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186919Giugno 2012

Intervista a p. Nicolás, generale dei Gesuiti

I piedi per terra, ma col cuore aperto

Le convinzioni che guidano oggi la Compagnia di Gesù nel pensiero del preposito generale, p. Nicolás, e il modo di procedere di fronte ai complessi problemi che ci si trova ad affrontare nella Chiesa e nel mondo.

Nel prossimo luglio lei ha convocato, per la prima volta nella storia della congregazione, i rappresentanti di tutte le province gesuitiche in Africa. Può spiegare il senso della sua decisione?
Anzitutto, riunioni di questo genere, ossia assemblee che non sono congregazioni generali ufficiali (o capitoli come sono chiamati in altre tradizioni) possono aver luogo ovunque nel mondo e non è necessario che si svolgano a Roma o in Europa. Sono riunioni che suscitano grande attenzione, almeno tra i gesuiti. Ho pensato che, siccome l’Africa costituisce una delle nostre preoccupazioni preferenziali, sarebbe stato opportuno che ci fosse da parte di tutta la Compagnia di Gesù un’attenzione speciale verso questo continente. Stiamo incoraggiando tutti i delegati che sono stati eletti e inviati a questo incontro a cogliere questa opportunità per visitare una certa parte dell’Africa per comprendere meglio i problemi che i nostri fratelli africani vorranno sottoporre alla nostra attenzione. Questa assemblea, di soli cinque giorni, dedicherà una giornata intera ai problemi africani, e i gesuiti del continente stanno attivamente studiando come utilizzare al meglio questo giorno.

Uno spostamento della Compagnia verso una dimensione globale e mondiale era già leggibile nella scelta dei suoi predecessori. Sia p.Arrupe che p. Kolvenbach, europei di provenienza, avevano lavorato in Asia e in Medio Oriente. Ricorda alcune scelte di governo emblematiche di questa progressiva dislocazione?
Gran parte delle decisioni in questa linea sono piccole e continue. Tra queste forse la più durevole nel tempo è stato lo sforzo costante di cooptare, nella curia romana, gesuiti dall’Africa e dall’Asia. Questo è stato un fatto continuo e persistente con la speranza di avere attorno a noi un numero sempre maggiore di gesuiti dal sud e dall’est. La decisione più appariscente fu presa dal p. Arrupe, quando in risposta alla drammatica situazione dei “Boat people” vietnamiti fondò il Jesuit Refugee Service (JRS) che da allora si è sviluppato e ed è molto cresciuto. Attualmente è presente in tutte le zone di conflitto del mondo, offre un ottimo servizio ed è rispettato per la sua serietà e competenza.

Nel secolo XX, in particolare dopo il concilio, la vita consacrata non solo si è estesa, ma anche radicata fuori del quadrante europeo. Un processo storico di grande rilievo. La dimensione “mondiale” delle famiglie religiose come incrocia e feconda la valorizzazione conciliare delle chiese locali e la loro genialità pastorale?
Questa domanda ritorna di continuo nei miei incontri con i gesuiti. Sappiamo che tutte le realtà importanti sono complesse, e penso che parte del processo di guidare verso la maturità umana implichi l’imparare a vivere in mezzo alle tensioni. Evidentemente, da una parte, c’è una tensione tra l’inculturazione, la realtà concreta in cui lavoriamo e serviamo, la necessità di conoscere una particolare cultura, il suo linguaggio e le sue relazioni, e dall’altra la prospettiva universale del Vangelo, della nostra vocazione nella Chiesa, una Chiesa che è cattolica, universale, e ha attenzione verso ogni persona e cultura. Vorrei dire che il nostro modo di lavorare e di entrare nelle realtà particolari è sempre concreto, incarnato, con i piedi per terra... ma i nostri cuori e la nostra visione rimangono aperti e universali, flessibili e globali, a somiglianza del Cuore di Gesù che mai sacrificò una dimensione all’altra, ma tenne sempre i piedi legati alla terra del suo popolo, coltivando allo stesso tempo il sogno universale del Padre per la vita di tutti.

Per quello che lei riesce a percepire, quali sono le maggiori resistenze che i religiosi della vecchia Europa oppongono a questo sviluppo? E quali sono invece le opportunità che esso fa emergere? Qual è il compito della vita consacrata in Europa nel prossimo futuro?
Dalla esperienza di questi quattro anni non riesco a vedere nessuna resistenza da parte dei gesuiti d’Europa. La grande maggioranza è molto realistica ed essi sanno che il cambiamento demografico che riguarda tutta la Chiesa è avvenuto prima, e la nostra responsabilità non sta nel negarlo, ma nel preparare la Compagnia di Gesù in maniera tale da poter continuare a servire la Chiesa nel modo migliore possibile. Non possiamo pensare che gli uomini che Dio manda alla nostra Compagnia abbiano a riempire i vuoti che troviamo in mezzo a noi, o a continuare ciò che abbiamo avviato. Dio ce li manda per la Chiesa, per tutta la Chiesa ed è nostro dovere formarli nel modo migliore possibile, discernendo insieme a loro come e dove il nostro servizio può aver luogo per la maggior gloria di Dio. Non credo che il Vangelo sia finito in Europa. Fin tanto che c’è un cuore in Europa e la parola di Dio è nelle mani della gente, il Vangelo sarà vivo e noi saremo sorpresi nel vedere che cosa lo Spirito Santo può compiere con questi strumenti di vita e di speranza. Io non sto a interrogarmi sul ruolo futuro della vita consacrata. Prego che i nostri cuori crescano nell’apertura all’azione dello Spirito di Dio. Non stiamo vedendo la fine della Chiesa in Europa, perché Dio non è affatto finito con noi.

