IMGSettembre 2012

Identità e consacrazione, principi psicologici. 

Identità vocazionale e cura di sè

È importante riconoscere come la chiarezza vocazionale va di pari passo con il processo di crescita della propria identità. Parlare di vita consacrata come scelta di vita vuol dire perciò parlare della propria identità umana, spirituale ed ecclesiale.
Da un po’ di tempo ci si focalizza con insistenza sul bisogno di identità e di coerenza nello stile di vita dei religiosi e delle religiose e nelle esigenze vocazionali che la missione comporta per quanti hanno fatto una scelta di totale consacrazione a Dio.
Le nuove aree di azione pastorale, le novità che stanno emergendo nelle Congregazioni, le esigenze di una radicalità evangelica da tradurre nella vita, interpellano sempre più a dare risposte innovative, corrispondenti ai segni dei tempi ma anche all’identità carismatica di ogni Istituto. L’identità di ciascuno cresce e matura dentro queste realtà che interpellano le comunità e i singoli individui a dare risposte di senso coerenti con la loro storia passata. Allo stesso tempo sono situazioni che possono suscitare interrogativi a cui non è facile dare risposte certe.
È importante però riconoscere come la chiarezza vocazionale a cui ciascuno tende va di pari passo  con il processo di crescita della propria identità, che esige un’adesione fiduciosa e permanente al comune progetto vocazionale. In altri termini, parlare di vita consacrata come scelta di vita vuol dire parlare della propria identità umana, spirituale ed ecclesiale.
Il coinvolgimento del singolo, pertanto, se da un lato risponde al bisogno di identità che ciascuno porta dentro di sé, dall’altro lo impegna ad utilizzare i doni a disposizione con gioia e con entusiasmo in un cammino di crescita che coinvolge l’intera gruppo comunitario di appartenenza.
Riconoscere le radici profonde della propria storia psichica e vocazionale diventa una missione a cui ogni persona consacrata aderisce rafforzando la consapevolezza delle proprie risorse e mettendosi a disposizione degli altri.

Possiamo definire l’identità?
Cosa è l’identità? Secondo la definizione di Galimberti, «l’identità è il senso del proprio essere continuo attraverso il tempo e distinto, come entità, da tutte le altre». Questa semplice definizione offre comunque delle utili indicazioni nel contesto della vita religiosa.
Ci dice anzitutto che al centro dell’identità della persona c’è un senso di continuità. Si tratta della “memoria” che ogni individuo ha di se stesso, una fedeltà alla propria storia (genetica, familiare, sociale, vocazionale) che ognuno si porta dentro e che caratterizza il proprio essere. Se non ci fosse questa continuità tra il proprio passato e il presente ci sentiremmo persi ed estranei, sradicati dal tempo e dallo spazio. A questo senso di continuità si riferiva Freud quando parlava di identità come memoria inscritta nel sistema nervoso del soggetto.  Certo non è possibile pensare alla memoria come un’entità fisica presente da qualche parte nel corpo o nel cervello, ma sicuramente possiamo sapere chi siamo oggi perché… siamo stati “qualcuno” nel passato. Questa costanza della nostra identità è molto importante perché permette alla persona di “metabolizzare” o, secondo il linguaggio di Piaget, permette al bambino di “accomodare” ciò che ha vissuto assimilandolo dentro di sé, costruendo così una memoria di se stesso che col tempo diventa un’immagine interna sicura e stabile della sua realtà di persona.
“Ho imparato ad accettarmi per come sono, diceva un religioso che aveva appreso a riconoscere i segni della sua continuità vocazionale. Ho imparato a non spaventarmi delle difficoltà che vivo, ma anche a toccare con mano la presenza di Dio nella mia vita”. Riuscire ad avere questo senso di continuità rassicura la persona perché permette di riscoprire una base sicura dentro di sé, con cui darsi prospettiva nelle scelte future, sapendo di aver già investito energie nella costruzione di una identità che non va dispersa ma che resta depositata nel proprio essere profondo.
Il secondo punto di riflessione che possiamo rilevare dalla citazione di Galimberti è il principio di distinzione: rispondere alla domanda “chi sono io” comporta la capacità del soggetto di sapersi “differente” dagli altri, riconoscendo i propri pregi e i propri difetti. In ognuno vi è la tendenza a realizzare se stessi, quindi a prendersi cura dei propri bisogni, delle proprie aspirazioni, della propria crescita, delle proprie caratteristiche di personalità. Anche questo aspetto dell’identità ha origini lontane, perché fa parte di una storia di separazione e di individuazione che ha caratterizzato la vita dell’individuo già nella sua prima infanzia, ma che poi dura per tutta la vita perché durante l’intera esistenza egli continuerà a separarsi dai tanti contesti che lo rassicuravano (la mamma, la famiglia, le amicizie, gli ideali, i progetti…), imparando a rinunciare ai vecchi attaccamenti per potersi orientare verso qualcos’altro. «La vita non è qualcosa, ma è semplicemente l’occasione per qualcosa». In questo modo la persona rafforza la propria stabilità interna e allo stesso tempo individua ciò che la caratterizza come essere unico e irripetibile, imparando a far proprie le scelte che realizza e a sentirle parte del proprio sviluppo umano e vocazionale.

