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o.9988123 settembre 2012

Vita Consacrata: vittima o artefice dell’attuale situazione?
Questa riflessione è in risposta a diverse lettere (e-mail) di persone che dicono siano i Religiosi stessi a darsi la morte e non i tempi nuovi, i quali, mai come oggi, hanno aperto la strada a nuove vie di vita evangelica maggiormente rispondenti ai bisogni della nuova società.

La speranza del nuovo che nasce

Non le sembra che l’esserci «attardati nella storia» ci abbia portati a situarci in una atemporalità tale che la figura della Vita Religiosa non è più comprensibile nelle sue motivazioni ultime? (p G.F.)

Nel vangelo di Marco (7,48) si trova scritto in riferimento ai discepoli: «Stanchi di remare perché il vento era contrario». È qui simbolizzata la fatica attuale della Vita Religiosa ma soprattutto, in questo dire, si coglie la resistenza nell’affrontare il rischio di passare all’altra riva, unica possibilità che le è data per restare fedele al suo mandato. Per la VR oggi il “vento” sentito come contrario è quello della “storia”. Sbagliarsi nell’intenderne il significato cambia il modo d’essere nel mondo, portandoci ad esistere o come “protagonisti” o come “prigionieri”. La storia rende protagonisti quando «l’ordine del mondo non è inteso statico, ma come qualcosa che si dà nel tempo, attraverso una processualità di mutazioni». Ma la storia può anche renderci prigionieri quando è intesa come qualcosa di immutabile, definito una volta per sempre, quando fedeltà significa riproporre nel tempo, tratti, scelte e norme paralizzate da una identità predefinita, con la preoccupazione della dottrina prima che della vita. Dicono gli storici: la storia non ci insegna il futuro, ma ci insegna che tutto cambia sempre.
Il passato della Chiesa e della Vita Religiosa è ricco di casi di cattività della storia. Ad esempio il concilio di Trento non aveva per nulla considerato tutte le nuove realtà nate nei decenni precedenti, germogliate dai vecchi Ordini o ad opera di personaggi laici o chierici, alla ricerca di un cammino di perfezione adatto ai nuovi tempi: i Teatini, i Somaschi, la Compagnia di S. Paolo, i Barnabiti e infine anche i Gesuiti. Tutta gente allora ritenuta “balorda” o se vogliamo usare espressioni meno radicali, non inquadrata, ma al di fuori rispetto alle organizzazioni tradizionali. Allo stesso modo, si comportano oggi, le stesse Istituzioni (Chiesa, Ordini, Congregazioni) con le nuove istanze di vita evangelica, non riuscendo a vedere in esse il segnale di debole preludio di futuro. Di conseguenza, nel tempo in cui la VR, venendo a scomparire tutti gli elementi che hanno caratterizzato il mondo pre-moderno, si trova ad essere riconosciuta quale evocatrice di figure della memoria, e quindi estranea all’oggi. Fu così che gli ultimi rappresentanti di prestigiose congregazioni religiose come l’ordine di Grandmont o la branca dell’antica osservanza dell’ordine di Cluny finirono con l’accontentarsi di una pensione, in cambio della cessione dei loro edifici abitati per secoli. Allora come oggi è proprio sul piano dell’estraneità più che su quello dell’esclusione che si giocano i rapporti tra vita religiosa e società.

«Nell’Assemblea USMI 2003 è stato detto: “oggi la questione centrale è costituita dalla concezione del rinnovamento come ri(e)voluzione”. Ma, ecco la domanda: tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare o l’istituzione?» (Sr.A.V.)

