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imagen-di-spagna-2-14523 settembre 2012

La spiritualità fa rinascere la vita consacrata.

Una nuova docilità allo Spirito

A volte si constata una certa atonia spirituale, una mancanza di mistica e di utopia evangelica. Questo ci obbliga a riconsiderare la nostra spiritualità e a metterla in primo piano, affinché quello che facciamo abbia significato e offra un orizzonte di speranza.

La spiritualità non è una componente in più della vita religiosa, ma l’espressione della sua ricerca, del suo ascolto, del suo sostegno, della sua ragion d’essere e del suo orizzonte di significato. Lo è di ogni forma di vita cristiana e, nel corso della storia, questa condizione si è manifestata con diversi accenti e diversi modi. Oggi, non solo i religiosi, ma tutte le vocazioni ecclesiali sottolineano fortemente la spiritualità. Anzi, l’uomo contemporaneo avverte un forte interesse per la spiritualità. Si sente il “rumore di angeli”. La spiritualità cristiana è passata in primo piano nella sua preoccupazione perché l’uomo, il cristiano, il religioso non si rassegnano a lasciarsi afferrare dalla ovvietà, dall’immediatezza e dalla routine e cercano di vivere nella radicalità e nella trascendenza; nella docilità allo Spirito e seguendo fedelmente Gesù, il Figlio del Padre.
C’è una storia del risveglio di una nuova coscienza della spiritualità nel secolo XX, soprattutto a partire dal concilio. Noi religiosi facciamo affidamento su tre grandi punti di riferimento per situarci nelle dimensioni della nostra spiritualità: l’esortazione Vita consecrata, l’Istruzione Ripartire da Cristo e il congresso mondiale di Roma (2004) Passione per Cristo, passione per l’umanità. Siamo in un momento favorevole per rispondere alla sfida della spiritualità. A partire dal concilio Vaticano II, santi, teologi e maestri di vita spirituale ci stanno proponendo una spiritualità più umana, biblica, trinitaria, cristocentrica, ecclesiale e di impegno sociale ed evangelizzatore.

Una spiritualità ancora manchevole
La vita della Chiesa – che sa di non essere nata per se stessa, ma per servire il Regno – si è sviluppata attorno alla parola di Dio, all’Eucaristia, alla riconciliazione e all’impegno per la trasformazione del mondo secondo il disegno di amore di Dio. Urs von Balthasar diceva che la spiritualità è il volto soggettivo della teologia.
Riconoscenti per i risultati raggiunti – per lo meno della comprensione – nel processo di rinnovamento postconciliare, dobbiamo riconoscere che la nostra spiritualità è manchevole. Ci sono religiosi che hanno l’impressione che la profezia di Ezechiele sia incompleta, incompiuta (Ez 37,1-14), come se ci mancasse un tocco dello Spirito per camminare con grazia, e stabilirci sul nostro suolo, nella nostra storia della salvezza. Non ci mancherà forse la capacità di ascoltare di più il grido dei poveri e i gemiti degli oppressi per comprendere che il volto di Dio continua a essere sfigurato?
Dietro a questa preoccupazione c’è il pensiero debole, che invita a educarsi al provvisorio, al limite, al frammento e all’imprevisto; vi è la boria dell’io e la cultura dell’apparenza; c’è l’incoerenza con la sua sproporzione tra valori scoperti e valori vissuti. La crisi più grande, forse, non è di finalità, ma di fondamento. Sappiamo sufficientemente bene dove dobbiamo andare, e possiamo contare su molti mezzi per raggiungere gli obiettivi proposti. Abbiamo dei buoni orientamenti nelle Costituzioni e nei documenti capitolari. Tuttavia, a volte si constata una certa atonia spirituale, una mancanza di mistica e di utopia evangelica. Questo ci obbliga a riconsiderare la nostra spiritualità e a metterla in primo piano, affinché quello che facciamo abbia significato e offra un orizzonte di speranza.
Dobbiamo chiederci con onestà: che cosa fa realmente avanzare la vita consacrata verso la sua pienezza? C’è molta fuga in avanti. Siamo presi dall’ansia. Quanti si mostrano inquieti davanti al futuro; per coloro che cercano il rischio, l’avventura, la sorpresa, non c’è altra alternativa che ritornare ripetutamente a insistere nel centrare la vita nella spiritualità che ci è propria. Diceva Emmanul Mounier: «Il nostro fine, il fine ultimo non sta nello sviluppare in noi e nel nostro ambiente il massimo di coscienza, il massimo di sincerità, ma nell’assumere al massimo la responsabilità e trasformare il massimo della realtà alla luce delle verità che abbiamo riconosciuto».

