SoffioPrimavera_mar13-300x209Marzo 2013

A cinquant’anni dal Concilio

Ritrovare il soffio carismatico

Nel profondo rinnovamento ecclesiale del Vaticano II anche la vita consacrata ha conosciuto una potente sollecitazione all’aggiornamento. Tornare a una lettura attenta dei testi rilancia il coraggio dell’invenzione carismatica e della fedeltà creativa.

In occasione del III convegno internazionale delle riviste di vita consacrata (roma 28-30 novembre; cf. testimoni 21/2012, p. 1) p. Bruno Secondin, professore alla Gregoriana e alla facoltà teologica del triveneto, ha illustrato i testi conciliari sulla vita religiosa. Riteniamo utile per i nostri lettori riprendere qui la sua relazione (ndr.).

Rileggere oggi quello che il concilio dice sulla vita consacrata può dare l’impressione di insegnamenti non particolarmente audaci, di esagerazioni non controllate, di utopie visionarie. Anzi ci sono elementi chiaramente superati dai tempi e affermazioni retoriche. Ma ci sono anche tanti semi che il postconcilio ha fatto diventare alberi grandi: uno per tutti il riferimento ai doni per la nascita delle famiglie religiose, che poi è cresciuto nella teologia del carisma. E anche linguaggi allusivi che il postconcilio ha fatto diventare linee guida: uno per tutti il lessico del “segno” che è diventato quello della profezia in modo esplicito. E riferimenti vitali, come la familiarità con la parola, che è diventata davvero “sorgente pura e perenne di vita spirituale” (dv 21) nella lectio divina, o la chiave ermeneutica della “cultura” che ha aperto l’orizzonte dell’inculturazione. Lo stesso orizzonte ecclesiologico di partenza è fiorito nella spiritualità di comunione e nella fraternità. E via dicendo.

1. I principali testi conciliari sulla vita consacrata
Ci sono anche alberi grandi (all’apparenza) che sono diventati meno grandi: per esempio i religiosi erano nel 1965 circa 329.799 e nel 2010 risultavano 206.308. Mentre le religiose (tutte, comprese le monache) nel 1965 erano 961.264 e nel 2010 erano scese a 586.519. Si tratta di numeri, certo, ma non dicono neanche tutto: perché l’età media dei religiosi si è molto alzata, e perciò la situazione è più fragile.
Sono 16 i documenti che il concilio vaticano ii ha emanato. Uno di essi è dedicato esplicitamente alla accomodata renovatio della vita religiosa ed è il perfectae caritatis, promulgato quasi alla fine del concilio (28 ottobre 1965). Mentre la costituzione dogmatica lumen gentium (21 novembre 1964) vi dedica l’intero capitolo vi (abbastanza breve: 5 paragrafi). La genesi di questo capitolo ha una storia complicata e la sua stessa collocazione fu molto discussa (unirlo o separarlo rispetto alla vocazione universale alla santità, del c. v). Degli altri 14 documenti si può dire che ne parlano secondo l’ottica del tema che trattano. L’unico testo che non fa cenno alcuno ai religiosi è la dichiarazione sul diritto della persona e delle comunità alla libertà in materia religiosa (dignitatis humanae).
Per la liturgia la costituzione sacrosanctum concilium vi fa parecchi riferimenti, non teologici, ma di tipo pratico e complementare: chiedendo di volta in volta che quello che è detto in generale o per la vita sacerdotale, sia applicato anche alla vita religiosa (formazione liturgica, revisione dei rituali, ufficio divino, feste, musica, ecc.). Lo stesso metodo vale per i decreti sulle chiese orientali (orientalium ecclesiarum), sulla comunicazione sociale (inter mirifica), sulla formazione sacerdotale (optatam totius), sulla vita dei preti (presbyterorum ordinis), sulla educazione cristiana e le università (gravissimum educationis), sull’ ecumenismo (unitatis redintegratio) e sul dialogo interreligioso (nostra aetate).
Una qualche importanza ha quanto indica il decreto sull’ufficio pastorale dei vescovi (christus dominus) circa la presenza dei religiosi nel servizio della chiesa locale, elemento da sempre non privo di frizioni. Non per nulla è uscito poi mutuae relationes (1978) e da tempo si pensa pure di farne una revisione. L’evoluzione in atto nelle diocesi circa lo stile di programmazione e di coordinamento da parte dei vescovi confligge spesso con l’identità e la missione dei religiosi.
