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18847-le-esequie-del-cardinale-martini-si-svolgeranno-oggi-alle-or11 ottobre 2012

In memoria del card. Carlo Maria Martini

Tra profezia e riforma

L’arcivescovo emerito di Milano, Carlo Maria Martini, è morto il 31 agosto a 85 anni. Le sue esequie sono state una manifestazione imponente di fede e di affetto.

Cosa dice l’esistenza e l’opera del Card. Carlo Maria Martini alla vita religiosa italiana (e non solo)? Quanto ha contato per lui l’essere gesuita? Nella sua pastorale e nel suo magistero è possibile trovare le tracce della sua scelta di consacrazione?
Va detto anzitutto che il suo morire (31 agosto) e le sue esequie (3 settembre) sono state un evento di Chiesa. Difficile pensare a qualcosa di più ecclesiale e più cristiano. 200.000 alla camera ardente in Duomo, 20.000 ai funerali, 12 cardinali, 38 vescovi, 1200 preti alle esequie. La Chiesa ambrosiana ha portato il suo pastore fino alla tomba (sotto il crocifisso di San Carlo, nella navata di sinistra della cattedrale), i suoi gesuiti l’hanno accudito fino all’ultimo, la sua famiglia (la sorella Maris e i nipoti Giulia e Giovanni) l’ha sostenuto nell’agonia. Per Benedetto XVI: «È stato un uomo di Dio, che non solo ha studiato la sacra scrittura, ma l’ha amata intensamente, ne ha fatto la luce della sua vita, perché tutto fosse “ad maiorem Dei gloriam”, per la maggior gloria di Dio. E proprio per questo è stato capace di insegnare ai credenti e a coloro che sono alla ricerca della verità che l’unica Parola degna di essere ascoltata, accolta e seguita è quella di Dio, perché indica a tutti il cammino della verità e dell’amore. Lo è stato con una grande apertura d’animo, non rifiutando mai l’incontro e il dialogo con tutti… Lo è stato con uno spirito di carità pastorale profonda… instancabile servitore del Vangelo e della Chiesa». Nell’omelia, il card. Angelo Scola, suo successore nella cattedra di sant’Ambrogio, ha ricordato il motto episcopale del defunto, pro veritate adversa diligere (per amore della verità abbracciare le avversità): «In questa scelta brilla lo spirito ignaziano del cardinale Martini: la tensione al discernimento e alla purificazione, come condizioni ascetiche per fare spazio a Dio e per imparare quel distacco che solo garantisce l’autentico possesso, cioè il vero bene delle persone e delle cose».

La libertà dello Spirito
Il suo preposito generale, p. Adolfo Nicolas, ha aggiunto: «Credo che Carlo Maria Martini sia stato un figlio di Sant’Ignazio fino alla fine. E un principio centrale della spiritualità ignaziana è proprio la libertà che viene quando si sente lo Spirito: quando uno ha accesso allo Spirito di Dio che non è definibile e, dice Gesù, viene come il vento, soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va». «Se si arriva a questa libertà allora la visione del mondo è totalmente diversa. C’è un principio di sant’Ignazio molto chiaro: trovare Dio in tutte le cose. Il cardinale Martini aveva un approccio così positivo verso la realtà perché aveva quello sguardo, la visione nella quale Dio lavora in tutto: e ha trovato Dio in tutte le cose, in tutte le persone» (Corriere della sera, 4 settembre). Padre Carlo Casalone, attuale provinciale dei gesuiti, indica alcuni elementi centrali della spiritualità di Ignazio nella vita e nell’opera del cardinale: «È passato (in lui) soprattutto quel modo di intendere l’esperienza spirituale e riproporla che è proprio degli Esercizi di sant’Ignazio». «È una proposta che la Compagnia di Gesù ha sempre fatto per favorire l’incontro personale con il Signore nell’ascolto della Parola». E sulle caratteristiche ignaziane del suo ministero, aggiunge: «Metterei in luce due punti a questo proposito: uno, la valorizzazione di tutti gli aspetti di bene che sono presenti in tutte le situazioni, anche quelle segnate da momenti di contraddizione e di conflitto. Mi viene in mente, per esempio, che proprio nella fase storica in cui la televisione non godeva di buona fama e si parlava della televisione come cattiva maestra, il p. Martini nella sua lettera pastorale Il lembo del mantello instaura un dialogo con sorella televisione attraverso cui discerne gli aspetti positivi e meno positivi di questo strumento, nel tentativo di valorizzare tutto quello che di bene può essere mediato attraverso la televisione. Il secondo punto è che l’esperienza spirituale non è una situazione astratta e generica, ma è un momento di incontro personale con il Signore che ha una sua parola specifica per ciascuno, è una parola che può essere ascoltata, riconosciuta e messa in opera attraverso il discernimento».
I temi dello Spirito e della libertà, del discernimento e del dono di Dio presente ovunque, non hanno trovato grande rilievo nell’enorme flusso mediale, per molti aspetti positivo e ammirato, che si è prodotto attorno alla sua figura (oltre 300 articoli a stampa, senza contare le trasmissioni radio-televisive e le comunicazioni Internet).