Spiritualità si scrive con la maiuscola
La nostra spiritualità si scrive con la maiuscola. È una vita secondo lo Spirito. “Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio” (Rm 8,16). Lo Spirito, Signore e datore di vita che sta al principio della creazione e nella sua consumazione (cf Gn 1,2; Ap 21 e 22), ci illumina, ci accompagna e ci rinnova. Ci rivela Gesù Cristo (Gv 14,26; 16,12-15; 1Cor 2,10) e ci fa esclamare “Abbà, Padre!” (Rm 8,15). È Maestro interiore e memoria attiva di Gesù: della sua Persona, della sua vita e della sua dottrina. È ricordo creativo e attualizza tutto il mistero della vita, morte e risurrezione di Gesù in noi. Quando si dà il primato allo Spirito, si esperimenta la gioia di frequentare il Mistero e si percepisce meglio la ragione fondante della nostra vita consacrata. Si produce uno spostamento dagli interessi dell’ “io” a quelli di Gesù, Figlio del Padre. Vengono messe in risalto la filiazione, la fraternità e la missione. Ci sentiamo più figli, più fratelli, più testimoni e apostoli della bontà e misericordia divine. Nasce una nuova motivazione, un nuovo impulso, la grande utopia, la vera ragione per cui vivere e lottare. Viene infranto il cerchio della mediocrità, che è la forza corrosiva della vita consacrata, si comincia a esperimentare la liberazione interiore e l’apertura al sorprendente e stupefacente passaggio di Dio nella nostra storia. Fiorisce la gratuità. Si ascolta con più attenzione la parola di Dio e nella preghiera si fa sentire l’amore con cui Dio ci ama. I poveri sono fratelli e amici e in essi contempliamo il volto di Cristo. L’Eucaristia diventa un centro di vita e di missione. L’accoglienza del diverso (sia di cultura, età, di mentalità), il radicalismo evangelico e gli impegni rischiosi si fondono tra loro nel cuore animato dalla carità. Si attribuisce meno importanza al transitorio e all’effimero e si superano con facilità l’immediatismo perché lo Spirito apre agli orizzonti dell’universalità e della pienezza.

Lo Spirito ci orienta all’ essenziale, al centro, alla radice. Ci dona la sapienza di saper distinguere  l’essenziale dall’accessorio. Rinvia a Gesù, Signore della storia e Redentore di tutti gli uomini. Il clamore dell’essenziale è un altro modo di dire che «è giunta l’ora della sequela» (Metz). Lo Spirito ci spinge costantemente a tornare in Galilea, dove tutto è cominciato: a tornare a Cesarea di Filippi, dove Pietro confessò che Gesù era il Cristo; e a ritornare ai piedi della croce per riconoscere che colui che vi moriva era il Figlio di Dio. Come diceva R.M. Rilke: «Dio aspetta dove stanno le radici».

