imagesMarzo 2013

Domande del nostro tempo

Dai segni di efficienza ai segni di vita

Dobbiamo comprendere che la qualità delle nostre relazioni dipende essenzialmente dalla qualità delle nostre comunicazioni. Siamo abituati a comunicare a livelli superficiali e mascherati, guidati spesso dalla paura del giudizio altrui, da immagini di perfezione.

«Quanta voglia nutro in cuore di stare in pace da raccomandazioni … consigli… richiami… circolari… puntualizzazioni… giudizi» Sr.G.B.

Il rinnovamento della VR parte dall’aprire gli occhi e prendere di peso l’inquietudine sempre più diffusa tra i religiosi/e dovuta al fatto di non trovare ciò che soprattutto cercano. Da qui “una certa malinconia collettiva che si manifesta con sintomi di insoddisfazione, di stanchezza esistenziale, di evasioni individualistiche, di delusione e disincanto nei riguardi del futuro”. So che c’è chi, nei panni di “responsabile”, si difende con il dire che mai come oggi, nelle comunità c’è tranquillità e assenza di prese di posizione “contro”, senza avvedersi che forse questo viene a dire che sta crescendo il numero di coloro che stanno imparando a vivere senza l’istituzione. Con il progredire degli anni, il sistema di valori, come da sempre riproposto, non basta a tenere assieme. La voglia di stare in pace – come sopra espresso – è dovuta al fatto che l’istituzione ha difficoltà di relazione o lo fa con documenti che parlano di spiritualità, di comunione, di futuro su basi dottrinali idealistiche, non realistiche, “virtuali” più che virtuose.
Per la VR è capitato ciò che è avvenuto per la Chiesa: le formulazioni dottrinali – con il nome di «tradizione » – sono diventate il suo stesso “essere”, avviando così lo slittamento dal Cristo come via verità e vita verso un modo nozionale e impersonale di concepire la verità e la vita. Ne è derivata una concezione della Chiesa e in essa della VR, come istituzione dottrinale-disciplinare, che si attribuisce la custodia e la difesa della verità, impegnandosi a sottrarla all’evoluzione storica con il fissismo della dottrina nelle sue formulazioni. Ma le norme possono portare a un assenso formale, a delle abitudini. Non hanno né parola né voce. Non possono “chiamare”, non possono dare luogo a una “vocazione”. Solo le figure vive, non un principio, può essere attraente. La grande quantità di documenti (in funzione dei principi), mentre rende impossibile una adeguata recezione, provoca anche una reazione di rigetto, argutamente paragonata da Arturo Paoli a quella suscitata dalle grida manzoniane di epoca seicentesca: con «questo barocchismo normativo la Chiesa non si copre di ridicolo proprio come l’allora governo di Spagna?».
In tempi in cui la relazione è ridotta all’invio di un sms – ebbe a dire un religioso – la VR, non da meno, relaziona con innumerevoli documenti, che degli sms hanno la stessa forza e intemperanza, con l’aggravio della lunghezza.
Immersi in una infinità di scambi sociali e di servizio, l’esperienza dell’incontro personale con l’altro è ridotto al minimo, atrofizzato, impoverito, insoddisfacente. La relazionalità va giocata in una comunicazione in profondità. Dobbiamo comprendere che la qualità delle nostre relazioni dipende essenzialmente dalla qualità delle nostre comunicazioni. Siamo abituati a comunicare a livelli superficiali e mascherati, guidati spesso dalla paura del giudizio altrui, da immagini di perfezione.
La vita religiosa, in questo tempo in cui la vita evangelica offre una biodiversità più ampia della VR, ha da trovare il suo specifico nell’essere «buona compagnia in Cristo, festosa esperienza di esodo, connessione vitale degli uni agli altri, reciprocità gioiosa, impegno estroverso e solidale, vita bella e buona che vale la pena di vivere e di proporre agli altri».

«Alla vita religiosa per essere significativa bastano i segni di efficienza o deve passare ad essere riconosciuta per i “segni di vita”?» (Fr.U.P.).

