44387Luglio 2012

L’abate nell’ordine cistercense

Per formare: lasciarsi formare!

Come i confratelli che gli sono affidati, il superiore ha lo stesso cammino da compiere: dalla paura di Dio all’amore di Dio senza paura. E così cercare il Regno di Dio nella fede, perseverare nelle opere buone, alla luce del Vangelo.

In occasione dell’ultimo Capitolo generale dei Cistercensi della Stretta Osservanza (Assisi, 6-9 settembre 2011), dom Eamon Fitzgerald, abate generale ocso, ha offerto a un’assemblea costituita principalmente da superiori dell’Ordineuna relazione dedicata alla formazione continua del superiore.

Abate e cammino monastico
«L’abate è un monaco – esordisce dom Fitzgerald – e non smette di esserlo quando riveste il ministero di abate». L’abate percorre lo stesso cammino che, attraverso la vita monastica, porta a maturazione la vocazione battesimale che lo rende figlio di Dio, simile a Cristo. «Si tratta di divenire una persona che ama nella verità, le cui caratteristiche sono descritte nel capitolo 72 della Regola. L’abate – come tutti i monaci – deve sforzarsi d’attendere al Regno di Dio nella fede, nella perseveranza delle opere buone e sotto la guida del Vangelo. L’abate deve temere Dio e osservare la Regola (RB 3)».
Questo “timor di Dio”, disposizione fondamentale nella Regola, è richiesto a tutti i monaci, ma deve essere particolarmente presente in chi ha una posizione di responsabilità nella comunità (abate, cellario, infermiere, portinaio). Il timor di Dio «è la roccia salda su cui è fondata la virtù nella Regola. È la forza motivazionale per la quale rispondiamo alle persone e ai compiti che ci sollecitano. È fede nella realtà di Dio, nella sua esistenza, nella sua sollecitudine per noi, e nel fatto che siamo responsabili davanti a Lui. Ciò riguarda in modo particolare l’abate».

Formazione a che cosa?
Il monaco è in cammino come l’abate, quindi la formazione è continua. San Benedetto offre alcuni esempi concreti circa il tipo di persona che egli considera un santo e un buon modello. «Quando parla del cellario, cerca qualcuno che abbia le seguenti qualità: capace di buon giudizio, maturo di carattere, sobrio, non supponente o agitato, che sia padre per tutti, capace di compassione e rispetto nei confronti di uomini e cose, che non rattristi gli altri ma sia umile, dolce e amabile nel suo eloquio». Dom Fitzgerald fa notare che le qualità dell’abate provengono dalla stessa fonte: «deve essere utile ai fratelli, piuttosto che presiedere su di loro; deve conoscere la legge divina, essere casto, temperante e misericordioso; dare prova di accortezza e considerazione, di discernimento e di moderazione. Sono liste impressionanti per le qualità umane che richiamano e il livello di maturità che esigono».
Considerate sul criterio dell’imitazione di Cristo, così come sono descritte nei gradi di umiltà, queste qualità non dovrebbero stupire. Infatti, «sono il frutto di vite vissute nello spirito evangelico dell’imitazione di Gesù, ponendo al primo posto nella vita la volontà di Dio, così come il dono di sé al servizio degli altri. Si tratta di una vita modellata su Colui che è veramente uomo e veramente Dio».
La scelta del monaco è la kénosi vissuta da Cristo, «una vita fondata sulla relazione – “Cristo mi ha amato e ha dato la sua vita per me” – e che è vissuta nella coscienza d’essere amato». E l’abate vive questa vita come tutti gli altri monaci, seguendo la Regola, il programma di preghiera e lettura, di pasti e riposo, di lavoro. Il suo lavoro specifico, o meglio il ministero che lo distingue tra i fratelli, è un compito difficile che Benedetto descrive con immagini: «padre, maestro, pastore, dottore e amministratore ». L’abate esercita «un ministero di attenzione, di cura della comunità, l’incarico di nutrire la vita della comunità così che i fratelli possano divenire persone formate e guidate dallo Spirito, che vivono una vita d’amore che conduce alla vita eterna».
La conclusione di queste considerazioni, afferma dom Fitzgerald, è che la formazione continua dell’abate e del monaco «ha luogo attraverso il vissuto della vita comunitaria con tutto ciò che essa comporta, e la differenza importante, nel caso dell’abate, è il ministero che esercita nella e per la comunità».