Mistica ignaziana
Un esempio di fraintendimento negativo è possibile riconoscerlo nell’uso manipolatorio della «indifferenza ignaziana» e della «casuistica morale» (più che di Ignazio, della scuola gesuitica successiva). All’«ateo devoto» Giuliano Ferrara pare che l’indifferenza gesuitica, «concetto teologico vertiginoso», si possa e si debba avvicinare e sovrapporre all’attuale relativismo e indifferenza religiosa. «Questa indifferenza è relativismo cristiano, non prevede quel nesso di ragione e fede, quel complesso razionale di testimonianza etica e politica della realtà mondana (le cose create), cioè il nucleo dell’insegnamento papale nella tempestosa storia ecclesiastica seguita al Vaticano II» (Il Foglio, 1 settembre). Gli ha risposto mons. Bruno Forte: «C’è chi ha voluto attribuire un relativismo morale a Martini, con una interpretazione distorta dell’“indifferenza” di sant’Ignazio di Loyola: che invece è l’esatto opposto del relativismo perché l’indifferenza ignaziana significa proprio essere indifferenti ai nostri gusti per essere obbedienti alla volontà di Dio!» (Corriere della sera, 2 settembre). E il laico Salvatore Natoli: «Nella tradizione mistica il distacco è superiore perfino all’umiltà… consegnarsi nelle mani di Dio mette nella condizione di fare quello che si deve fare fino a quando non arriva il momento della scelta. Davanti alla quale, coerentemente, non ci si sottrae» (Avvenire, 2 settembre). Risponde piccato Ferrara: «È sgradevole e offensivo che un vescovo cattolico come Bruno Forte, titolare a Chieti e Vasto, si comporti in modo intollerante con chi dissente da lui e dai più» (Il Foglio, 4 settembre). «Mi pare che la differenza stia altrove – annota con non minore approssimazione Adriano Sofri – e abbia a che fare con una cosa decisiva per tutti, e per i gesuiti specialmente, come la casistica… Il dogmatismo che elogia l’assolutezza è disposto a passare sopra ai casi singolari, magari coi cingoli, come nella scelta di Piergiorgio Welby e nel rifiuto al suo funerale. Martini vi si sottraeva, in quello come in tanti altri casi, che esemplificavano in carne e ossa le questioni dichiarate graziosamente “eticamente sensibili” » (Repubblica, 2 settembre).