Costruzione dell’identità e progetto comunitario
Sr. Adele, un’anziana economa che per tutta la vita aveva fatto quadrare i conti delle comunità dove era stata, si è accorta che con il sopraggiungere degli anni e degli acciacchi non poteva più continuare a fare quello che aveva fatto finora. “Adesso che sono nella fascia di età delle anziane” si diceva tra sé, “devo proprio sentirmi rottamata? Oppure posso trovare delle nuove opportunità da riscoprire?”.
È stata fortunata, perché grazie a un’accresciuta consapevolezza di sé e delle sue risorse, nonché al sostegno ricevuto dalle consorelle, ha potuto riformulare il suo ruolo di “vecchia economa brontolona” rendendosi utile nei piccoli servizi della comunità dove le sue competenze di attenzione e accuratezza potevano essere preziose per le giovani generazioni.
Inoltre, anche nella vita esterna aveva ricominciato a trovare entusiasmo, dedicandosi per qualcosa  i significativo, lei che per tanti anni era stata molto attiva per i servizi finanziari svolti per conto della Caritas diocesana. Così ha ripreso a dedicare alcune ore della settimana alla Caritas della parrocchia vicina, offrendo delle consulenze agli anziani che avevano bisogno di compilare le loro dichiarazioni dei redditi o curare le loro pensioni.
In questo modo Sr. Adele continuava a rafforzare la sua identità, sulla base della sua storia passata e con un atteggiamento di adattamento costruttivo per individuare le possibilità presenti nella sua storia attuale. Così le è stato possibile esplorare le ulteriori opportunità che aveva a disposizione anche ora che era anziana, per continuare ad essere fedele a se stessa e all’identità che si era costruita in tanti anni di vita religiosa. Allo stesso tempo ha potuto riscoprire che la sua unicità di persona di valore non poteva scomparire adesso che erano sopraggiunti gli acciacchi della vecchiaia: anche in questo momento della sua vita poteva riscoprire il senso della sua esistenza, dandosi continuità nella realizzazione di un progetto vocazionale inteso come dono da riscoprire nel qui e ora dei vissuti quotidiani.