Il servizio dell’abate
Il servizio dell’abate – san Benedetto ne era consapevole – ha le sue tensioni e i suoi vincoli, così come i suoi pericoli. «Alcune sfide particolari sono:
– evitare le preferenze personali per qualsiasi ragione (eccetto la virtù) nel modo di stare in relazione con i fratelli, poiché tutti sono uno in Cristo. Al momento del dialogo e delle votazioni comunitarie, il pericolo sarebbe forse di favorire quelli che si schierano con i propri punti di vista.
– Adattarsi ai temperamenti e ai caratteri degli altri piuttosto che aspettarsi che loro si adattino a lui. Questa potrebbe apparire come una vera sfida.
– Porre il bene delle anime prima delle considerazioni materiali. In un tempo come il nostro, con la crisi economica, quando ci sono preoccupazioni di ristrutturazione delle case e tante altre attività nel monastero, è molto facile per l’abate essere assorbito da questo tipo di preoccupazioni, con tutte le migliori intenzioni. Ciò, tuttavia, può portare ad altri tipi di tensione e rendere la vita difficile per i fratelli.
– Ricordarsi che è chiamato a prendersi cura delle anime malate e non solo delle anime che sono in buona salute. Lavorare con le persone che ha piuttosto che con quelle che vorrebbe avere, è una sfida (che non è solo dell’abate). Il pericolo dell’evitamento è reale: evitare i più fastidiosi e restare con quelli che sono più stimolanti e ti sostengono.
– Rendersi conto che non è sempre la persona adatta in ogni situazione per aiutare qualcuno e essere sufficientemente libero e affidabile per far fronte a ogni necessità. Deve riconoscere i suoi limiti.
– Sapendo come guarire le proprie ferite può guarire quelle degli altri. – Essere utile ai fratelli piuttosto che semplicemente presiedere su di essi. È il pericolo di amare la gloria più del lavoro. Possiamo rimanere invischiati dal nostro status e considerarci importanti, avere troppa considerazione della nostra immagine. Buona parte di ciò dipende dal posto che occupa il monastero in una data società e dal desiderio di corrispondere alle attese della gente.
Evidentemente l’orgoglio è un pericolo serio, che può velocemente trasformarsi in stile personale, sia agli inizi, quando innocentemente siamo sicuri di sapere ciò di cui ha bisogno la comunità, sia più tardi, quando abbiamo più esperienza e pensiamo perciò di avere tutte le risposte.
Benedetto mette particolarmente in guardia contro la gelosia (in relazione al priore) e il fatto di non essere più cosciente della propria debolezza, guardando più quelle degli altri che non le proprie».

Dom Fitzgerald richiama il monito di san Benedetto di vegliare sulla propria anima, consapevoli che la vita monastica è un cammino per crescere in santità e umanità. La fragilità della persona umana rende ragione di quella espressione che descrive la vita monastica come «scienza dell’oscillazione: piuttosto che muoversi su una pista ben tracciata, dritta verso la meta, si tratta di andare da una parte all’altra per imboccare la strada che porta al Regno».