Una parola va detta sui testi di maggiore importanza dottrinale. La costituzione dogmatica dei verbum ha solo un cenno specifico, al n. 25, dove si “esorta con forza e insistenza tutti i fedeli cristiani, soprattutto i religiosi, a imparare “la sublime conoscenza di gesù cristo” (fil 3,8) con la frequente lettura delle divine scritture”. La costituzione pastorale Gaudium et Spes ignora la vita dei religiosi, e ne fa un cenno del tutto casuale quando parla dei vescovi: “Con la vita e con la parola, essi, assieme ai religiosi e ai fedeli, dimostrino che la chiesa…” (n. 43). Più ricco e specifico quanto invece dice il decreto ad gentes, sull’attività missionaria. Essendo giunto ad approvazione alla fine del concilio (7 dicembre 1965) ha potuto assimilare e condividere i risultati precedenti e completare in certo modo quanto non era stato esplicitato nei due testi fondamentali, della lumen gentium e di perfectae caritatis. Non va trascurato anche che in quel tempo il clero indigeno non era molto numeroso e le missioni erano praticamente in mano agli istituti religiosi. E quindi la relazione con essi non poteva essere trascurata.
Numerosi infatti sono i riferimenti alla vita religiosa in modo specifico: il n. 18 è dedicato alla promozione della vita religiosa fin dalla implantatio ecclesiae, nelle sue varie forme, incluse quelle monastiche e contemplative, come segno della vera natura della identità cristiana. E si fa cenno anche alle tradizioni locali ascetiche e contemplative pre-esistenti, che dio ha seminato e “possono essere assunte per la vita religiosa”. Nel capitolo iv sui missionari (nn. 23-27), pur includendo un po’ tutti i protagonisti (sacerdoti, catechisti, religiosi, suore, laici), il discorso è logicamente con evidenza rivolto agli istituti religiosi. Anzi è proprio in questo contesto che viene usato il termine carisma anche in riferimento agli istituti missionari (unica applicazione conciliare ai religiosi). Il capitolo successivo, dedicato all’organizzazione missionaria, sollecita la presenza della rappresentanza dei religiosi sia in propaganda fide, sia nei consigli pastorali delle diocesi. E auspica organizzazione e coordinamento degli istituti - tra i quali primariamente gli istituti religiosi - impegnati in attività missionarie (nn. 32-33). Infine va richiamato il n. 40 sul “dovere missionario degli istituti di perfezione”, molto attestato nella storia e da incrementare anche con nuove tipologie di partecipazione, “vivendo in modo adatto alle tradizioni autenticamente religiose dei popoli”.

2. Il capitolo VI della lumen gentium
La storia della redazione della costituzione dogmatica lumen gentium è complicata. E dentro questa complicazione sta anche la redazione del capitolo vi de religiosis (nn. 43-47). Fin dalla prima redazione dello schema sulla chiesa c’era un capitolo (il v°) intitolato de statibus evangelicae acquirendae perfectionis, e veniva dopo la trattazione sui laici. Ma nell’estate 1963, la commissione teologica di coordinamento rimaneggiò tutto il materiale e venne fuori una nuova redazione dell’argomento, come seconda parte della trattazione su de vocatione ad sanctitatem in ecclesia. Decisione che non tutti accettarono con facilità: sia i religiosi per la convinzione che la loro fisionomia dovesse avere più risalto e autonomia; sia i teologi (specie tedeschi) che volevano evitare di identificare santità e religiosi. La votazione finale del capitolo intitolato infine de religiosis si fece il 18 novembre 1964 con 2114 placet e 12 non placet. Tre giorni dopo, il 21 novembre 1964, tutta la costituzione dogmatica lumen gentium fu approvata in blocco e subito promulgata da paolo vi.

2.1. La teologia del capitolo VI
In forma molto sintetica il pensiero ecclesiologico è il seguente.