L’istituzione è chiamata a costruire l’ordine, a mantenerlo e a preservarlo. È una funzione che ha tutto il suo valore. Lo fa elaborando norme che mentre codificano il passato, normalizzano il vissuto riducendolo però a schemi precostituiti, e ciò che era intuizione di vita, viene dogmatizzato in formule, cataloghi di enunciazioni che portano a definire il nuovo come giusto/sbagliato a seconda che conferma o contraddice i propri presupposti. Se questo andava bene in tempi di continuità culturale, non lo è in un tempo in cui c’è bisogno di cambiare modelli di vita e di utilizzo delle risorse.
Quando poi una «forma societaria» ha il carattere marcatamente religioso è portata alla “sacralizzazione”,  vale a dire a far sì che le idee e le cose entrino nella sfera dell’assoluto, dell’intoccabile, quindi dell’immutabile, generando continui processi di re-idificazione che consolidano l’esistente e lo consegnano irreformabile al futuro. Tutto ciò va ad influire su varie costruzioni teologiche che in funzione della fede sono tentate di filtrare i fatti, attraverso categorie sottratte al controllo della ragione. Ma oggi è più saggio e doveroso pensare che la teologia debba mutuare dalla scienza il tendere a un instancabile avvicinamento a verità perfettibili, piuttosto che considerare immutabile le sue verità perfino quando le scoperte ulteriori le rendono palesemente inverosimili. Questo è possibile se si ha la voglia e la capacità di mettere in discussione alcune premesse che stanno alla base delle conoscenze. Anzi è necessario, per il fatto che molti dei precedenti schemi di pensiero non hanno più la forza di raccogliere la sfida dei tempi nuovi. In questa situazione la VR è tentata – da qui la sua attuale debolezza – di far fronte al senso di estraneità facendo prevalere l’attenzione al funzionale, in particolare delle strutture organizzative, che vengono conservate come patrimonio che dà sicurezza, lasciando in secondo piano, la preoccupazione di essere parabola del Vangelo in questo momento della storia.

«Il concilio ha dimostrato che ciò che è impossibile all’istituzione è possibile alle persone. Perché questo non potrebbe valere anche per la VR?» (p. B.N.)

