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Card_Michele_Pellegrino Settembre 2012

Un vescovo che credeva alla libertà

Uomo di Dio, vescovo e padre della Chiesa

Autorevole e maestro, ma sempre “accanto”, disposto ad ascoltare e ad imparare. Nella sua vita la preghiera ha sempre avuto il primato. Per molti è già “santo”. Il profilo del card. Michele Pellegrino, (padre Pellegrino per molti) emerge dai ricordi di tanti che l’hanno conosciuto. Non si può parlare di Michele Pellegrino senza ricordare la sua competenza storica, filologica e teologica in ambito patristico, acquisita all’Università Cattolica di Milano e proseguita nella ricerca e nell’insegnamento all’Università di Torino. L’apologetica greca e latina dei primi secoli, la poesia cristiana antica, la letteratura dei martiri e la costante “frequentazione” di Agostino non rappresentano solo l’itinerario scientifico di Pellegrino, ma sono le fonti che, insieme alle Scritture, hanno plasmato la sua spiritualità cristiana. «L’attenzione alla humanitas della prima letteratura cristiana, alla pacatezza del dialogo intessuto dai cristiani con la sapienza pagana, porrà i fondamenti per quel suo atteggiamento di apertura e di ascolto al mondo, per quella disponibilità al dialogo con la cultura, per quella «sympatheia» con quanto gli uomini a fatica cercano di realizzare in vista di una terra più abitabile e più umanizzata» (E. Bianchi).
Vescovo del Concilio, Pellegrino ha saputo interpretare l’esigenza di costruire un ponte tra la Chiesa e il mondo contemporaneo, di colmare la distanza tra il “tempio” e la “fabbrica”, invitando gli ambienti ecclesiali a entrare in sintonia con le condizioni della gente, soprattutto di quanti sono afflitti dalla precarietà del vivere e ai margini della società. Di qui la «trasformazione di un intellettuale» che scende dalla cattedra per contemplare il mistero di Dio nella storia e per farsi prossimo agli ultimi; scelte queste già ben presenti nel motto del suo episcopato Evangelizare pauperibus, radicato nell’idea che «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore» (GS 1).

Una vita totalmente donata
Michele Pellegrino nasce a Roata Chiusani, (provincia di Cuneo e Diocesi di Fossano) il 25 aprile 1903 da una famiglia di modeste condizioni ma ricca di fede. Rimane orfano di madre dopo quattro mesi dalla nascita ma vive la cura di “zia Laurina” e l’anno dopo di Anna, seconda moglie di papà Giuseppe. Il 4 maggio 1911 Michele riceve la Cresima. A 10 anni entra nel seminario minore di Fossano, perché vuole diventare sacerdote, desiderio che si realizzerà il 19 settembre 1925. Segue un intenso periodo di studi: a Milano all’Università Cattolica si laurea nel 1929 in lettere e nel 1933 in filosofia. Nel 1931 si laurea in teologia presso la Facoltà Teologica di Torino. In quegli anni gli vengono affidati vari incarichi: direttore spirituale nel seminario vescovile di Fossano, canonico teologo del Capitolo della Cattedrale, direttore del settimanale diocesano di Fossano “La Fedeltà”; segretario dell’Ufficio catechistico diocesano; responsabile del Segretariato Scuola dell’Azione Cattolica e membro della Commissione della Conferenza Episcopale Italiana per le attività educative e culturali. Il 27 novembre 1933 è nominato vicario generale della diocesi di Fossano. Dal 1941 è titolare della Cattedra di Letteratura cristiana antica nell’ Università di Torino.
Mons. Pellegrino viene nominato arcivescovo di Torino nel 1965. Partecipa all’ultima fase del concilio Vaticano II con interventi particolarmente significativi. Nel 1967, Paolo VI lo nomina cardinale, insieme al fossanese Giuseppe Beltrami e al polacco Karol Wojtyla, il futuro Papa Giovanni Paolo II.
Durante il suo episcopato a Torino compie la visita pastorale di tutte le parrocchie dell’arcidiocesi; ristruttura il suo territorio in zone vicariali e incoraggia il ruolo dei laici nella partecipazione ecclesiale. Dà vita con convinzione agli organismi consultivi diocesani e ristabilisce il diaconato permanente. In quella stagione difficile in cui la Chiesa è chiamata ad attuare le linee del concilio e a confrontarsi con i tumultuosi anni ‘70, l’icona del vescovo Pellegrino è anche quella della sofferenza, della non comprensione, della solitudine di un pastore che percepisce nella sua gente e nella sua Chiesa i rischi di divisioni e di contrapposizioni.
Il card. Pellegrino rinuncia al governo dell’arcidiocesi di Torino nel 1977; gli succederà mons. Anastasio Ballestrero. Continua tuttavia a dedicarsi allo studio e alla predicazione in Italia e all’estero fino all’8 gennaio 1982, quando è colpito da un “ictus” irreversibile che gli toglie la parola e lo rende testimone silenzioso di sofferenza offerta per il bene della Chiesa. Ricoverato all’Ospedale Cottolengo di Torino vi rimane fino al giorno della morte, il 10 ottobre 1986, dopo aver ricevuto l’Unzione degli infermi dal card. Ballestrero, che gli porta una speciale benedizione di Giovanni Paolo II. Di sua volontà, espressa nel 1973, padre Pellegrino dona la cornea dei suoi occhi. La sua salma viene tumulata il 14 ottobre 1986, per sua precisa disposizione testamentaria, nella tomba di famiglia nel cimitero del paese, in quel piccolo rettangolo di terra, dove riposano i suoi genitori, i familiari, i molti preti e i tanti amici di Roata.