Questa domanda (mail) si pone in continuità con la precedente nel dire che oggi il problema della vita religiosa è di “qualità della vita”. Da qui la domanda: non sarà che i nostri orizzonti sono ancora troppo ristretti e le nostre visioni comunitarie ancora troppo grette con la vita e la sua abbondanza?
Non è profezia l’essere percepita in base alle sue prestazioni, alla sua utilità sociale, essendo questo conseguibile da tutti anche fuori della VR. Il logo di un convegno di religiosi invitava a passare dal socio-assistenziale al socio-esistenziale, cioè dalle relazioni di servizio alle relazioni umane, fuori la comunità e non meno dentro, perché la comunione spirituale, che è esperienza di relazione, viene prima e non è sostituibile da quella materiale. Comunione significa comunicazione della vita. Nella Bibbia non c’è esperienza di Dio che non passi attraverso una esperienza di fraternità o di amicizia, di alleanza tra persone. Si pensi a Mosè e Aronne e via via fino ad Elisabetta e Maria. Nelle chiese degli Atti e delle comunità paoline troviamo che Paolo non agisce mai da solo e neppure con una categoria generica di comunità, ma con collaboratori chiamati per nome e ciascuno diverso dall’altro. Nella vita di una comunità è importante che ci siano esperienze di alleanze. Atanasio racconta che Antonio, il padre dei monaci, congedandosi dalla vita si rivolse ai discepoli «come vedesse degli amici», quasi ad anteporre il rapporto amicale a quello della fraternità.
Abbiamo bisogno di creare relazioni speciali, feconde sintonie, affinché i nostri talenti e i nostri compiti possano andare a buon fine e produrre frutti di crescita per l’intera comunità. Dice R.Virgili: «Gli autentici cammini di autotrasformazione si svolgono sempre (…) all’interno di relazioni strettamente personali; è qui che si disattivano a poco a poco tutti i meccanismi che generano ipocrisie», giudizi, rifiuti.
È tempo allora di una vita religiosa meno teorizzata e più vissuta, per essere capace di segnare l’esistenza. Non basta la pura razionalità. Il card. Tarugi, discepolo di S. Filippo Neri, diceva che «il compito del suo istituto è di parlare al cuore»; per cui poteva dire: «la nostra comunità è fondamentalmente un’amicizia cristiana». E il “motto” di una altro “oratoriano”, il card. Newman, era: cor ad cor loquitur quale espressione del principio fondamentale della vocazione di ogni cristiano. Al parlare con il cuore ricorreva anche S. Paolo. Ad esempio, nello scrivere a Timoteo così si esprimeva: «Mi tornano alla mente le tue lacrime, ho nostalgia di rivedervi». Il card. Casaroli, segretario di Stato, parlando di Giovanni XXIII, lo evocava con l’immagine di uno che «con il calore personale pareva fondesse una profonda barriera di ghiaccio». È la stessa impressione che all’inizio del concilio ebbero gli esponenti non cattolici quando il papa si rivolse a loro con queste parole: «Vogliate leggere nel mio cuore; vi troverete qualche cosa di più che nelle mie parole». Due anni prima si era presentato ai rappresentanti ebrei, aprendo le braccia ed esclamando: «Sono Giuseppe, il vostro fratello», rievocando Giuseppe l’ebreo che si rivela in Egitto ai fratelli. Tutti questi atteggiamenti, ai quali va aggiunto l’abbraccio commosso al patriarca ortodosso Atenagora, stavano a indicare il volto nuovo dell’essere Chiesa.
Anche la vita religiosa – anzi soprattutto essa – deve far sì che il sacro non affievolisca l’attenzione del cuore perché Dio non è presente dove è assente il cuore. È la gioia che è capace di fecondare la vita; quella gioia che non è soltanto uno stato d’animo a cui uno accede in modo passivo, ma quella conseguente alla decisione di fidarsi del Signore, di affrontare con lui le varie prove della vita.