Non è solo un affare privato
Tutto questo l’ha aiutata ad accettare se stessa e a considerare il suo stadio attuale di vita come importante per la sua crescita, integrando i suoi limiti fisiologici e le restrizioni lavorative con una rinnovata capacità a valorizzare l’identità che continuava a caratterizzare la sua età.
L’individuazione di sé, quindi, rafforza il senso della propria identità e aiuta l’individuo a riscoprire cose nuove man mano che affronta i diversi compiti che lo interpellano nel corso della vita. Ciò è possibile nella misura in cui è capace di darsi continuità con le scelte operate, e sa anche adattarsi alle novità costruttive che incontra giorno dopo giorno, riuscendo a distinguere e a valorizzare la propria unicità dentro un progetto di vita inteso come dono di Dio.
Allo stesso tempo questo processo di costruzione dell’identità non è un affare privato ma fa parte di un progetto più ampio, che abbraccia il modo di vivere i rapporti nella vita fraterna.
Infatti «la comunità religiosa è la sede e l’ambiente naturale del processo di crescita di tutti, ove ognuno diviene corresponsabile della crescita dell’altro. La comunità religiosa inoltre è il luogo ove, giorno per giorno, ci si aiuta a rispondere da persone consacrate portatrici di un comune carisma, alle necessità degli ultimi e alle sfide della nuova società».
Quindi l’identità attinge dalle interazioni ed è fortemente influenzata dai rapporti interpersonali che ciascuno costruisce con gli altri. “I miei confratelli, confidava un giovane professo che aveva da poco terminato un lavoro di discernimento comunitario, possono cogliere delle verità sul mio modo di sentire, pensare e fare che mi aiutano a guardare me stesso da una prospettiva diversa”. L’identità è allora tutto ciò che la persona si riconosce come proprio, ma anche ciò che gli altri le attribuiscono e che lentamente sarà parte della sua memoria inconscia, del suo sé profondo.
Sr. Adele ha potuto essere fedele alla sua identità grazie al sostegno delle altre della comunità, ma anche grazie alla sua capacità di accogliere il loro aiuto e farne tesoro. In questo modo è riuscita a integrare progressivamente i suoi nuovi “successi” con le perdite e inefficienze dovute all’età, imparando a rinunciare alle cose che non poteva più realizzare, senza però lasciarsi sopraffare dagli eventi. Così ha potuto compensare i suoi limiti con una identità rinnovata da un modo nuovo di rispondere alla propria chiamata vocazionale.

Un’identità che sa guardare al futuro
L’identità che ogni consacrato è chiamato a custodire si fonda sulla fedeltà alla propria storia vocazionale, sulla consapevolezza della propria unicità di valore e sul bisogno di relazioni autentiche che arricchiscono e allargano gli orizzonti. A tutto questo dobbiamo però aggiungere un ulteriore aspetto, ed è la capacità oblativa. «Si può comprendere l’identità della persona consacrata a partire dalla totalità della sua offerta».
Un’identità centrata sulla sequela di Cristo si traduce necessariamente nel dono di sé, perché solo quando la persona si dona agli altri le sarà possibile scoprire il senso delle proprie scelte e della propria consacrazione. La vita consacrata recupera la sua identità passata, presente e futura se diventa un laboratorio di testimonianza dell’azione di Dio. Essa «trova la sua identità nella chiamata del Signore, nella sua sequela, amore e servizio incondizionati, capaci di colmare una vita e di darle pienezza di senso». La sua spiritualità, la sua capacità di ascolto intelligente ed empatico della gente che incontra diventa un’occasione preziosa per rinnovare la certezza della propria chiamata.
Questo dono oblativo di sé proietta l’individuo verso la missione di Cristo che anima ogni azione di dedizione agli altri e ogni servizio di evangelizzazione. È questo che scuote il cuore dell’uomo dal torpore di una fede inaridita e fa esclamare, come ebbe a dire Sant’Agostino, «“è il Vangelo che mi spaventa”, quello spavento salutare che ci impedisce di vivere per noi stessi e che ci spinge a trasmettere la nostra comune speranza».
Ogniqualvolta la persona si apre a questa prospettiva di autentica oblatività, può riconoscere i segni della presenza di Dio nella propria storia e constatare che la fedeltà alla propria identità ha come fine la ricerca delle cose di Dio, che da sempre agita il cuore dell’uomo e lo aiuta a dare risposte concrete nella vita di ogni giorno.

(p. Giuseppe Crea, Mccj, Psicologo, Psicoterapeuta, su Testimoni 15 del 2012)