Se siamo docili all’azione dello Spirito, il nostro tentativo di ricerca dell’essenziale pervaderà il nostro cuore e giungeremo a mettere ordine nella nostra vita, nelle nostre attività e nelle nostre opere. Altrimenti faremo dei rabberci, dei rammendi e arrangiamenti superficiali, ci saremo lasciati sfuggire l’occasione per la necessaria trasformazione delle nostre percezioni, dei nostri giudizi e atteggiamenti che portano a una diversa forma di vita piena, significativa e apostolica, personale a comunitaria. Sant’Antonio Maria Claret usa un’immagine che è adatta ai nostri tempi di dispersione e di confusione. È quella del compasso. Se tieni fissa una delle sue punte, con l’altra farai sempre una circonferenza. Più stretta o più ampia, ma sempre una circonferenza. Se non la tieni fissa, verrà fuori uno scarabocchio incomprensibile. Lo Spirito ci porta a centrare la nostra vita in Cristo e, partendo da lui, giungeremo al Padre. L’esperienza vocazionale integra in pienezza e armonizza l’incontro con Cristo, la comunione con la Chiesa e il servizio degli uomini. Se lasciamo di coltivare la contemplazione del volto di Cristo finiremo con l’irretirci in problemi secondari, s’impadroniranno di noi l’oscurità e lo scoraggiamento. Da dove vengono questi segnali di perdita di vitalità? Ciò che avviene e le circostanze sono importanti, ma l’essenziale è dentro il cuore.

Gesù è la via
La spiritualità di tutti gli uomini e di tutte le donne, in ogni epoca, ha avuto un carattere itinerante. Si può constatare anche nei popoli di differenti religioni. La vita umana è considerata come un cammino pieno di sorprese, decisioni, rinunce, ma soprattutto di ricerca di pienezza. Nella storia del popolo di Israele significa la condotta dell’uomo. C’è un cammino diritto e un cammino tortuoso. Ma scorrendo gli autori sacri appare che “le vie del Signore” e “le vie dell’uomo” a volte non coincidono. Il popolo eletto esperimenta la presenza e l’assenza del Signore nell’Esodo; come pure se adempie o disobbedisce alle sue leggi.

Con l’incarnazione del Verbo per opera dello Spirito Santo, comincia a rivelarsi tutto l’amore del nostro Dio Trinità. Gesù è la via al Padre; è la verità perché è la Parola incarnata; è la vita perché solo per mezzo di lui può essere ricevuta (Gv 1.4; 6,33; 11,25). Gesù si trova già là dove il discepolo vuol giungere. Gesù mostra la sua identità di Figlio del Padre e sarà lo Spirito che spiega loro tutto pienamente e li rende partecipi delle relazioni trinitarie. Gesù, dichiarandosi la via al Padre, chiede che lo seguiamo fino alla fine. “Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi” (Gv 14,16.17).
Oltre all’affermazione lampante di Gesù che dice di essere la via, la verità e la vita, egli insiste sulla sua identità e richiede di continuo la fede. “Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: “Mostraci il Padre”? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere. Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse” (Gv 14,9-11).
Ciò che preoccupa Gesù è la difficoltà dei discepoli di riconoscere che è lui stesso la via e il fine. Non conoscono il fine perché non vedono la via e si fermano all’accessorio. A volte facciamo attenzione, come la samaritana, all’acqua fresca senza tener presente che è Gesù che ci offre l’acqua viva; o come gli ebrei che sperano di ricevere da Gesù il pane, senza rendersi conto che è Lui il pane vivo disceso dal cielo; o come coloro che vogliono vedere Lazzaro uscito dal sepolcro e non capiscono che Gesù è la risurrezione e la vita. Immersi nelle piccole cose che ci circondano, non siamo capaci di vedere la via e in lui il cammino verso il Padre. La via che conduce al Padre è la via del Padre.
Siamo cercatori, itineranti e ci sfugge ciò che è centrale: osservare i comandamenti vuol dire custodire la parola ascoltata dal Padre; è amare ed essere amati dal Padre; è sperimentare che la Trinità dimora in noi. (cf. Gv 14,15-24).
San Paolo ci parla di vivere in Cristo, per mettere in risalto la novità di vita richiesta dall’ essere in Cristo (1Cor 1,30, Rm 8,1; 2Cor 5,17; Gal 3,28). “Se uno è in Cristo, è una nuova creatura” (2Cor 5,17). Vivere in Cristo non è un’espressione statica, ma dinamica. È espressione di configurazione, conformazione, di trasformazione in lui.