Segno escatologico
Al pressapochismo di molta intelligenza laica fa da contrasto la precisione con cui il card. Martini nei suoi scritti pastorali ha affrontato il deposito spirituale della vita consacrata e dei fondatori. Ricorda che la «consacrazione a Dio con cuore indiviso… non richiede un particolare segno sacramentale, perché è semplicemente un’espressione radicale dell’appartenenza battesimale ed eucaristica al Dio vivo» (Itinerari educativi 1987-‘90). Parola e preghiera vanno declinate assieme. La lectio divina «è attività raccomandata a ogni fedele, in particolare ai religiosi, alle religiose e ai gruppi di impegno cristiano, come preparazione e prolungamento della proclamazione della Parola nella liturgia» (In principio la Parola). «Le comunità religiose operanti nel territorio si prestino generosamente a offrire la loro esperienza, i luoghi, il tempo, le persone per favorire l’educazione alla preghiera» (La dimensione contemplativa della vita).
«Ritengo una vera grazia, da coltivare e promuovere, lo scambio di doni e di ricchezze spirituali che si può realizzare tra diverse vocazioni nella Chiesa, in particolare tra le varie forme di vita consacrata mediante la professione dei consigli evangelici e gli altri ministeri presbiterali, diaconali e laicali. Questo scambio si attua nel dialogo, nella collaborazione e nella preghiera comune» (Parlo al tuo cuore). «Gli impegni urgenti e difficili dei cristiani nel mondo d’oggi invocano la testimonianza luminosa dei valori del Regno. Intervengono qui le vocazioni di speciale consacrazione, sia nella classica forma religiosa, sia nella forma più recente degli istituti secolari e in forme affini » (Partenza da Emmaus). «Le vocazioni alla vita contemplativa siano implorate da Dio e siano accolte come un dono prezioso che alimenta la radice contemplativa della carità di tutta la Chiesa… Le vocazioni alla vita attiva di carità sappiano ritornare, oltre le eventuali incrostazioni, alla purezza originaria e creativa del carisma dei fondatori e delle fondatrici » (Farsi prossimo). «Lo stato di vita consacrata, per la sua stessa struttura esteriore di audacia, rinuncia alla famiglia, al possesso dei beni e a una carriera autonomamente costruita, è di per sé un segno escatologico, un segno di ciò che sarà la vita eterna: immersione nel dialogo di amore trinitario, contemplazione estatica del volto di Dio, godimento di una vita buona e felice con tutte le creature illuminate dalla presenza del Signore» (Sto alla porta).

Nella libertà dello Spirito
Conoscenza amante del deposito carismatico e libertà nello Spirito si esprimono in molte parole del cardinale. Anche nella sua ultima intervista: «La Chiesa è rimasta indietro di 200 anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio? Comunque la fede è il fondamento della Chiesa. La fede, la fiducia, il coraggio. Io sono vecchio e malato e dipendo dall’aiuto degli altri. Le persone buone intorno a me mi fanno sentire l’amore. Questo amore è più forte del sentimento di sfiducia che ogni tanto percepisco nei confronti della Chiesa in Europa. Solo l’amore vince la stanchezza. Dio è amore» (Corriere della sera, 1 settembre). Commenta il Card. Camillo Ruini: «A mio parere occorre distinguere due forme di distanza della Chiesa dal nostro tempo. Una è un vero ritardo, dovuto a limiti e peccati degli uomini di Chiesa, in particolare all’incapacità di vedere le opportunità che si aprono oggi per il Vangelo. L’altra distanza è molto diversa. È la distanza di Gesù Cristo e del suo Vangelo rispetto a qualsiasi tempo, compreso il nostro ma anche quello in cui visse Gesù. Questa distanza ci deve essere e ci chiama alla conversione non solo delle persone ma della cultura e della storia» (Corriere della sera, 5 settembre). Una risposta che sorvola su altre importanti dimensioni della vita cristiana Non vi è solo grazia e peccato, ma anche profezia, riforma e storia. Di questo parlava Martini. Memore, forse, di quanto lui stesso aveva detto a padre David Maria Turoldo conferendogli il premio Lazzati: «La Chiesa riconosce la profezia troppo tardi». E a quanto si augura mons. Luigi Bettazzi: «A volte i profeti da morti hanno più influenza che da vivi. Direbbe Martini: è il principio evangelico, quello del chicco di frumento che in terra se vive resta solo, se muore dà molto frutto» (Unità, 2 settembre).

(Lorenzo Prezzi, su Testimoni 16 del 2012)