Nella generosa testimonianza dei religiosi latino-americani emerge il martirio dei gesuiti dell’Università centro-americana in Salvador. Qual è stato il “guadagno” di quella testimonianza per la vita consacrata del continente?
Penso che essi facciano parte di una moltitudine di testimoni in tutta l’America Latina costituita da laici, religiosi/e, sacerdoti e vescovi i quali hanno mostrato al mondo che il vangelo di Gesù è vivo, che la verità e la giustizia, e la vita dei poveri meritano il dono della nostra vita e della testimonianza della nostra morte. Noi non guardiamo a questi testimoni in termine di guadagno o perdita; essi ci hanno mostrato che la vita, ogni vita, è preziosa e ogni persona è degna della nostra attenzione e del nostro amore; hanno mostrato che l’America Latina si prende cura delle stesse cose e persone di cui si è preso cura Gesù. Grazie ad essi oggi noi abbiamo più speranza, più coraggio, un amore più grande e profondo verso i i poveri e le vittime di ogni ingiustizia.

I gesuiti indiani sono ormai l’Assistenza più numerosa. In crescita anche la presenza in altri paesi asiatici. Resta l’enigma della Cina. Quali sono le sue speranze in merito?
Non sono un profeta e non so come la Cina si svilupperà in futuro, o che genere di influsso avrà. Ma ho una grande speranza. Io credo nella storia umana, perché credo che lo Spirito di Dio agisce nel cuore umano. La Cina ha una storia molto lunga con un pensiero molto profondo e un’immensa ricerca sulla persona umana e il suo corpo umano. I cinesi hanno una “sapienza” raffinata e l’influsso dei grandi “saggi” che stanno alle radici di una civiltà profonda e di lunga durata, un comportamento sociale e un’etica. Abbiamo visto come in altri paesi o culture i giovani, anche dopo molti anni di silenzio o dopo uno sforzo concertato di cambiare la cultura o la religione, ritornano alle loro radici alla ricerca di una sapienza perduta o dell’ispirazione di coloro che hanno vissuto l’avventura umana con grande profondità. Ho fiducia che qualcosa di simile, e su grande scala, avverrà in Cina. E sono sicuro che ciò ridonderà a grande beneficio per il mondo intero, perché sono convinto che abbiamo bisogno di questa sapienza apparentemente perduta di culture o paesi come la Cina, il Vietnam e simili.

Lei ha fatto nel 2011 una lunga visita in Africa. Come sintetizzerebbe le sfide maggiori per la vita consacrata?
Io penso che le sfide della vita consacrata in Africa siano le stesse di ogni altra parte del mondo. Se non siamo troppo presi dai nostri pregiudizi, la grande sfida della vita consacrata è sempre stata quella di come vivere, come rispondere e come crescere nello spirito del Vangelo di Gesù Cristo. Ogni cultura apporta a questo compito specifici colori e contributi. Nel grande sforzo di vivere sempre più coerentemente la nostra chiamata da parte di Cristo abbiamo sempre compiuto degli sbagli e abbiamo imparato da essi. Le sfide rimangono le stesse: la geografia e le culture cambiano.

Sono trascorsi 50 anni dal concilio. Di questo tragitto quali sono i suoi ricordi personali più belli e come hanno aiutato nella sua missione?
Penso di essere stato particolarmente fortunato per la coincidenza col tempo del concilio. Ho studiato teologia in Giappone dal 1964 al 1968. Quelli furono gli anni migliori per studiare teologia. Il concilio ci permise non solo di studiare, ma anche di fare veramente teologia. Avevamo dimestichezza con la “teologia del senso comune” di quei tempi; e potemmo vedere la differenza e farne parte del nostro studio. Fu una delizia. C’era anche una vera corsa a ricevere, leggere, studiare e discutere i documenti del concilio che ci giungevano nelle varie lingue. Io non avevo mai studiato così tanto e goduto tanto di studiare. Sentivo particolarmente che il linguaggio del Vaticano II offriva a noi in Giappone una nuova opportunità per dare significato alla nostra fede, in un ambiente che non era abituato al linguaggio cristiano e dove il vecchio modo di parlare era meno intelligibile e appariva molto staccato e distante. Il concilio Vaticano fu per noi una grande testimonianza di una Chiesa che aveva molto a cuore la gente e compiva un grande sforzo per raggiungere le realtà e la ricerca dell’uomo. I Padri del Vaticano II furono molto generosi nei loro sforzi e molto coraggiosi nell’affrontare le sofferenze e le speranze dell’umanità. Il loro contributo fu un grande aiuto alla nostra missione in Giappone e orientò il nostro studio e il nostro ministero sulla linea e la semplicità
del Vangelo.

(a cura di Lorenzo Prezzi, su Testimoni 8 del 2012)