FILIPPINE_-_clarettiani_300_x_181Dicembre 2012

Lettera di p. J. Maria Abella ai clarettiani

Missionari ardenti di carità

Pur nella gioia di essere missionari «nascono dentro di noi molte domande che ci obbligano a ripensare il modo di esprimere oggi questa missione. Come viverla in un mondo cambiato?»

Come vivere oggi la vocazione missionaria, in un mondo ormai cambiato, come essere “uomini che ardono di carità” e accesi dal fuoco dello spirito?
Sono interrogativi attorno a cui hanno riflettuto a lungo i padri clarettiani nella loro ultima fase pre-capitolare e durante la celebrazione stessa dell’ultimo capitolo generale.
Il superiore generale, p. abella, ha elaborato su queste domande una lunga e stimolante riflessione sotto forma di lettera a tutto l’istituto partendo dall’esperienza del fondatore, da ciò che ha motivato la sua vocazione missionaria, dagli orientamenti del magistero e dal concilio, tenendo presente che i tempi sono cambiati e chiedono oggi nuove risposte. La risposta, scrive p. Abella, oltre che dai riferimenti indicati, viene anche da altre importanti indicazioni. Anzitutto osservando la realtà, ossia la situazione delle persone dei popoli o luoghi nei vari continenti. In secondo luogo dai contributi della riflessione teologica e pastorale, perché, osserva il padre, «non possiamo vivere ancorati a schemi che erano validi in altri tempi, ma che difficilmente possono oggi stimolare la creatività missionaria». Inoltre dalla testimonianza di persone, cristiane o no, che trasmettono speranza, poiché «per mezzo di esse agisce e ci parla lo spirito del padre», ad esempio, da persone come mons. oscar romero, fr. roger di taizé, madre teresa di calcutta, edith stein, per citare alcuni nomi conosciuti. Ma, sottolinea p. abella, penso anche a persone come mahatma gandhi, martin luther king, julius nyerere, nelson Mandela e a molte altre che «sono punti di riferimento importanti quando ci mettiamo a pensare cosa significhi oggi annunciare il vangelo e costruire il regno. Allargano il nostro orizzonte e mettono frequentemente in discussione la ristrettezza della nostra prospettiva». Infine, la risposta viene anche dal discernimento della comunità poiché «il signore ci parla anche per mezzo del discernimento della comunità» e «le diverse sensibilità che si trovano nella comunità, sempre più interculturale, ci aiutano ad analizzare meglio le situazioni e il modo in cui possiamo affrontarle».