2.1.1. Nella struttura “carismatica” della chiesa: si parte dal principio ecclesiologico, per cui nella struttura gerarchica della chiesa la vita religiosa non ha posto, in quanto la distinzione è solo fra gerarchia e laici (chierici e non-chierici) e non esiste quindi, secondo il vaticano ii uno stato intermedio (lg 43). Nella struttura invece che deriva dalla diversità di doni, e quindi nella struttura carismatica o pneumatica, che egualmente esiste per volere divino nella chiesa, la vita religiosa è elemento tipico ed ineliminabile: “Lo stato costituito dalla professione dei consigli evangelici, pur non riguardando la struttura gerarchica della chiesa, appartiene tuttavia indiscutibilmente alla sua vita e alla sua santità” (lg 44).
La frase si presta a molteplici interpretazioni: per molti questo ambito della “vita e santità” appare troppo flessibile e liquido, e porta a ritenere non indispensabile la vita religiosa per la forma solida della chiesa. E oggi questo principio della duplice struttura della chiesa è quasi monopolizzato - nella teologia di media qualità - dai movimenti ecclesiali, perché di frequente ad essa fanno riferimento per la propria autocertificazione. Col rischio di relegare (implicitamente) la stessa vita religiosa fra le strutture rigide e poco carismatiche.
2.1.2. Nell’orizzonte della chiamata universale alla santità. In un primo momento la trattazione sulla vita religiosa (intesa tomisticamente come stato di perfezione da acquisire) era la parte complementare della chiamata universale alla santità. Ma poi si separò proprio per non confondere il principio generale con il modello religioso, quasi fosse l’analogatum princeps. La santità è sostanzialmente una, in quanto unione con dio e perfezione della carità. E tutti i cristiani devono coltivarla, a partire dalla radice battesimale, in prospettive evangeliche e cristocentriche, pneumatologiche ed ecclesiologiche: “Tutti i fedeli di qualsiasi stato o grado sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità” (lg 40).
Chiarito questo principio, la diversificazione si manifesta attraverso le vie e i mezzi che, per ispirazione dello spirito, si assumono. E fra questi elementi di differenziazione il concilio pone prima di tutto il martirio e poi la verginità (lg 42), come espressioni di un amore radicale. Da qui si passa al principio delle grazie liberamente date da dio, a “un dono della grazia, dato dal padre ad alcuni” (lg 42). La risposta al dono si può visibilizzare per alcuni nella condotta impegnata e pubblicamente espressa secondo le esigenze indicate dai consigli evangelici di radicalità. Tale realizzazione assume anche – ma non per tutti - l’identità di una “peculiare e più intima consacrazione” a dio e al suo servizio, nella conformazione radicale a Cristo, unito alla sua sposa chiesa (lg 44).
2.1.3. Nuova e speciale consacrazione. Si tratta quindi in espressioni molto dense di: una origine pneumatologica (il carisma, ma non in senso ristretto), che plasma volontà ed esistenza in densità teocentrica (la consacrazione) e cristocentrica (la sequela) per il bene della chiesa e la pienezza della sua stessa identità, in prospettiva del regno (escatologia). Una espropriazione radicale sollecitata da dio (consecratur a deo, fu esplicitamente ribadito dalla commissione teologica), per un amore e un servizio a dio più intimo, più libero, più carico di visibilità e profezia (segno). Fenomenologicamente e teologicamente ciò si evidenzia in molteplici direzioni, come dice con tanti comparativi e superlativi lg 44. Oggi questi comparativi lasciano un po’ perplessi, anche perché accompagnati dal lessico analogo: specialis, peculiaris, singularis, ecc.
Viene ribadito il legame ineliminabile con la dignità e l’impegno battesimale, comune a tutti; il paradigma della sequela christi generosa ed esplicita, da forma visibile alla imitazione e immedesimazione con i gesti, lo stile e le parole del maestro; la regìa dello spirito con i suoi doni suscita nuove risorse di evangelizzazione e nuovi modelli di vita evangelica in rispondenza alle sfide dei tempi; la prospettiva ultima del regno atteso è richiamata anche se in modo non incisivo. Elementi tutti che mostrano come l’attrazione verso la “normalità” sia forte, nonostante i diffusi comparativi (teologia del magis).