Bisogna tornare al mistero dell’incarnazione, al mistero della Parola fatta carne che ha posto la sua dimora in mezzo a noi e si è fatta simile a noi, passando attraverso il tempo, sfidando l’incredulità, offrendo nuova vita e vita in abbondanza. Gesù è compagno in tutte le strade degli uomini anche quando si percorrono di notte e si avverte il silenzio. Gesù conosce l’orografia del suo popolo (lago, montagna, deserto, prateria) e conosce la psicologia delle persone. Smaschera le une e aiuta coloro che soffrono nel corpo e nello spirito e coloro che cercano e non trovano.

Nella via di Gesù
La spiritualità richiede di addentrarsi nella via di Gesù e fare proprio il suo destino. La sua via è quella dell’umiltà, della compassione e della misericordia. Egli vive e convive come uno dei tanti (cf. Fil 2,5-11) e vive immerso nelle vicissitudini della gente del suo popolo. Ciò che nel vangelo di Giovanni è un’affermazione categorica “io sono la via”, in Luca è una “cronaca di viaggio” riguardante Gesù che va incontro alla sua morte e risurrezione (cf. Lc 9,51-56; 13,22; 17,11; 19,28). Non è un semplice racconto di episodi, ma il quadro di riferimento del suo dramma e del suo insegnamento. Dopo aver deciso di andare a Gerusalemme dove consumerà la sua opera, egli sceglie dei discepoli, cura, insegna e indica come giungere al Padre.
Lungo il cammino Gesù manifesta le condizioni per seguirlo, che non sono dovute a zelo esagerato né impulsivo, ma alla fedeltà assoluta verso la meta stabilita. Coloro che vogliono seguirlo, o sono da Lui chiamati, devono farlo in maniera incondizionata, totalmente dediti al Regno e mettersi, senza stancarsi, al servizio degli altri. “Ecco, io scaccio demòni e compio guarigioni oggi e domani; e il terzo giorno la mia opera è compiuta. Però è necessario che oggi, domani e il giorno seguente io prosegua nel cammino, perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme” (Lc 13,32-33). La sequela è pericolosa. È piena di conflitti ed è in relazione con la passione. Ma il radicalismo e la meta ultima vanno unite alla promessa: coloro che perseverano sino alla fine nelle prove, parteciperanno alla mensa del Regno (cf. Lc 22,28) “vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi” (Gv14,3).

Tutto il bene che compiva, Gesù lo faceva “passando” e in tal modo, con i suoi segni e prodigi manifestava la misericordia e la bontà del Padre verso i poveri, gli oppressi, i malati, i lebbrosi, gli indemoniati, i bambini e coloro che non contavano. Annunciava il Regno di Dio e indicava l’unico necessario per aver parte con lui.