«Quali sono gli aspetti che rendono bello, utile, desiderabile il celibato e quali gli influssi storici da cui liberarsi? » (Fr.H K.)

Il cristianesimo – specialmente in relazione al celibato – è erede di una cultura protrattasi per oltre venti se coli. Nel mondo greco-romano la sessualità era considerata come una realtà che impediva il contatto e il servizio alla divinità. Idea “gnostica” era: chi “sa”, chi “conosce”, è soltanto colui che si libera dagli impacci ed esigenze del corpo, consapevole della loro negatività. La concezione dualista dell’uomo era allora indiscussa e portava a concludere che negli esseri umani l’autentico modello di unione fra anima e corpo è la verginità.
Quando S. Paolo nella lettera ai Corinti si fa paladino del celibato non è che voglia smentire Yahwè il quale in Genesi afferma che non è bene che l’uomo resti solo; le sue affermazioni erano inserite nell’attesa dell’imminente giudizio. Anche in Luca la Chiesa nasce come “comunità della vigilia”, cioè un’assemblea che aspetta l’arrivo dell’ultimo giorno che pensavano imminente. Dopo questo momento la Chiesa si organizzò, ad esempio, preferendo che gli episcopoi fossero regolarmente sposati: la presenza di una famiglia, il dovere dell’educazione dei figli, la vita ordinata imposta dal vincolo coniugale, compresa la continenza, parevano garanzie anche per una buona gestione degli affari ecclesiastici. Ciononostante nel secondo secolo, erano molte le chiese che attribuivano un ruolo primario al celibato. Per Marcione, Taziano e gli encratiti la sessualità esprimeva la separazione dell’umanità dallo Spirito di Dio. Il filosofo apologeta greco Atenagora diceva: «Il rimanere vergini e celibi più avvicina a Dio»; affermazione che trovava d’accordo ebrei e pagani specie nel decretare l’autorità dei profeti. Nel ‘300, l’ascetismo – invariabilmente associato a qualche forma di castità perpetua – era una realtà radicata in molte regioni cristiane. Si riteneva che celibato e santità fossero in qualche modo coincidenti. In questo stesso periodo, è soprattutto con S. Agostino che la sessualità, e in particolare il “generare”, non sono ben visti, perché considerati in definitiva, tradux peccati, cioè il mezzo che fa passare il peccato da Adamo all’umanità.
Oggi non c’è più chi pensa che la sessualità e il conseguente matrimonio su cui si fonda l’umanità sia uno spiacevole incidente; anzi la psicologia del profondo le accorda un’ importanza capitale nella maturazione della persona. Il celibato, allora, in “coloro ai quali è stato concesso” (Mt 19,12), deve trovare il suo significato e la sua ragion d’essere non solo o tanto nella rinuncia – al fine di rendere maggiormente disponibili per lo studio, la preghiera, il servizio di Dio o permettere di allacciare legami a vantaggio di un ventaglio di relazioni allargato – ma soprattutto nella “fecondità”, e nella “generatività” di quanto può nascere da cuori che osano l’amore senza pretese egoistiche. Una suora, a chi le diceva che amare è pericoloso rispondeva: «Ma non aprirsi all’amore è ancora più pericoloso». Il celibato per il Regno deve portare ad essere creature con un seme di luce racchiuso in un guscio di creta, chiamate a liberare tutta la luce sepolta in ogni uomo, sapendo scorgere tracce di bontà in ognuno. Gente attenta alle tenerezze negate, alle solitudini patite, alle debolezze; che sa asciugare le lacrime con il posare carezze nel fondo dell’anima.
Questa è la vita celibataria alla quale i consacrati/e si votano, riconoscibile dall’essere una vita sottratta al dominio dell’interesse, che incrocia il bisogno altrui perché alcunché è scattato nel cuore, forti unicamente di qualcosa e Qualcuno che li può cambiare continuamente.

(Rino Cozza csj, su Testimoni 2 del 2013)