Molte le domande anche dentro di noi
Pur nella gioia di essere missionari, scrive il padre, «nascono dentro di noi molte domande che ci obbligano a ripensare costantemente il modo di esprimere oggi questa missione che costituisce il nucleo fondamentale della nostra vocazione».
La prima deriva dalla coscienza di vivere in un mondo dove l’esclusione è sempre più presente, per cui ci si chiede: «come essere segni credibili dell’amore di dio tra i poveri e gli esclusi di questo mondo globalizzato? Ci pesa, a volte, la sicurezza di cui godiamo e constatiamo come essa indebolisca l’attendibilità del nostro annuncio missionario. Scopriamo in alcuni settori della chiesa stessa complicità che ci allontanano da coloro che subiscono gli effetti delle situazioni di esclusione e di ingiustizia. Ci chiediamo a che cosa serva il lavoro missionario se non è capace di avvicinare il mondo al progetto di dio per tutti i suoi figli e le sue figlie».
La seconda viene dalla rivoluzione nel sistema delle comunicazioni sul piano mondiale. Pertanto, «che cosa significa annunciare la parola di dio a persone che hanno vissuto una relazione profonda con dio per mezzo di altre mediazioni? Che cosa offre o deve offrire l’annuncio del vangelo a popoli che hanno costruito la loro cultura e la loro storia su tradizioni religiose diverse dalla nostra? Gesù Cristo è “dono del padre” anche per queste persone e questi popoli? Che tipo di presenza e che dinamismo di missione ci stanno chiedendo queste situazioni?
La terza riguarda i processi di secolarizzazione che stanno forgiando una cultura estranea all’universo della fede e, di conseguenza, al messaggio che annuncia la chiesa. Purtroppo, sottolinea p. abella, molti di noi vivono in questi ambienti culturali e subiscono il loro influsso. Di qui la domanda: «Sentiamo l’urgenza di annunciare il vangelo? Siamo convinti che ciò è necessario, che queste persone hanno bisogno che sia loro offerta l’opportunità di un incontro con gesù? Siamo disposti ad assumerci le conseguenze di una “nuova evangelizzazione” che vada oltre il recupero degli spazi persi dalla chiesa e sia profondamente trasformatrice? Sappiamo evangelizzare essendo “amici” di chi non condivide la nostra visione dell’uomo e del mondo e, al tempo stesso, mantenendoci fedeli alla missione che ci è stata affidata?».
«D’altra parte, ci troviamo davanti al progresso della scienza che mette in discussione molte certezze ed esige di ripensare molte cose che abbiamo affermato o il modo in cui le abbiamo presentate. Non possiamo negare che nascono in noi domande davanti alle quali ci sentiamo un po’ impreparati o, almeno, disorientati. Alcuni cadono anche nella tentazione di ignorarle. Ma sono questioni che stanno trovando spazio nella coscienza della gente, che continua a cercare, senza dubbio, un orizzonte che le aiuti a scoprire la vera dignità della persona che vada oltre le conclusioni a cui possono giungere le scoperte scientifiche più recenti. È una sfida formidabile per l’evangelizzazione e un’opportunità per purificare molti elementi del messaggio, a lungo ripetuti, ma che ormai non entrano più né nella mente né nel cuore delle nuove generazioni. Come affrontiamo questi interrogativi?».
Altri interrogativi sorgono dal lavoro strettamente pastorale di servizio alla comunità cristiana. Occorre domandarci: «che cosa ci sta muovendo veramente nel nostro lavoro pastorale? Siamo, a volte, molto preoccupati per il mantenimento delle strutture ecclesiali, per i numeri, per la valutazione che ci viene data da altre istanze della società?... Ci interroghiamo circa la capacità evangelizzatrice di alcune delle nostre strutture pastorali: centri di insegnamento, progetti di promozione umana, attenzione a gruppi di emarginati, le diverse iniziative nel mondo dei mezzi di comunicazione sociale e le nuove tecnologie della comunicazione, i centri superiori di studio ecclesiastico, ecc. Arriviamo a coloro che hanno più bisogno di noi? Queste strutture fanno trasparire i valori del vangelo? Aiutano coloro che ne usufruiscono ad essere persone che trasformano il mondo per avvicinarlo di più al progetto di dio, nostro padre?».
Ma al di sopra di tutto, rileva p. abella, «rimane sempre la domanda su quello che costituisce il nucleo fondamentale dell’evangelizzazione: essere strumenti dell’incontro delle persone con gesù cristo... Domandiamoci perché, dopo aver dedicato tanti sforzi all’educazione della fede, si verifica molto spesso l’allontanamento dalla comunità cristiana di molte persone. Sembra che, a volte, non trasmettiamo più quell’entusiasmo che contagia gli altri o non lasciamo trasparire quella profonda pace dello spirito che invita altri a intraprendere il cammino. Com’è la nostra catechesi? Quale esperienza di dio trasmette la nostra vita?».

Nuovi orizzonti della missione
Di fronte al cambiamento epocale che riguarda valori, relazioni, istituzioni e sistemi è importante, prosegue p. abella, cercare di identificare le questioni più radicali che questo comporta per ciascuno di noi, per le nostre comunità e la loro missione. Il primo passo da compiere è di guardare al mondo che ci circonda e cercare di identificare alcune manifestazioni più importanti di questo cambiamento. Ci sono dei nomi ben precisi che sono gli stessi indicati anche dal recente sinodo sulla nuova evangelizzazione. Si chiamano globalizzazione, pluralismo culturale e religioso, secolarismo, e la lacerazione dell’armonia fenomeno tipico della cultura cosiddetta post-moderna, con riflessi nell’ambito personale, comunitario, ecclesiale e sociale, e con diverse matrici secondo i luoghi. Sembra che le certezze che costituiscono il centro integratore della vita di una persona o che davano un forte senso di identità a quanti facevano parte di un gruppo o di una comunità, non resistano alle scosse delle nuove correnti culturali: «Non ci preoccupano le differenze. Al contrario, sono un’espressione di bellezza perché rivelano l’armonia che Dio ci ha consegnato con la creazione. Ci lacera, però, il cuore vedere quest’armonia spezzata dall’egoismo e dall’avidità di quanti si sentono padroni di quello che dio ci ha dato da condividere».