Uscire dal conosciuto per concepire ciò che ancora non c’è, è proprio delle persone. Il concilio è stato grande perché ha fatto prevalere le istanze ri-evolutive su quelle istituzionali di coloro (i cardinali Ottaviani, Felici, ecc.) che erano tentati dalla conservazione tranquillizzante. In situazione irretita com’era quella fino agli anni cinquanta si trattava di mettere in discussione il senso e i significati dominanti. Ma a disimparare, almeno in parte, l’ordine esistente, come condizione per apprendere l’inedito e generare innovazione non è nella possibilità dell’istituzione. La vera conoscenza sapienziale non sta nell’acquisizione di dati (possibile all’istituzione) ma si accresce per ri-evoluzione, seguendo processi intuitivi e fuori dalle linee solite (tras-gressione), frutto di reimmaginazione e rifigurazione. È ciò che è stato possibile nella Chiesa con il concilio, attraverso persone fino allora guardate con sospetto, o ammonite, quali Yves Congar op, Henri-Marie de Lubac sj, Marie-Dominique Chenu op, Karl Rahner sj, Jean Danielou s.j, Edward Schillebeeckx, op, Hans Urs von Balthasar sj, Bernard Haring cssr, Jean-Marie Tillard op: autorevoli ed efficaci “suggeritori” della svolta nella Chiesa. Peccato però che questi non abbiano avuto la possibilità di impegnarsi su ogni fronte di rinnovamento, lasciando così nell’ombra proprio il Perfectae caritatis, forse anche perché, come diceva Tillard, si pensava che la costituzione sulla Chiesa, popolo di Dio, fosse sufficiente paradigma di tanti cambiamenti anche, anzi soprattutto, nella VR, ma così non è avvenuto.
Com’è stato per il concilio, altrettanto per la riforma della VR servono persone capaci di infrangere alcuni ancoraggi per affrancarsi da sudditanze antiche, per dar vita a nuove forme di presenza nel mondo e un modo nuovo di vivere i “consigli”.
Nel corso dei secoli ci furono varie esperienze di fondatori e fondatrici che in una società e in una Chiesa rette da principi irreformabili, attardate in ragionamenti estetici sui suoi ideali e altisonanti definizioni teologiche, hanno dato un esempio di un diverso approccio all’esperienza evangelica e di una diversa sensibilità verso le inquietudini e attese dell’uomo moderno. Alla fine del secolo XII°, lo stimolo al cambiamento più innovativo e influente è quello di Francesco d’Assisi e del suo movimento sorto come spunto critico nei confronti degli assetti storici. Qualche decennio dopo furono i Chierici Regolari che abbandonando forme di vita troppo vincolanti si dedicarono a impegni di rivitalizzazione spirituale e riforma ecclesiale. Con Ignazio di Loyola avvenne un ulteriore passo avanti con l’abbandono di tutte le osservanze monastiche. Nello stesso tempo furono diversi i tentativi di dare alla VR una forma più secolare rompendo gli schemi della clausura, ad opera di Angela Merici, Mary Ward, Luisa de Marillac, Giovanna di Chantal, esperienze riportate poi nell’alveo della tradizione. San Vincenzo de’ Paoli fondatore delle Figlie della Carità scriveva «non potranno mai essere religiose e guai a chi parlerà di farle religiose». Si sa come è andata a finire!
Anche Filippo Neri (1515-1595), con la Congregazione dell’Oratorio rischiò i propri passi su strade nuove, non intendendo fondare un Ordine religioso quale corpo separato dal popolo cristiano. L’oratoriano card. De Berulle scriveva: vivimus morbus non legibus, intendendo di voler essere riconosciuti per lo stile di vita e non per le norme. Le loro costituzioni furono approvate da Paolo V con regole che esigevano solo il «charitatis mutuae nexu, come voluto – si legge nel Breve Pontificio – dal santo padre Filippo Neri sotto ispirazione dello Spirito Santo».
Tra il sec. XVII-XX ci fu una grande varietà di comunità religiose, “nuove” nella capacità di vedere i bisogni dei poveri e di rispondervi con appropriati “servizi”, ma “non-nuove” in quanto a dottrina e forme comunitarie, le quali continuavano ad essere di impronta monastico-conventuale, connotate da spiritualità devozionistica, rigoroso ascetismo, ottemperanza all’uniformità disciplinare a tal punto che la fedeltà ai «consuetudinari » si identificava con la fedeltà al carisma. Questo orizzonte culturale, pressoché immutato da oltre quattro secoli, ha modellato profondamente la vita della maggior parte degli attuali religiosi/e portandoli, inconsciamente, a concepire, la perennità dell’evangelismo con la perennità delle forme, anche in una situazione di vita radicalmente mutata.
Oggi il futuro della VR non passa attraverso il reggere alla prova della storia ma alla prova della vita, quella che sta sotto gli occhi dell’uomo contemporaneo. Ma per arrivare a che la prova della vita possa avere la meglio, la VR ha bisogno di una teologia con spazi di riflessione da conquistare alla generatività, se non vuole continuare ad agire solo a livello di tattiche, che in tutti questi anni si sono rivelate improduttive. È tempo di una acuta analisi critica delle premesse ad opera di persone che non abbiano la propensione di far dire al Vangelo quello che amano che dicesse, ma capaci invece di far intravedere “altro”, radicato in profondità nel vangelo, adottando l’epistemologia dei mondi possibili in grado di trascendere l’esistente e di generare l’inedito.
Qualche anno fa l’allora card. Ratzinger in riferimento alla Chiesa disse: è tempo di «meno organizzazione e più Spirito Santo».
Per tutto ciò non c’è da attendere il futuro perché nell’attuale situazione, il futuro non è ciò che avverrà domani o posdomani ma ciò che ci distacca dal presente ponendoci, contemporaneamente, in una prospettiva, in un pensiero, in una proiezione. Le aurore vengono sempre pagate con i tramonti, diceva K. Rahner. La speranza sta nel fatto che ci sono ancora in non pochi religiosi/e sussulti di aspettative, voglia e gioia di prendere il largo per vivere a tempo pieno il vangelo e la fraternità, anticipando nel tempo e in germe il compimento che ci è promesso: gente che perché totalmente libera per Dio crede in questa modalità “avanzata” di novità cristiana.

(Rino Cozza csj, su Testimoni 15 del 2012)