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mani_aperteNovembre 2012

La vita consacrata e la nuova evangelizzazione

E noi cosa possiamo fare?

Come la Chiesa, anche gli istituti e gli ordini religiosi si trovano ad affrontare situazioni del tutto nuove che richiedono risposte che non possono essere più quelle di un tempo. Proprio per questo, l’interrogativo circa il nostro contributo diventa decisivo.

La Chiesa è tutta impegnata in questo tempo a riflettere sul tema della nuova evangelizzazione. È l’argomento a cui è dedicato direttamente il Sinodo, ma che rientra nel contesto più ampio dell’Anno della fede e della stessa Giornata mondiale missionaria che quest’anno ha per tema Chiamati a far risplendere la Parola di verità. Anche la vita consacrata si sente vivamente coinvolta in questa riflessione. L’interrogativo che maggiormente la interpella è: che cosa possono fare i consacrati per rispondere a questa missione evangelizzatrice della Chiesa, nell’attuale momento storico?
Se lo stanno chiedendo in tanti. Tra le varie risposte ci pare particolarmente interessante quella del p. Giampaolo Salvini SJ, pubblicata nella Civiltà Cattolica nel numero del 15 settembre scorso, a cui qui facciamo riferimento.
Oggi, afferma il padre, si parla di “nuova” evangelizzazione, non solo perché nuovo deve essere l’ardore e lo slancio che la sostengono, ma soprattutto perché è mutato il contesto storico in cui agire. È cambiato anche per gli istituti e gli ordini religiosi che in passato hanno scritto pagine gloriose nel campo dell’evangelizzazione, ma che oggi si trovano ad affrontare situazioni del tutto nuove che richiedono risposte che non possono essere più quelle di un tempo. Proprio per questo, l’interrogativo diventa ancora più pressante.

Il panorama dei cambiamenti
«In primo luogo – scrive Salvini –, sotto certi aspetti è ampiamente cambiata la società nella quale viviamo, tanto che qualcuno ritiene che per la Chiesa siano tornati i tempi apostolici, o meglio, uno di quei momenti storici particolari (come quello della Chiesa nascente) nei quali Dio purifica la sua Chiesa ponendola di fronte a sfide che richiamano quelle che essa dovette affrontare per portare il Vangelo al mondo pagano».
Uno dei tratti più caratteristici di questo cambiamento, come afferma va già Paolo VI nella Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi dell’8 dicembre 1975, è che oggi ci troviamo di fronte a un mondo profondamente secolarizzato, dove il legame tra fede e cultura si è spezzato. Osserva p. Salvini: «Il nostro è un mondo, almeno quello occidentale, nel quale cresce l'indifferenza religiosa, più ancora che l’ateismo. O, se vogliamo, la ragione si è trasformata in una divinità, che intende fare a meno di Dio. I nostri contemporanei hanno davanti agli occhi soltanto l’orizzonte terreno, e la religione è considerata come una questione del tutto personale, senza rilevanza pubblica. La politica e l’economia rifiutano il rapporto con l’etica, specialmente quella illuminata dalla fede cristiana». Ma priva di Dio, la nostra società «ha dimostrato di essere una società ferita nella quale la violenza, il denaro, le deviazioni morali e il potere vengono esaltati, e si realizza qualunque invenzione, se tecnicamente possibile ed economicamente redditizia, senza chiedersi prima se sia anche moralmente accettabile». Ma, «negando Dio, si cade, come Benedetto XVI più volte ha denunciato, nel relativismo etico, con profonde contraddizioni. La nostra infatti è un'epoca in cui, in nome della libertà individuale, si permette tutto, ma non si perdona nulla».