2.1.4. Segno che attrae: dalla realtà teologale in cui si radica questa esistenza cristiana, deriva, secondo il concilio, la forza e la qualità dell’essere signum. Anche su questo vocabolo le discussioni non mancarono. Perché l’essere signum non può essere in se stesso assolutizzato, quasi che gli altri stati o forme di vita non lo fossero o non avessero pure loro uno specifico ruolo di signum, diverso e proprio. Per questo vc 31 introduce la definizione di vocazioni paradigmatiche, per correggere il rischio di una polarizzazione che ostacola una ecclesiologia comunionale. Ma certamente c’è una certa eccedenza teologale, ecclesiologica e fenomenologica in questa vita religiosa, comunque la si voglia indicare. Tanto per fare qualche esempio: - per la prossimità più tematizzata al vangelo e al radicalismo proposto da gesù con le parole e la vita, e nei “consigli” di radicalismo, che sono “molteplici” (lg 42); - per la capacità sistematica e strutturata di dare rilievo alle esigenze tipiche di un servizio esplicito al regno, attraverso il primato di dio nell’orazione e la vita in fraternità corresponsabile; - per l’enfasi sulla speranza con l’eunuchia per il regno e il discernimento corresponsabile sui progetti di dio per la salvezza del mondo; - per lo stile solidale attraverso la comunione dei beni, la sobrietà e austerità della vita, la diaconia ai più deboli, la funzione profetica e trasformatrice del vivere; - per l’intraprendenza, la creatività e l’inventiva nelle iniziative sia di diaconia che di spiritualità…
Da tutto questo e molto altro, i padri conciliari hanno creduto opportuno sia ricordare l’importanza e “la grandezza” della vita religiosa per il bene di tutta la chiesa (lg 46), sia ribadire l’opportunità e il beneficio di un interessamento direttivo della gerarchia “seguendo docilmente gli impulsi dello spirito” (lg 45).

2.2. Per una valutazione
Certamente è stata una grande novità avere ricondotto la vita religiosa nell’alveo della vocazione universale alla santità. Questo per alcuni ha forse indebolito la sua peculiarità rispetto alla tradizione, e certo ha reso obsoleta e inadatta la terminologia di stato di perfezione. Ma ha reso anche possibile all’inverso una trasposizione a tutti di certi elementi tipici: la sequela e i consigli di radicalismo, le mediazioni ecclesiali (parola, sacerdozio, fraternità, testimonianza, profezia, missione,…), agire virtuoso, epifania dell’agape, ecc. Ma certe insistenze ancora vive sul “peculiare” e “speciale” che caratterizzerebbe questa forma di vita, mostrano la difficoltà a pensare la chiesa a partire dall’unità di tutti invece che dalla differenza per classi. Forse certe nostre “superbie” antiche sono oggi trasmigrate presso altri soggetti ecclesiali.
Ha fatto scuola in maniera decisiva questa ricollocazione dentro la chiesa e a partire dalla chiesa: anche se secoli di differenza e di separazione non si cancellano in un attimo. Nell’immaginario non solo del popolo, ma anche della stessa gerarchia, certi criteri di differenza e di diversità non solo rimangono per automatismo mentale, ma sono convinzioni che spesso non facilitano la reciprocità nell’edificazione della chiesa e nella testimonianza per il regno. Manca globalmente nella identità descritta dalla lumen gentium però una chiara relazione con la chiesa locale e particolare, per cui l’ecclesiologia sembra volare in astratto. Meglio evidenzia questo il decreto Ad gentes, come abbiamo accennato.
Il lessico dei comparativi, indizio di una mentalità perfezionista e una certa tonalità rassicurante, esortatoria e non di rado esaltatoria, fanno problema per la nostra sensibilità oggi. Potrebbe tenere in vita e favorire la sensazione di una corsia preferenziale, di una élite dentro la chiesa, di una eccellenza che distingue. È facile allora l’avvicinamento alla convinzione di una superiorità oggettiva, che non sarebbe coerente con il testo conciliare. L’acquisizione maggiore e gravida di conseguenze nel postconcilio è la terminologia della consacrazione: senza rilievo nel primo schema, ma dal secondo in poi sempre più consolidata e esplicitata come “consacrazione mediante i consigli evangelici” assunti con voti. Essa è da intendersi come “nuovo e peculiare titolo” con cui la consacrazione battesimale viene vissuta, resa più efficace e visibile. Rimane non del tutto specificato nel testo che è “consecratio a deo” (anche se la commissione teologica lo ha spiegato), e suscita perplessità il senso della perfectior consecratio (lg 44). Se da parte di dio non può essere più perfetta, allora lo è forse da parte dell’uomo (con un cuore indiviso o con una modalità più stabile di legami con cui si assumono i consigli)? “La consacrazione fa riferimento ad una realtà teologale più grande e profonda di quanto i vincoli possano tradurre”, commenta la recchi, cercando di focalizzare la natura della consacrazione in relazione con gli elementi costitutivi. Nonostante ormai sia diventato titolo fisso, la terminologia vita consacrata e la sua costellazione non manca di aspetti ancora da chiarire e di rischi di “sacralizzazione” eccessiva.