Cristiano e vescovo “vigilante”
Pellegrino citava spesso, in conferenze e conversazioni, le parole di Tertulliano: «cristiani non si nasce ma si diventa». Questa era una consapevolezza che ha accompagnato la sua vita cristiana, fornendogli una “vigilanza” straordinaria sui suoi sentimenti e comportamenti di uomo, di cristiano e di vescovo. Non solo era un cristiano con una fede salda e profonda, ma riteneva la forma del vivere cristiano soprattutto come diretta opera fidei. Il Vangelo era per lui il canone, la regola della vita cristiana quotidiana. Perciò era un cristiano severo con se stesso, e sapeva diventare severo anche con gli altri, soprattutto quando il Vangelo gli pareva minacciato o impoverito. Il suo rigorismo evangelico si esprimeva nella sua ricerca intellettuale e spirituale, nel rifiuto di essere chiamato “eccellenza”, nel suo vestire in modo semplice e sobrio, (dona la croce pettorale, anelli episcopali, calici e medaglie); non amava inaugurazioni e cerimonie ufficiali, declinava doni e privilegi, ricordava spesso che il Vangelo non è solo “buona notizia”, ma anche “giudizio” in cui un giorno si sarà chiamati a rispondere. Questo rigorismo ascetico e spirituale si nutriva ogni giorno della preghiera, che sempre ha avuto il primato nella sua vita di prete, di docente universitario e poi di vescovo. Ripeteva spesso che per la vita cristiana è assolutamente necessario non solo meditare, ma studiare e ruminare la parola di Dio quotidianamente.

Vescovo di profonda carità
Vescovo di profonda carità, anche se non sempre espressa con atteggiamenti affettivi, ha testimoniato attenzione ai piccoli e agli ultimi, capacità di misericordia anche verso quelli che lo contraddicevano, carità pastorale, soprattutto verso i confratelli presbiteri. «Si amas, pasce», diceva.
Egli è consapevole che «il servizio di cui il pastore è debitore alla comunità è l’esercizio dell’autorità. Un’autorità che non sia come quella dei potenti di questo mondo, ma sia esercitata a nome di Cristo», segnata dall’amore e dalla pratica della comunione. «Un amore disinteressato e generoso, sempre memore che le pecore sono e rimangono del Signore», e una comunione che è data non tanto da parole, ma da una presenza concreta. La sua azione pastorale è incentrata sull’impegno di attuazione del concilio e si distingue per una speciale attenzione ai problemi concreti della gente, in particolare a quelli dei poveri e del mondo del lavoro. Il suo magistero episcopale coglie i “segni dei tempi” ed è ricordato soprattutto per la lettera pastorale Camminare insieme dell’8 dicembre 1971. Durante il suo episcopato, ha anche una grande intuizione dei problemi del terzo mondo: avvia l’esperienza dei preti fidei donum e “disegna” un futuro multietnico per la città di Torino.
«Tuttavia eravamo impreparati – dice E. Bianchi – ad avere un vescovo che credeva alla libertà e alla possibilità di una corresponsabilità ecclesiale, a un autentico «camminare insieme». Impreparati al suo metodo che chiedeva obbedienza intelligente e matura. Impreparati alla sua parola libera che non temeva i giudizi degli uomini, non temeva neanche, a volte, di manifestare con severità preoccupazioni alle autorità superiori e che, soprattutto, mai cedeva alla menzogna».

Un faro di luce per molti
Ernesto Olivero, fondatore e animatore del Sermig (Servizio missionario giovanile), ha raccontato alcuni dei tanti incontri avuti col card. Pellegrino. «La mia – ha detto – è la testimonianza di un ragazzino, amato da un gigante». Per tanti Michele Pellegrino è già santo: per noi è uomo di Dio, padre della Chiesa e amico. Un’amicizia nata a metà degli anni sessanta, quando al Sermig, l’arcivescovo concesse la chiesa dell’arcivescovado per un decennio in modo da avere un luogo per pregare e per l’adorazione eucaristica, il dono «di un padre che ci ha sprofondati in Dio e nella preghiera».
Coinvolgente la testimonianza di don Luigi Ciotti, fondatore del gruppo Abele, giovane sacerdote di Torino a cui il card. Pellegrino affidò la «parrocchia della strada». Una parrocchia, all’inizio degli anni settanta, segnata dai gravi problemi della tossicodipendenza e della prostituzione. Don Ciotti ha ricordato le forti prese di posizione di Pellegrino, la sua “opzione preferenziale per i poveri”, come quando si fece garante con il questore e la magistratura perché si potesse aprire un centro capace di offrire una prima risposta alle persone tossicodipendenti (4000 nei primi due anni). O come nella sua omelia della notte del Natale 1972 in cui prese posizione sulla questione dello sfruttamento della prostituzione. «Ci invitava ad avere il coraggio della parola e della denuncia franca nei confronti dell’ingiustizia. Perché la Chiesa o è profetica o non è. Padre Pellegrino ci ha insegnato che non bastano le strutture e le risposte tecniche, ma ci vuole attenzione educativa, ascolto dei bisogni profondi delle persone». Il card. Pellegrino rimane ancora oggi uno dei fari che hanno illuminato la strada di tante persone incoraggiandole a proseguire anche in mezzo alle difficoltà.

(Anna Maria Gellini, su Testimoni 14 del 2012)