I cristiani come minoranza
Un secondo importante fenomeno che caratterizza i cambiamenti in atto è che i cristiani sono ormai anche in Europa una minoranza numerica, e lo sono soprattutto nei grandi paesi dell’Asia, ad eccezione delle Filippine. «È vero – rileva Salvini – che l'appartenenza alla Chiesa si può misurare in vari modi e i numeri non danno mai un'idea vera della realtà della Chiesa, che è una realtà anzitutto spirituale, ma essi possono aiutare a capire gli andamenti dal punto di vista sociologico. In ogni caso nel mondo occidentale certamente è diminuita la pratica cristiana. La maggioranza dei cristiani vive in diaspora, nelle città. La fede vissuta e manifestata è sempre più cosa di élite, riservata a gruppi scelti di fedeli, spesso riuniti nei movimenti, nelle associazioni o in gruppi a forte religiosità e identità, se non altro come difesa dal mondo circostante».
Si tratta di un mondo che pur non essendo in genere contro la Chiesa, tuttavia la ignora, o meglio ignora Dio e il suo messaggio. In altre parole, «edifica la propria città lasciando Dio fuori dalle mura o, se lo accetta, è per metterlo sul banco degli accusati, perché consente il dolore innocente, le catastrofi naturali, i campi di sterminio ecc., senza intervenire». Il fenomeno è ben visibile anche qui da noi. Infatti, «nelle città, anche italiane, il numero dei praticanti non supera spesso il 15 %, anche se l’85% si definisce ancora cristiano, ma la maggioranza frequenta la chiesa soltanto nelle grandi occasioni (Pasqua e Natale) o per i matrimoni, i battesimi e i funerali».
Tuttavia, osserva il padre, «essere minoranza non significa essere emarginati, tutt' altro! Abbiamo cattolici presenti dappertutto, pure nelle istituzioni che contano, anche se non sempre vi appaiono come cattolici organizzati, e ci si può legittimamente chiedere se questo tipo di presenza, vissuto autenticamente, non corrisponda appunto a essere come il sale o il lievito».
Inoltre «è indubbio che nella Chiesa cattolica, con il concilio Vaticano II, si è messo in moto un rinnovamento profondo, una capacità di riscoprire le proprie origini e la propria identità autentica, di cui le prime due encicliche di Benedetto XVI sono un simbolo eloquente. È nato un interesse profondo per la parola di Dio, per la promozione del laicato, per l'ecumenismo, per gli spazi di silenzio, per il servizio evangelico, specialmente verso i più poveri e gli emarginati, per aiutare la gente a riscoprire il senso della vita e le dimensioni più autentiche della nostra umanità.
I movimenti, che sono stati un'autentica novità nella Chiesa degli ultimi 50 anni del secolo scorso, nonostante le loro intemperanze e la frequente difficoltà riscontrata per inserirli nella pastorale ordinaria delle diocesi, hanno mostrato la vitalità della Chiesa e la varietà dei carismi che lo Spirito suscita anche ai nostri giorni. In ogni caso la Chiesa ha mostrato una eccezionale capacità di reagire di fronte alle emergenze che si presentano, sia nelle tragedie mondiali, sia di fronte alle migrazioni, sia sotto forma di nuove povertà. E lo ha fatto con motivazioni profondamente evangeliche. Come più volte è stato notato, però, i cristiani sono forse più presenti nelle patologie della società, cioè nelle emergenze, come le nuove povertà, immigrazioni, barboni ecc., che nella sua fisiologia, cioè nella vita normale e quotidiana, nel tessuto della società».
Un altro aspetto importante che illumina la vita della Chiesa oggi è che siamo tornati all’epoca dei martiri. In effetti, nessuna religione è oggi tanto perseguitata quanto il cristianesimo. Se le sofferenze di tanti nostri fratelli ci rattristano, è anche vero che i martiri sono un segno che la Chiesa è ancor quella di Gesù, il quale ha annunciato persecuzioni per i suoi fedeli, in ogni epoca.