3. Il decreto Perfectae caritatis
Arrivato alla conclusione un anno dopo lumen gentium, il decreto de accomodata renovatione vitae religiosae (28 ottobre 1965), ha potuto evitare di ripeterne la dottrina teologica ed ecclesiologica, ma intenzionalmente ha anche evitato, su alcuni punti, le lacune della lumen gentium, con un linguaggio più concreto e riferimenti specifici alla realtà della vita religiosa. La storia della redazione è complicata (almeno sette redazioni), anche perché si era partiti da una impostazione prevalentemente perfezionista e giuridica e la bozza dello schema era lunghissima, sotto il titolo generale: de statibus perfectionis adquirendae. Ridotto in modo drastico all’osso il contenuto, nella sua redazione sesta fu discusso per alcuni giorni dai padri conciliari nel novembre 1964, con 14 mila proposte di emendamenti, poi riassunte in 594. Infine il settimo rifacimento giunse al traguardo dell’aula conciliare all’inizio di ottobre 1965: fu votato definitivamente il 28 ottobre 1965 con 2321 placet contro 4 non placet. Il titolo finale univa renovatio e accomodatio, prima disgiunte da un et. In realtà era la traduzione latina dell’italiano aggiornamento, il cui senso si ritrova all’inizio del n. 2: “Il rinnovamento adeguato della vita religiosa comporta insieme il continuo ritorno alle fonti di ogni forma di vita cristiana e all’ispirazione primitiva degli istituti e il loro adattamento alle mutate condizioni dei tempi”. Il decreto si divide in due parti: i principi generali del rinnovamento (1-15a) e le applicazioni pratiche (15b-24). Fu promulgato subito dal papa paolo vi.

3.1. Principi del rinnovamento (PC 1-15a)
Non abbiamo qui una dottrina totalmente nuova. Tuttavia alcuni elementi sono poi stati capaci di imprimere un nuovo orientamento pratico e anche spirituale alla vita religiosa. Il primo paragrafo fa da trait-d’union con lumen gentium e ne riprende il concetto di signum e di radicamento nella sequela christi. E lo stesso incipit, perfectae caritatis, riorienta il classico status perfectionis in maniera teologale e cristocentrica. Vediamo gli elementi principali.
3.1.1. Originata da un impulso/dono: nell’introduzione non si nomina il carisma esplicitamente, ma si usa il lessico del dono e dell’impulso dello Spirito, richiamando nelle citazioni il retrofondo paolino. Si accenna, come già aveva fatto lg 43, alla insorgenza storica e allo sviluppo di famiglie e varietà di comunità religiose, a beneficio della bellezza della chiesa e della epifania dell’oblazione a Cristo. Questa storicizzazione dell’esistenza della vita religiosa, più che per l’aspetto fenomenologico, vale per la relazione stretta fra l’attività ecclesiale dello Spirito sempre innovativa e l’apparire e il consolidarsi delle varie tipologie e comunità. Non quindi una genesi puramente funzionale e contingente, ma una natura carismatica e dinamica della stessa vita religiosa. È causata dalla imprevedibilità dello spirito, è da accogliere e custodire, rendendola stabilmente inserita e sostenuta, in obbedienza allo stesso spirito. In verità l’obbedienza allo Spirito era più esplicita in lg 43. Mentre il riferimento alla parola “carisma” neppure qui è esplicitato appieno. Negli interventi di vari padri conciliari invece già c’era questo lessico (cf. kleiner, sol), che affiorerà esplicito un mese dopo in ad gentes (n. 23).
