egli viene educato fin dagl’inizi a vivere la formazione come qualcosa che s’estende a tutta la sua personalità, nel senso indicato più sopra.
Più la formazione s’estende a tutta l’umanità del soggetto, più il soggetto stesso sente l’esigenza di estenderla pure a ogni giorno della sua vita terrena; ovvero, più il processo formativo, specie quello degl’inizi, è intenso e abbraccia tutta la personalità dell’individuo (i suoi sensi, istinti, sentimenti, emozioni, impulsi, motivazioni, memorie ferite, desideri, aspirazioni…), più avrà necessità di continuare per tutta l’esistenza. È il classico rapporto direttamente proporzionale, o nesso del tutto naturale e pienamente logico, che s’impone per natura sua.
Al contrario, se uno vive il processo formativo limitandolo al dato comportamentale, se ha paura di conoscersi, di scendere nei propri inferi, o si rifiuta d’iniziare un lavoro serio di dissodamento del proprio terreno con tutte le operazioni - anche dolorose - che ciò comporta (aratura, scavo in profondità, estirpazione delle radici cattive, potatura…), è chiaro che costui non farà neanche un giorno di vera formazione e tanto meno lascerà crescere dentro di sé una volontà e disponibilità di formazione permanente; anzi, si chiederà a cosa serve o la sentirà come complicazione inutile. È inevitabile. A formazione superficiale corrisponde tempo di formazione molto breve.
L’intensità, con tutta quella provocazione di tipo psicologico che va esercitata nella prima formazione, evoca per natura sua l’estensione.

Dalla docilitas alla docibilitas
Altro passaggio nevralgico che favorisce la disponibilità a continuare il proprio cammino formativo è quello dalla docilitas alla docibilitas. Un passaggio che può esser molto favorito da un tipo di formazione che s’avvale di attenzioni psicologiche. La docilitas, infatti, quale semplice ossequio obbedienziale verso una categoria di persone chiamate superiori, in certi momenti della vita, è atteggiamento un po’ passivo e che comunque attende l’intervento dell’altro, come un’obbedienza ufficiale ed eventuale. E che a volte potrebbe essere forzata. L’analisi psicologica che va e vede oltre la condotta potrebbe rilevare l’inautenticità e la contraddizione di tale tipo d’atteggiamento. E aiutare a capire che non basta.
La docibilitas sarebbe il pieno compimento e superamento della semplice docilitas. Il tipo docibilis è colui che ha imparato un’altra libertà: quella di lasciarsi toccare e provocare dalla vita e dagli altri, da ogni situazione esistenziale, bella o brutta. Non trascura né butta via nulla della vita. Anzi, è libero di imparare o di lasciarsi educare e formare da essa e dall’esperienza d’ogni giorno, dal rapporto con gli altri, dai suoi stessi fallimenti e peccati…
Docibilitas è la piena intraprendenza dello spirito, o una forma alta d’intelligenza, forse la più alta, tipica di chi non sta ad attendere ordini che piovano dall’alto, ma prende lui stesso l’iniziativa per scrutare nella realtà quella valenza e opportunità formativa di cui la realtà medesima è sempre piena, e di cui lui ha bisogno per la sua crescita.
Non limita, di conseguenza, la sua obbedienza a quella canonica o ai momenti in cui gli altri, in particolare i superiori, gli danno indicazioni comportamentali, ma cerca di sviluppare una sorta di obbedienza universale (verso tutti) e come atteggiamento stabile (per sempre), proprio per sfruttare - idealmente - ogni opportunità formativa.
Ovviamente tale atteggiamento va formato e preparato: potremmo dire che l’obiettivo finale della formazione iniziale è esattamente la formazione della docibilitas. Soprattutto perché il soggetto non abbia paure e chiusure nei confronti della realtà, ma sia libero di esserle attento e proteso verso di essa; e libero pure di lasciarsene toccare, condizionare, istruire, educare, provocare, metter in crisi…, specie dalla realtà dell’altro.
La persona docibilis è persona che ha imparato a imparare, da tutti e per sempre, o soggetto libero di apprendere la vita dalla vita e per tutta la vita. Sembra un gioco di parole, ma non lo è per niente, perché la vita, anche quella consacrata, da apprendere e da cui lasciarsi formare, è sempre anche un dramma.