Mentre siamo in cammino
Negli Atti degli Apostoli il cristianesimo nascente è chiamato “Via” (At 9,2; 18,25; 24,22). Questa via non è una legge, ma la persona di Gesù che, con il sacrificio del suo corpo e del suo sangue, fonda la nuova alleanza. Fa degli uomini il suo “corpo”, la sua Chiesa in cui i membri mantengono relazioni di figliolanza, di amore e comunione. In questo camminare con Gesù, i religiosi diventano discepoli e missionari (Conferenza latino-americana di Aparecida). Al plurale perché siamo chiamati, convocati, in comunità di ascoltatori della Parola e di servitori del Regno. Diventiamo imitatori di Gesù, rivivendo i suoi sentimenti e condividendo la sua forma di vita povera, vergine obbediente: siamo gioiosa lode della Trinità e costante offerta a gloria di Dio Padre. La nostra vita ha significato e dà significato alla vita di coloro che ci circondano come testimoni e annunciatori del Regno futuro.
Guidati dal bastone del Pastore, quando attraversiamo valli oscure non abbiamo paura; camminiamo sicuri perché Egli è con noi (cf. Sal 22). Nel frattempo, coniughiamo i verbi che lo Spirito suscita con la sua “memoria di Gesù”: contemplare e ringraziare per tutto il creato; scoprire e ammirare tutto ciò che è bello, buono e vero; pregare sempre in ogni momento davanti al Padre e benedire il suo nome; cercare e accogliere la volontà del Padre; imparare a discernere i segni dei tempi; commuoversi e impegnarsi per la causa degli emarginati, gli esclusi, coloro che soffrono, coloro che non riescono a vedere un significato alla loro vita; celebrare e godere con gli amici; lasciarsi trasformare per imparare, innovare e rilanciare ciò che costruisce il Regno; vigilare per non cadere in tentazione; perdonare e intercedere, come ha fatto Gesù; morire e risuscitare (Mistero pasquale) che è la ragione della speranza che offriamo.
La carità senza limiti manifestata da Gesù dà autorità alla coniugazione dei verbi precedenti. L’amore inizia e conclude il nostro cammino. “Egli ci ha amato per primo” (1Gv 4,19). Tutto è grazia e tutto è amore. La sintesi sta nella celebrazione dell’Eucaristia (Sacramentum caritatis), in cui rinnoviamo l’alleanza e rafforziamo la  missione. L’amore non è condizionato dalle differenze, dalle distanze né dalle frontiere. Tiene conto del diverso e promuove l’armonia, la pace, la comunione. In particolare all’interno della Chiesa in cui le mutue relazioni dei suoi membri (laici, consacrati e ministri ordinati), prima di accomunare e canalizzare modi di agire, sono espressione del modo di essere e di vivere il mistero della Chiesa, Corpo di Cristo. La Chiesa è casa e scuola di comunione soltanto se è viva la comunione missionaria.

La spiritualità in questo momento ha speciali risonanze e implicazioni comunitarie ed è arricchita dalle preoccupazioni della Chiesa: l’evangelizzazione e coloro che devono promuoverla: il laicato e, specialmente, la donna; il dialogo ecumenico, interreligioso e interculturale e di vita; l’esercizio dei diritti umani; la pratica della giustizia, la pace e la salvaguardia del creato; l’opera a favore della dignità delle persone e dei popoli in questo tempo di globalizzazione, ecc. Niente di questo può rimanere marginale in chi vuole vivere la logica delle beatitudini.
Qui non c’entra il volontarismo. È lo Spirito che infonde forza creatrice e fantasia di carità per stare negli spazi e nei campi dove è necessario rendere visibile la presenza di Dio (essere “luce del mondo e sale della terra”), dove occorre trasformare i criteri secondo il Vangelo e dove bisogna farsi voce di chi non ha voce. Mentre si procede si tiene aperto il dialogo, si rinnova l’alleanza di Dio con l’umanità e si promuove la pace, la giustizia e la salvaguardia del creato. La spiritualità diventa così inno alla gratuità ed esaltazione del creato, soprattutto della dignità delle persone.
In questo cambiamento di epoca ci sono nuovi scenari che chiedono dei segni inequivocabili della presenza di Dio, dei testimoni del potere di Gesù risorto, dei veggenti di significato e persone e istituzioni solidali con coloro che sono feriti nel corpo e nello spirito. Chiedono anche una nuova ascesi: un miglior uso della libertà e della responsabilità, un dialogo assiduo con la cultura, una generosa solidarietà, un uso sapiente dei mezzi di comunicazione, inculturazione del Vangelo e del carisma fondazionale. Cosa che implica un distacco e un centrarsi nell’amore, un vigilare per non abbandonare e darsi alla fuga, un affermare la via intrapresa nell’amore e confidare che il Signore tenda le sue mani per abbracciarci.