Alcuni suggerimenti
Oggi è molto meno evidente, secondo dom Fitzgerald, che tutto ciò di cui i monaci hanno bisogno, in termini di aiuto per il cammino che conduce alla trasformazione in Cristo, «è disponibile nel recinto del monastero, sia sul piano materiale che su quello spirituale». Perciò, mette a fuoco la questione del «bisogno dell’abate di vegliare sulla propria anima, cosciente delle proprie ferite e di come deve curarle».
Alcuni dei più importanti fattori d’influenza sulle nostre vite sono avvenimenti che non dipendono da noi: chi sono i nostri genitori, la scelta dei fratelli o sorelle, la nostra origine sociale, ecc., e il tipo di persona che siamo risulta da tutto ciò. «Sono realtà donate, che dobbiamo accettare, al fine di vivere con esse, al meglio possibile, non avendo avuto nessuno di noi delle famiglie perfette». Arrivare ad accettare se stessi con i propri limiti è un fattore importante per la maturazione umana e la saggezza. «Ma per il cristiano e il monaco è anche un atto di fede nella Provvidenza di Dio nella propria vita». Una volta, ci ricorda la tradizione, si parlava di «difetto predominante »; oggi si parlerebbe di stile di personalità e di difetti dei quali non siamo mai riusciti a disfarci. Paolo ha parlato di una “spina nella carne”. Grazie a Dio, certe ferite possono essere curate dalla grazia e dall’aiuto degli altri; con altre ferite, invece, non solo dobbiamo vivere ma, secondo san Paolo, dovremmo anche gioire.
«È importante, allora, per chiunque eserciti il ministero di abate, essere cosciente della propria debolezza, affinché non intralci il suo servizio agli altri. Il sacramento della riconciliazione, l’accompagnamento spirituale e la preghiera, sono dei mezzi che possono condurre alla guarigione, o a vivere più serenamente con noi stessi». L’importante, insiste dom Fitzgerald, è che noi siamo sinceri con noi stessi davanti a Dio. E essere sinceri con un’altra persona può essere di grande aiuto per arrivare a questa sincerità.
«Così come non esiste una famiglia perfetta, neppure esiste il monastero perfetto, né formazione monastica perfetta, anche se evidentemente esistono monasteri più ricchi di altri quanto a risorse umane e materiali». È un dato di fatto che può spingere l’abate a non incontrare qualcuno, dentro il monastero, che lo possa aiutare. E così può cercare e trovare qualcuno all’esterno che, professionalmente o spiritualmente possa rispondere alle sue esigenze. «Ciò potrebbe rivelarsi necessario in certi momenti, o essere fatto in modo più regolare, sul lungo termine. Potrà essere un corso che qualcuno segue in un dato momento, o un tempo sabbatico, o ancora un incontro pastorale dei superiori. Alcuni potranno trovare proficue delle giornate di deserto o altre formule. L’importante è che, qualunque sia la nostra abitudine, non risulti solo un’evasione, ma ci aiuti realmente a essere più liberi nel nostro servizio di Dio e della comunità, essere utili, e ci aiuti a vive-re la nostra ascesi apostolica con rinnovato zelo».
Gli abati sono molto più esposti all’incontro con le persone, sia nella comunità come nei contatti con l’esterno. «Ciò può essere un servizio per gli altri e una scuola di formazione permanente per sé». Ricordando il documento della Santa Sede sul servizio dell’autorità e l’obbedienza, dom Fitzgerald fa notare che «sarà compito dell’autorità mantenere elevato, in ciascuno, il livello della disponibilità alla formazione, la capacità di apprendere dalla vita, la libertà di lasciarsi formare dagli altri e sentirsi tutti responsabili del cammino di crescita altrui». In fondo, la maturità affettiva non dipende dal fatto di non sbagliare mai, ma dall’ammettere i propri errori davanti agli altri e lasciarsi perdonare in modo realmente fraterno e amichevole. Un suggerimento particolare il superiore generale ocso lo esprime circa la sfida del disincanto e dello scoraggiamento di fronte a situazioni complesse che si possono generare per le resistenze di certe persone o comunità, per situazioni che sembrano irrisolvibili.  Ciò potrebbe ingenerare il pericolo di divenire gestori della routine, rassegnati alla mediocrità, paurosi d’intervenire, senza coraggio nell’indicare gli obiettivi della vita consacrata autentica, correndo il rischio di perdere l’amore delle origini e il desiderio di testimoniarlo. Per gestire situazioni di questo genere bisogna ricordarsi che «il servizio dell’autorità è un atto d’amore verso il Signore Gesù, così come la necessità di essere paziente nella sofferenza e perseverante nella preghiera, e di continuare a operare».
Essere abate è una vocazione e, come tale, va vissuta nella libertà e nell’umiltà. «Non avremo mai la formazione continua voluta se non accettando nella fede e nella fiducia che c’è una Provvidenza che tiene tutto nelle sue mani e le cui vie e disegni si realizzeranno malgrado noi, per la nostra felicità e la sua gloria».

(Enzo Brena, su Testimoni 12 del 2012)