J.m.r. Tillard, in un suo commento, evidenzia alcune fragilità (o insufficienze) di questo paragrafo: il principio pneumatologico rivolto solo al passato, mentre è imprevedibilità permanente. Da qui la motivazione per un aggiornamento permanente della vita religiosa. Perché lo spirito è il protagonista della sua fedeltà e perciò si esige uno statuto aperto. Il riferimento ai “primi tempi della chiesa” (allusione alla comunità primitiva) implica un paradigma aperto capace di superare le sclerotizzazioni sacralizzate, per stare nella storia con creatività. Il riferimento alla “professione dei consigli evangelici” intesi poi subito nello schema della triade classica (per cui si descrive anche gesù “vergine, povero e obbediente”) è storicamente inesatto e riduttivo. Alle origini la prospettiva era più globale, e la triade classica è apparsa “normativa” solo intorno al xiii secolo.
3.1.2. Principi generali di rinnovamento: questa sezione è il nucleo vivo che ha provocato e guidato tutto il gran lavoro dell’aggiornamento. Al primo posto viene la centralità della sequela christi, che non è soltanto uno fra i cinque criteri di riferimento, ma ha il primato su tutti e giudica tutti gli altri. Non una sequela comunque sia, ma alla luce del vangelo. E qui si aprirebbe un panorama complesso: molti linguaggi sul cristocentrismo della vita religiosa risentono (ancora oggi) di cristologie vecchie e statiche (legate all’ethos culturale della nascita degli istituti) e non sono più legittime. Proprio su questo punto l’aggiornamento ha ancora molto da procedere e da purificare, per arricchirsi e diventare sequela christi nella contemporaneità della coscienza “cristologica” della chiesa.
Gli altri criteri guida sono il ritorno alle intenzioni carismatiche di origine, la sintonia con la chiesa e la sua fede in cammino, l’attenzione al mondo contemporaneo nelle sue varie trasformazioni sociali e culturali. Ognuno di questi criteri è espresso in terminologie vaghe, che poi però lo sviluppo del rinnovamento ha concretizzato in maniera molto più specifica e con apporti originali e dirompenti. Il quinto criterio sembra quello che più stava a cuore ai redattori, perché viene ripreso ancora più avanti ai nn. 5-6: cioè quello della dimensione interiore e del “rinnovamento spirituale, al quale spetta sempre il primo posto anche nelle opere esterne di apostolato” (pc 2e).
3.1.3. Due gioielli mal collocati. Stranamente il bel contenuto dei nn. 5-6, che tra loro sembrano a volte intrecciarsi, appare qui quasi fuori posto: viene dopo una indicazione pratica sulla consultazione di tutti. Di fatto il contenuto dei nn. 5-6 è in consonanza con il primo paragrafo, o comunque potrebbe essere anche un ampliamento del quinto criterio guida del rinnovamento. Vi troviamo elementi ispirativi che hanno fecondato l’aggiornamento nei suoi frutti migliori: posti così fra gli autori (tutti) del rinnovamento e le differenti tipologie, sembrano restringersi alla sola vita spirituale personale. Già la prima affermazione sulla radice battesimale, che tende ad esprimersi “con maggior pienezza” nella speciale consacrazione dei religiosi, in prospettiva cristologica ed ecclesiale, è una pietra stabile da non perdere di vista. E il primato della carità, dell’ascolto della parola e della preghiera (n. 6), completa la visione di una esistenza che è radicata nell’agape di dio e la alimenta nella chiesa per il bene del regno. Tutta la tradizione spirituale fino a questo momento, era carica di devozioni e ritualismi, e faceva della Scrittura e della Liturgia solo una miniera di buone opere. La centralità della parola e della liturgia sono ormai fatti compiuti, anche se da perfezionare.
3.1.4. La vita fraterna in comune: questo tema (n. 15a), come annota bene tillard, sarebbe stato meglio collocarlo subito dopo il n. 6, perché ne è evidente esplicitazione. Il suo contenuto ha una densità teologale che ben esplicita “la qualità misterica dello stesso essere comunità”. Si delinea come traduzione in elementi umani visibili, atti, ritmi e stili, della koinonia trinitaria, come una epifania del mistero stesso che sta nel seno della chiesa. Non solo è uno dei punti vertice della vita religiosa secondo il concilio, ma sarà anche una delle prospettive che si svilupperà molto nei decenni successivi, come dimostrano l’istruzione la vita fraterna in comunità e poi vita consecrata nella parte centrale (c. II).
