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frcamilomaccise_025 aprile 2012

Ricordando la figura di p.Camillo Maccise, OCD

“Ci ritroveremo tutti lassù”

 

 

«Quando, poco più di un anno fa, mi hanno scoperto il tumore, la prima cosa che ho fatto è stata di ringraziare Dio per i 73 anni di salute che mi aveva concesso e quindi mi sono messo nelle sue mani, sapendo che la cosa migliore, è lasciarci guidare dal Signore».

Padre Camillo Maccise era nato a Toluca, Messico, l’8 giugno 1937. Entrato nel noviziato della Provincia carmelitana del Messico, a Queretaro, aveva emesso la professione il 29 ottobre 1955. Dopo aver frequentato gli studi di filosofia nel collegio di San Gioacchino a città del Messico, nel 1958 era stato mandato a Roma alla Facoltà teologica Teresianum, dove ottenne la Licenza in teologia. Il 29 aprile 1962 ricevette l’ordinazione sacerdotale.
Rientrato in Messico, gli fu affidata la direzione del seminario minore della Provincia dove insegnò anche teologia dogmatica. Dal 1968 al 1971 studiò prima a Gerusalemme e poi presso l’Istituto Biblico di Roma, conseguendo la Licenza in Sacra Scrittura. Nel 1988 ottenne il dottorato in teologia presso l’Università Saveriana di Bogotà. Fu professore di Sacra Scrittura e di Spiritualità nell’Università iberoamericana di Città del Messico, nell’Istituto Pastorale del Consiglio dei Vescovi dell’America Latina (CELAM) e in vari Centri di studio dell’America Latina e dell’Europa, compreso l’istituto di Spiritualità della Pontificia facoltà teologica del Teresianum di Roma.
Dal 1975 al 1978 fu nominato consigliere provinciale, e al termine di quel triennio divenne superiore provinciale, carica che ricopriva quando fu eletto Definitore Generale, dal 1978 al 1985, incaricato della penisola iberica, America Latina, Stati Uniti e Olanda. Fu vicepresidente della Confederazione dei Superiori religiosi del Messico e membro del gruppo dei teologi della CLAR (Conferenza latinoamericana dei Religiosi). Fece parte di una Comunità di inserimento a Città del Messico, prima di essere eletto Preposito Generale dell’Ordine carmelitano, il 10 aprile nel 1991, carica in cui fu rieletto per altri sei anni, il 10 aprile 1997. Dal 1994 fu presidente dell’Unione dei Superiori Generali USG). Fece parte anche del Pontificio Comitato per il Giubileo del 2000. Dal 2005 al 2008 fu eletto alla carica di provinciale del Messico.
Scrisse numerosi libri di contenuto biblico, di spiritualità e di vita religiosa, (tra cui anche Cento temi di vita consacrata edito in Italia dalle edizioni dehoniane, nel 2007). Collaborò al Nuovo Dizionario di Spiritualità (Paoline, Madrid, 1983) e al Dizionario della Vita Religiosa (Ed. Claretiane, Madrid, 1989). Scrisse anche per numerose riviste cattoliche dell’America e dell’Europa. La sua morte è avvenuta il 16 marzo 2012.

Padre Maccise racconta così la sua vita
«Faccio parte di una generazione che iniziò gli studi teologici negli anni immediatamente anteriori al concilio Vaticano II e li terminò, nella sua prima tappa accademica, durante la celebrazione del medesimo. Posso pertanto dire di essere testimone di una teologia molto tradizionale, del periodo di transizione e del policentrismo teologico successivo. D’altro lato, i miei studi accademici, dopo cinque anni di insegnamento e di attività pastorale, si sono orientati verso il campo biblico. Ho compiuto gli studi di specializzazione a Gerusalemme e a Roma. La mia attività di insegnamento si orientò, quasi fin dall’inizio verso la spiritualità nella sua prospettiva teologico-biblica e latinoamericana. Dal 1991 ho svolto il servizio di superiore generale dei carmelitani e ho avuto la possibilità di venire a contatto diretto con le più diverse situazioni socio-culturali ed ecclesiali. Da questa finestra così larga vedo il mio itinerario teologico centrato in modo particolare sulla spiritualità. Distinguo in esso con chiarezza varie epoche caratterizzate da modi diversi di fare teologia e posso già elaborare una sintesi serena e sufficientemente oggettiva del cammino percorso.