Ricerca di strade per il futuro
Dall’osservazione di questi fenomeni nasce lo stimolo a ricercare le strade per il futuro. Anzitutto, scrive p. abella, bisogna avere la consapevolezza che il primo nostro contributo alla missione consiste nell’approfondimento della dimensione teologale della nostra vita. È l’esperienza di dio che ci avvicina al nucleo centrale della persona, ci obbliga ad ascoltare le sue grida e a sentirci solidali con le sue ricerche; ci rende discreti nell’accompagnamento e ci aiuta a valorizzare la ricchezza delle risposte che le persone scoprono lungo il cammino; ci obbliga ad avvicinarci ai poveri e agli emarginati, ci invita ad essere loro compagni di viaggio e desta in noi una nuova coscienza ecologica e cosmica che ci fa sentire solidali con tutta la creazione.
Un’altra strada di ricerca è il dialogo
come luogo proprio della missione, che induce a rimanere aperti alle sorprese del cammino e richiede creatività; è un dialogo che susciterà nuove domande e chiederà di cercare continuamente nuove strade.
Una terza strada è l’opzione per i poveri e gli emarginati e per la giustizia, entro cui appare anche la sfida dell’impegno socio-politico. Si tratta di vivere «uno stile di vita e di azione apostolica che tocchi le radici stesse delle dominazioni e delle oppressioni e cerchi di creare le condizioni che permettano la nascita e il consolidamento di un mondo veramente inclusivo, dove nessuno sia emarginato dalla fraternità umana. Qui si gioca, in parte, la credibilità dell’annuncio del vangelo».
A questo scopo, bisogna, sottolinea il p. abella, «ripensare l’ubicazione delle nostre opere ossia, “dove stare” e “come stare dove dobbiamo essere presenti». È certamente «un esercizio difficile di discernimento». Inoltre è necessario «progredire sulla strada della collaborazione intercongregazionale e nella missione condivisa», poiché «il nostro è un tempo di sinergie» e «i processi di globalizzazione stanno imponendo questo parametro nei diversi ambiti della vita e dell’attività umana».

Le risposte come clarettiani
A questo punto, p. Abella, descrive gli aspetti della missione dell’istituto clarettiano. Ne sottolinea due in particolare: il primo è la necessità di assumere generosamente la vocazione della vita consacrata a collocarsi alle frontiere della missione; il secondo, la necessità di vivere la dimensione profetica inerente alla vita consacrata (cf. vc 84).
Tra le caratteristiche della missione clarettiana è segnalata una missione condivisa, e sul piano globale la condivisione «in una dinamica di collaborazione con tutte quelle persone che, motivate da tradizioni religiose diverse o spinte da altre filosofie umaniste, lavorano per un mondo più giusto e solidale e per un modo di vivere che rispetti l’armonia della creazione». Collaborazione, inoltre nell’ambito ecclesiale e, in terzo luogo, con tutta la famiglia carismatica della congregazione.
La missione condivisa dovrà essere vissuta secondo tre modelli: il primo quello che integra in una stessa comunità religiosa religiosi e laici; il secondo, quello della partecipazione corresponsabile alla stessa attività o processo apostolico; il terzo, quello della collaborazione pastorale in un progetto o in un’attività determinata, ma senza un vincolo esplicito con la famiglia carismatica.
Oltre che condivisa, dovrà essere una missione in dialogo con la relativa capacità di ascolto, di discernimento e di creatività, tenendo davanti allo sguardo il tema dell’inculturazione. Dovrà essere infine una missione solidale e vissuta in chiave vocazionale.
Dopo aver richiamato le priorità dell’istituto per i prossimi anni, p. abella ricorda che il dinamismo della vita missionaria dipenderà in gran parte da quello della vita missionaria di ciascuno, poiché «senza una spiritualità profonda, il nostro lavoro apostolico non sarà capace di comunicare il vangelo». in altre parole, come scrive vita consecrata, bisogna “ravvivare il fuoco interiore” quale condizione “sine qua non” della missione. «“Passione per cristo, passione per l’umanità”, conclude p. abella: nel modo di vivere questo binomio trova senso la nostra vita e diventa portatrice di vita attraverso il nostro impegno apostolico».

(a.d., su Testimoni 20 del 2012)