E seguendo le orme dei fondatori
La teologia dei carismi fondazionali ha influito sulla spiritualità della vita consacrata dando concretezza e offrendo itinerari precisi. Oggi tutti gli istituti hanno rinnovato le proprie costituzioni e hanno elaborato un itinerario spirituale conforme allo stile di vita e di apostolato inaugurato dal fondatore o fondatrice nella Chiesa (cf. MR, 11). Parlano di sviluppi, di tappe, di dinamismi, di mezzi, di impegni. Facendo affidamento su questo, rimane aperto l’invito a tutti i religiosi a riprodurre con coraggio l’audacia, la creatività e la santità dei loro fondatori e fondatrici come risposta ai segni dei tempi che si manifestano nel mondo d’oggi (VC 37). I fondatori continuano a stare davanti a noi con il loro vigore carismatico e profetico e il loro senso della cattolicità. Ci spingono al radicalismo evangelico nella sequela di Gesù e a fare attenzione a ciò che avviene per dare risposte missionarie alle sfide che esperimentiamo.
I membri di ciascuna comunità carismatica devono “bere al proprio pozzo”. I molti pozzi aperti hanno come sottosuolo l’acqua del torrente della vita (cf. Ap 22,1-2). La spiritualità ha oggi una identità aperta, dinamica, correlativa. La comunione e la complementarietà fra carismi e ministeri, la missione condivisa con i laici, la collaborazione intercongregazionale sono espressioni della spiritualità di comunione che deriva dal “Corpo Mistico”. La spiritualità ricrea la comunicazione, l’internazionalità, l’interculturalità e l’intercongregazionalità.
Disponendo di sapienti orientamenti, nati da uno sforzo di chiaroveggenza e di fedeltà alle esigenze del Regno in questo mondo, che cosa dobbiamo sottolineare oggi? Indico le seguenti cose, sapendo che la lista rimane aperta affinché il lettore la allarghi o la corregga:

Ringraziare per il dono di Dio in noi: siamo amati in Cristo Gesù. È un miracolo quello che Dio compie in noi dandoci la forza di vivere, in questo tempo, in fraternità la povertà, la castità e l’obbedienza. Ringraziare vuol dire vivere e dilata il cuore. Dal ringraziamento scaturisce la lode e la benedizione. Gesù era riconoscente.
Sapendo che Dio Padre veglia su di noi, essere vigilanti e guardare avanti. Le cose possono essere diverse da come noi le viviamo perché, già prima lo sono state. Il Signore è colui che governa la storia.
Coltivare la coerenza per renderci credibili, e non avvenga che le nostre opzioni restino semplici parole e i poveri siano dimenticati. Gesù è il segno della coerenza e, nella loro misura, lo furono anche i fondatori.
Continuiamo il cammino, andiamo avanti, e il Regno soffre violenza: non sogniamo il passato. Non canonizziamo il presente né i mezzi, né le strutture su cui ora facciamo affidamento. Il Regno di Dio cresce e in maniera inattesa. Andiamo avanti con il ritmo di Gesù: con umiltà e compassione, con mansuetudine e audacia.
Amare senza riserve e fino alla fine. Bisogna vincere il male con l’abbondanza del bene. Nessuno resiste all’amore. Vedendo noi stessi come “persone che hanno trovato grazia”, facciamo del Magnificat il nostro canto e il nostro programma di vita. È il canto dei poveri riconoscenti e fiduciosi.
Il futuro della nostra vita religiosa può essere un po’ migliore, essa sarà più trasfigurata, se da parte nostra ci mettiamo la fedeltà e la generosità. Teniamo conto che l’iniziativa continua a venire dall’alto.

(p. Aquilino Bocos Merino, su Testimoni 15 del 2012)