La teologia come riflessione sistematica e astratta
I primi anni dei miei studi teologici hanno avuto luogo nell’ambiente della Città Eterna dove l’Ordine (carmelitano) aveva una Facoltà teologica. Qui fui iniziato, dal 1958 al 1963, alla teologia neo-scolastica, propria di quel periodo della vita della Chiesa. Si trattava di una teologia basata sulla filosofia aristotelico-tomista. Teologia ben strutturata, ma lontana mille miglia dalla realtà, e aiutava ad acquisire una agilità mentale. Facilitava l’organizzazione del pensiero. Era una specie di ginnastica intellettuale che allenava a rispondere a tutte le obiezioni teoriche attraverso distinzioni e suddistinzioni. Un esempio di logica ferrea, e allo stesso tempo di distanza dalla vita concreta, era il trattato De Trinitate. Bisognava partire da una terminologia filosofica per costruirlo: essenza, natura, sostanza, ipostasi, persona, processione, relazione, proprietà, nozione, missione, appropriazione, circumsessione. Una volta definiti i concetti, cominciava la trafila dei numeri: una essenza, una natura, una sostanza,  tre ipostasi, tre persone, due processioni, quattro relazioni, quattro proprietà, cinque nozioni, due missioni. Terminando lo studio del trattato uno si domandava che utilità potesse avere per l’annuncio del Vangelo e per predicare ai semplici cristiani.
Altrettanto avveniva per la cristologia, centrata non nei vangeli ma sull’analisi filosofico-teologica riguardante la natura di Cristo, l’unione ipostatica, la causa dell’incarnazione. Non c’era in assoluto un approccio al Gesù della storia, via, verità e vita.
Ogni due mesi si teneva una solenne “difesa di una tesi”, in cui lo schema infallibile stava nel cominciare con la spiegazione dei concetti utilizzati, la demolizione in poche righe di coloro che erano considerati “avversari” della tesi, le prove della tesi per concentrarsi su una questione secondaria discussa. Le prove bibliche consistevano in frasi della Scrittura generalmente isolate dal loro contesto, seguivano poi le prove ricavate dai Padri della Chiesa e si terminava con argomenti teologici o filosofici. Il fiore all’occhiello della “difesa” stava nel rispondere alle sottili obiezioni presentate da due o tre studenti. L’abilità dell’espositore consisteva nel saper rispondere con distinzioni, sottodistinzioni e contro-distinzioni. Qualcuno dei compagni, di fronte alla solennità con cui si trattavano questi argomenti lontani dalla vita definiva “folclore medioevale” la celebrazione di questi atti accademici.
Altrettanto avveniva nell’approccio alla parola di Dio. Le introduzioni proposte nei libri biblici si limitavano a presentare le teorie circa l’ispirazione e l’epoca della loro composizione, oltre alle opinioni diverse riguardanti la composizione, la storicità e le questioni discusse dei diversi libri ispirati.
La teologia morale, da parte sua, fatta di casistica al margine della realtà, chiudeva le porte a un approccio pastorale ai problemi della gente. Erano curiosi anche i “casi di morale” mensili per cercare di applicare i principi a problemi che mai si sarebbero incontrati nella vita concreta.
La teologia spirituale, in genere, era elaborata a partire da varie dicotomie: materia-spirito, corpo-anima, contemplazione-azione, storia profana-storia sacra, individuo-società. Con queste premesse non era difficile scivolare verso lo spiritualismo.
Come ho detto prima, il modo tradizionale di fare teologia a partire da tesi, e pertanto in forma deduttiva, aiutava a compiere sforzi di organizzazione e di sintesi e a chiarire concetti, ma non teneva conto della vita concreta con i suoi problemi e le sfide che interpellavano.