Cosa possono fare i consacrati?
È in questo contesto che si inserisce l’impegno della Chiesa per la nuova evangelizzazione. E al suo interno ci chiediamo: «cosa possono fare i consacrati e le consacrate, qual è il loro compito?». Riferendosi in particolare a ciò che scrive l’esortazione apostolica di Giovanni Paolo II, Vita consecrata, p. Salvini osserva: «è necessaria innanzitutto una vita consacrata che si lasci continuamente interpellare dalla Parola rivelata e dai segni dei tempi». «Elementi importanti sono la fedeltà al carisma di fondazione, la comunione con quanti nella Chiesa sono impegnati nella stessa impresa, specialmente con i pastori, e la cooperazione con tutti gli uomini di buona volontà» (VC 81).
Il padre indica due vie da percorrere, che sono le stesse seguite dalla Chiesa. La prima è quella dell’inculturazione della fede, ossia, come scrive san Paolo “farsi tutto a tutti, per portare tutti a Cristo” (1Cor 9,19-23). Ciò significa, «condividere, portando la luce del Vangelo in tutte le situazioni e in tutte le culture (nei diversi areopaghi del nostro tempo), per assumere quanto di buono e di vero c'è in ciascuna di esse e trasformarle dall'interno, aprendole a Dio». In altri termini, come ebbe a rilevare p. Sorge, «si tratta di prolungare il cammino stesso dell'Incarnazione, di un Dio cioè che si è fatto come noi, per farci come lui, dall'interno della nostra povertà».

La seconda è quella del dialogo interculturale e interreligioso, per trovare un comune terreno di intesa e di linguaggio. È un impegno, osserva p. Salvini, che «non può essere più demandato a un corpo specializzato di missionari (che tra l'altro, come si è detto, erano quasi sempre religiosi o religiose), come quando si trattava di conquistare nuovi spazi geografici alla Chiesa, ma tutti i credenti, dice Giovanni Paolo II, devono impegnarsi in esso».
Oggi occorre «un rinnovato amore per l'impegno culturale, di dedizione allo studio come mezzo per la formazione integrale e come percorso ascetico, straordinariamente attuale, di fronte alla diversità delle culture» (VC 98). I religiosi e le religiose possono farlo preparandosi accuratamente per «contribuire alla promozione della cultura e al dialogo fra cultura e fede» (ivi)». Inoltre, «i consacrati, vivendo in un'epoca permeata dalla presenza dei moderni mezzi di comunicazione sociale, sono tenuti ad acquisire una seria conoscenza del linguaggio proprio di tali mezzi, per parlare in modo efficace di Cristo all'uomo d'oggi» (n. 99). In questo campo la vita consacrata ha un contributo insostituibile da offrire.

Il vero contributo nell’indole profetica
Al di là tuttavia di quelli che sono i mezzi e le iniziative da intraprendere nei campi indicati, «il vero contributo sostanziale dei consacrati alla nuova evangelizzazione sta soprattutto nell'indole profetica della testimonianza delle beatitudini; esso viene dalla santità della vita e dalla radicalità del dono di carità. Due elementi senza i quali la Chiesa non sarebbe completa». In concreto, «questo significa che la vita consacrata non è soltanto denuncia degli idoli adorati dai nostri contemporanei (potere, piacere, denaro), ma può dimostrare visibilmente a tutti che è possibile attuare un modello di vita diverso, degno della grandezza trascendente dell'uomo e in grado di rendere liberi e felici.
Un segno altamente visibile rimane la cura particolare che i consacrati hanno sempre dedicato ai poveri, scegliendo la povertà anche per sé. Questo tanto più per il fatto che «il nostro mondo (ma in realtà anche quello dei secoli passati, che pure non disponeva dei mezzi attuali) è dominato da una concezione efficientistica e molto egoistica della vita, che abbandona il povero e il debole al loro destino e dimentica il senso della gratuità dell' essere sull'avere».
Padre Salvini conclude: «È questa radicalità del dono (spesso incomprensibile anche ai nostri contemporanei), con la fedeltà al Vangelo, alla Chiesa e all'umanità del nostro tempo, che costituisce il contributo insostituibile della vita consacrata alla nuova evangelizzazione. Inutile dire che quello che conta non è tanto ciò che noi religiosi diciamo, quanto ciò che noi siamo, ciò che noi viviamo, cioè la nostra testimonianza. Mai come oggi sono vere le celebri parole di Paolo VI nell’Evangelii nuntiandi: il nostro mondo ha più bisogno di testimoni che di maestri, ed è disposto a credere ai maestri solo se sono anche testimoni». Come resta vero che «oggi più che mai c’è bisogno di santi».

(A.D., su Testimoni 18 del 2012)