Interessante rilevare che il modello classico degli atti degli apostoli, viene citato, ma inglobandolo in una rete di implicazioni teologali, riprese anche da altri modelli neotestamentari di comunità (paolino, matteano, giovanneo). Ciò consente di aprire alla pluralità feconda vissuta dalle vicende esploratrici della chiesa primitiva, superando la concentrazione sulla chiesa di gerusalemme. La seconda parte del paragrafo scende ad indicazioni concrete per introdurre una più effettiva uguaglianza fra tutti i membri dentro le comunità (monasteri, suore, istituti) in nome di un “più intimo vincolo di fraternità fra i membri”. E si transita così alla seconda parte, che ha preoccupazioni più pratiche e disciplinari, anche se non mancano delle implicazioni di principio.
3.1.5. Le diverse tipologie e i voti: senza entrare in troppi dettagli notiamo che il concilio, pur tra discussioni e pressioni, era riuscito a individuare una serie di differenti tipologie: istituti contemplativi, apostolici, monastici e conventuali, laicali, secolari (pc 7-11). Varietà che certamente in quel momento arrivava carica di storia e di protagonismo specifico. Oggi la classificazione (nel codice) si è ristretta a due grandi categorie prevalenti: vita contemplativa e vita apostolica. Vantaggiosa distinzione per risparmiare nelle diversità, ma anche rischioso livellamento che non ha ancora convinto tutti, come ben sappiamo dalle frizioni che ci sono: per esempio negli istituti misti, nella concezione della laicità, nella identità degli stessi istituti secolari e delle società di vita apostolica. Fibrillazione a cui si affiancano i nuovi gruppi, che non rientrano facilmente nelle categorie standardizzate.
Per quanto riguarda i voti (pc 12-14), l’ordine tradizionale dava priorità ora alla povertà, ora all’obbedienza. lumen gentium innova mettendo in fila castità, povertà, obbedienza. Altra novità, accanto a motivazioni e suggestioni teologali e cristocentriche, è il cenno ai percorsi terapeutici ed umanizzanti in questo stile di vita. E questo scompagina tutta una letteratura “ascetica” e “mortificatoria” precedente. Sarà una interpretazione che continuerà a sviluppare nuove applicazioni e implicazioni. Fino alle affermazioni di vita consecrata, che in una prospettiva di “profondo significato antropologico” afferma: “la scelta di questi consigli lungi dal costituire un impoverimento di valori autenticamente umani, si propone piuttosto come una loro trasfigurazione… una ‘terapia spirituale’ per l’umanità” (vc 87). L’esortazione infatti sviluppa la presentazione dei tre voti e della vita fraterna come una proposta alternativa e provocatoria, “autenticamente liberante”: è un modello contro culturale di fronte alla cultura dell’edonismo esasperato, del possesso avido, dell’autonomia assolutizzata e dell’individualismo senza condivisione (vc 88-92).
3.1.6. Le indicazioni pratiche e disciplinari. Una decina di numeri trattano successivamente: l’abolizione delle classi, la clausura delle monache, la formazione, la fondazione di nuovi istituti, le opere apostoliche, gli istituti in decadenza o in estinzione, le conferenze dei superiori e infine le vocazioni. Sono tutti ambiti sui quali negli anni successivi gli interventi della curia si sono fatti chiari e dettagliati con direttive specifiche, ma anche con orientamenti via via più appropriati e adatti alla evoluzione delle esperienze e la sfida delle emergenze.

4. Risultati e percorsi aperti
Al concilio era arrivata una lunga e autorevole tradizione che considerava la vita religiosa nella prospettiva di “stato di perfezione”, con un alone di oggettiva superiorità rispetto al matrimonio e rispetto alla vita “secondo i precetti”. Mentre dentro il concilio premeva una nuova mentalità che, oltre a rifiutare la concezione di stato di perfezione, insisteva nel negare qualsiasi sostanziale differenza tra i cristiani. Quello che per secoli era stato monopolio dei religiosi, doveva invece considerarsi elemento impegnativo per tutti: sequela, consigli, primato del regno, radicalismo, beatitudini, ecc.