Dalla perseveranza alla fedeltà
Anche questa è una distinzione che si gioca tutta sul filo sottile dell’attenzione psicologica che va al di là del puro e semplice fatto di rimanere nella struttura, di non uscirne. Che sarebbe la semplice e materiale perseveranza. Molte volte, ahimè, ci si ferma alla perseveranza, ritenendola già virtuosa (la “santa perseveranza”),  senz’accorgersi che potrebbe esser solo o soprattutto esteriore o fatto puramente materiale, di permanenza fisica.
Il giovane è preparato a vivere la vita come formazione permanente quando non s’accontenta di perseverare nelle scelte compiute; ma quando è psicologicamente provocato a esser vigile per sfruttare le tante occasioni di crescita che la vita offre, a scrutare i propri ideali di vita per coglierne sempre più senso e ricchezza, per lasciarsi colpire dalle loro provocazioni a camminare, a convertirsi, a lasciarsi formare in continuazione dalla vita per tutta la vita. E questa è fedeltà. Qualcosa di più della semplice perseveranza, che è sostanzialmente statica e ripetitiva, mentre la fedeltà è dinamica e creativa.
Perseverante è colui che resta al proprio posto, resistendo più o meno virtuoso alla tentazione di cambiare e ribadendo la scelta già fatta, senza necessariamente approfondirla; fedele è chi decide di restare perché in quella scelta del passato percepisce un nuovo appello, un impegno più esigente, una maniera più ricca di viverla: resta, ma non sta fermo. Chi persevera solamente è psicologicamente passivo, al contrario di chi sceglie d’esser fedele.
Di conseguenza, si rispetta il contratto stipulato o si persevera – così nel linguaggio parlato – nell’impegno preso, preso con se stessi, soprattutto, con una scelta perseverante che è segno di coerenza e serietà; il tipo fedele, invece, si scopre dentro una relazione, si scopre amato, anzi, chi-amato, e decide d’esser fedele a Colui che lo chiama. Se il perseverante è tutt’al più… fedele a se stesso e alla parola data, colui che è davvero fedele è fedele al cuore donato, cioè fedele nell’amare e all’amore scoperto un tempo e riscoperto continuamente, magari purificato e rimotivato, più essenziale e vero; l’amore fedele è amore che cresce e, ancora una volta, impegnato e provocato in un cammino di verifica psicologica.
La perseveranza richiama l’idea della formazione come imitazione, ove importante è particolarmente la norma da osservare, magari a denti stretti; la fedeltà nasce, invece, dalla scoperta, in ultima analisi, della fedeltà degli altri, della vita, d’un Altro verso di noi, è sentimento e atteggiamento umano che sgorga da quello divino, indica un cammino d’identificazione coi sentimenti del Figlio.
Per questo perseverare e basta è questione soprattutto di volontà (a volte potrebbe esser questione d’orgoglio o di paura) e operazione che alla lunga diventa molto difficile se non improbabile; mentre la fedeltà è questione di cuore, è solo il risultato dell’amore, con maggiori garanzie di tenuta; chi è fedele scommette che sia possibile impegnarsi anche nei sentimenti, essere fedeli anche a essi, non solo agli impegni, e proprio per questo giungere a provare quelli di Cristo; ed è possibile scommettere sui sentimenti, di per sé, solo se si è fatto un cammino di formazione dei sentimenti stessi e della sensibilità. Chi persevera ha in genere un forte senso del dovere, della norma da osservare; chi è fedele va oltre il “si deve” e riempie la sua scelta di restare di motivazioni nuove che lo “costringono”, in qualche modo, a fare in continuazione quel descensus ad cor che è anche analisi intrapsichica e apre alla conoscenza progressiva di sé e delle proprie risorse.
Chi non va oltre la perseveranza, in particolare, di solito pensa alla formazione come a qualcosa che s’è compiuto nella fase giovanile della vita e che va come scemando, dal punto di vista della disponibilità formativa; chi vuol esser fedele cerca invece di crescere progressivamente nella docibilitas, fino a raggiungere il livello massimo nella morte, che sarà il momento più alto della conformazione a Cristo e ai suoi sentimenti.
In altre parole chi è fedele il vero noviziato non lo fa da giovane, quand’è pieno di belle speranze e di adolescenziali illusioni, ma lo fa nella fase finale della vita, quando si tratterà di fare il passo decisivo, di vivere con gli stessi sentimenti del Figlio anche il momento della morte, della piena assimilazione a lui.
Tale prospettiva va indicata subito, come una traiettoria di vita che dà realismo e verità al cammino, e che va avviata con tutte quelle attenzioni che la psicologia può offrire e insegnare a sfruttare.
E si conferma la nostra tesi: la psicologia al servizio della verità dell’uomo, del credente, del consacrato!

(Amedeo Cencini, su Testimoni 3 del 2013)