4.1. Una acquisizione che all’inizio dell’applicazione del concilio aveva molto influsso, poi affievolita, è stato il paradigma di stile del concilio: non una discussione fra esperti di grandi teorie, una battaglia per ribadire eterni principi, ma un metodo dialogico, a partire dai segni dei tempi, per elaborare risposte e interpretazioni non aprioristiche. È una lezione che si sta rivalutando oggi, anche se abbiamo perso l’abilità e il coraggio dei padri conciliari.
4.2. Una delle acquisizioni più evidenti è stata la consacrazione: senza usare esplicitamente il titolo ufficiale di vita consacrata nei suoi testi, il concilio ha però messo le premesse - non senza delle insufficienze e con evidenti tracce di mentalità perfezionista ed elitaria – perché diventasse il titolo ufficiale. Restano ancora ambiguità nel concetto di consacrazione, anche perché questa espressione non apparteneva prima alla vita religiosa in generale (ma solo ad alcune situazioni personali). Averla applicata come ombrello per tutti non elimina la necessità di continuare a raffinare il suo senso e anche le implicanze del suo uso. Facilmente si scivola nella sfera della “sacralizzazione”: il che non è il senso corretto né biblicamente né teologicamente. E anche la sottolineatura (della commissione, ripresa volentieri da alcuni teologi) di consacrazione a deo, non è più ripetuta in tutti i documenti conciliari posteriori. Segno di qualche perplessità. Ci sono tanti “frammenti” nella dottrina conciliare che nella recezione hanno conosciuto uno sviluppo e anche una giustificazione teologica allora non pensabile.
4.3. Un’altra acquisizione certa è il recupero del cristocentrismo in termini biblici più appropriati: con lo sviluppo ormai maturo della prospettiva della sequela cristi, e con recupero degli sviluppi teologici del tema particolarmente originali negli ultimi decennio. Il filtro interpretativo e selettivo della cristologia dei fondatori è stato rotto a vantaggio di una genuina cristologia biblica ed esistenziale. Questo processo faciliterebbe oggi anche l’inserimento nel cantiere della nuova evangelizzazione.
4.4. In connessione con il cristocentrismo bisogna ricordare anche il ritorno del primato della parola di dio come sorgente primaria della vita spirituale: non si tratta solo della bella fioritura della lectio divina o lettura orante (nella varietà dei metodi e degli stili), ma anche di una presenza pervasiva in tutti gli elementi tipici e di valore della vita religiosa. La bibbia non è più una cava di pietre per costruire propri tempietti devoti, ma sta diventando matrice di scelte carismatiche e criterio di discernimento nelle situazioni complesse. In questo personaggi come il card. martini o figure monastiche come e. bianchi o b. calati hanno insegnato molto con le loro pubblicazioni e meditazioni.
Tuttavia una vera recezione del concilio nella vita consacrata non si può limitare ai testi espliciti del concilio. I grandi principi ispirativi e orientativi che di fatto sono stati capaci di trasformare la vita cristiana in maniera veramente nuova, valgono anche per la vita consacrata. Non solo il ritorno della centralità della parola di dio e della liturgia, m anche la lettura aperta dei segni dei tempi, lo stile dialogante con il mondo, la corresponsabilità ecclesiale di tutti, l’opzione preferenziale per i poveri, il nuovo sentire sociale ecc. L’elenco delle novità sarebbe infinito. Si tratta di sviluppi nati dall’interno della prospettiva conciliare, ma che hanno allargato gli orizzonti della vita consacrata e i suoi temi in maniera prima imprevista. È il caso del carisma, della profezia, della rifondazione, della fraternità, dell’inculturazione, della corresponsabilità, dei legami fra gli istituti, della ricerca teologica, della partecipazione dei laici ecc. E la comune radice battesimale non ha forse prodotto esperienze di nuovi modelli di famiglia ecclesiale? La novità dello Spirito non è esaurita e il compito dei religiosi e delle religiose tutt’altro che compiuto.

(Secondin Bruno ocarm, su Testimoni 1 del 2013)