Un certo malessere
Già in quegli anni (parlo dell’inizio del decennio degli anni sessanta) noi studenti, benché fossimo convinti che l’unica teologia possibile era quella che ci veniva trasmessa, cominciavamo ad avvertire un certo malessere e a percepire il distacco tra la vita e la teologia. Non so se fu coniata allora la definizione di teologo come una persona che risponde alle domande che nessuno fa, ma credo che lo descrivesse in modo appropriato.
Qualche professore cominciava a citare timidamente i nuovi teologi che apparivano all’orizzonte: K. Rahner, E. Schillebeeckx, H. De Lubac, Y. Congar e, con molta prudenza e per attaccare le sue riflessioni, si parlava di Th. De Chardin, i cui scritti noi studenti non potevamo leggere a causa di un monitum del sant’Ufficio di allora. In campo biblico spuntavano timidamente all’orizzonte alcuni libri di teologia e di spiritualità biblica che facevano proprio anche il frutto di biblisti protestanti. Nel campo della morale era considerato rivoluzionario il libro di B.Häring La legge di Cristo.
I documenti conciliari, con un linguaggio teologico più pastorale e vitale, cominciarono a sbriciolare i muri di una teologia deduttiva, di un approccio apologetico alla Bibbia e di una morale che non teneva conto né della psicologia umana né dell’influsso dei condizionamenti socio-culturali in certi punti. Nel campo ecumenico la preoccupazione di difendersi e di attaccare lasciò il posto a un’apertura al dialogo e alla ricerca di cammini di comunione.

Dalle nubi alla realtà
Terminati gli studi teologici con la licenza in teologia, nel 1963 ritornai in Messico. I miei superiori mi destinarono subito all’insegnamento nel nostro collegio filosofico-teologico. Bisognava insegnare in latino. D’altra parte, cominciai a dover combinare l’insegnamento con l’impegno pastorale. Questo fatto mi creava tensioni. Vedevo in questo lavoro un ostacolo nell’avere tempo sufficiente per la riflessione teologica. Avevo assimilato l’idea della incompatibilità tra le due cose. Tavola di salvezza erano per me gli Appunti che ci avevano offerto i professori a Roma. Erano frutto di anni di investigazione ed erano per di più in latino. L’unica preoccupazione consisteva, pertanto, nel rinfrescare la memoria e trasmettere la filosofia e la teologia perenni. Così esercitai l’insegnamento teologico per tre anni. La più grande preoccupazione era per me il dover preparare una omelia. Quando giungeva il momento di trasmettere alla gente semplice la buona novella del Vangelo, mi rendevo conto dell’inutilità di tutta la teologia che avevo studiato e che insegnavo. Il buon senso mi impediva di tradurre la predicazione in spiegazioni di tesi teologiche e, tuttavia, mi sentivo privo di esperienza e di capacità per dire le cose in altra maniera.
Un episodio che ho sempre considerato il punto di partenza, e che cambiò completamente il mio orizzonte teologico, fu l’aver potuto partecipare, alla metà del 1965, a un corso impartito da un’équipe pastorale latinoamericana. Si trattava di un gruppo itinerante di teologi e pastoralisti della Conferenza episcopale latinoamericana (CELAM) che aveva cominciato ad aprire strade di rinnovamento teologico e catechetico alla luce dei documenti conciliari. Devo confessare le difficoltà che provai nell’ammettere, al termine delle quasi due settimane, di dover cambiare il modo di mettere a fuoco la teologia e la pastorale. La formazione ricevuta mi portava ad assolutizzare gli insegnamenti ricevuti. Non potevo accettare come riflessione teologica il fatto di partire dai problemi della vita della gente, anche se mi sembrava una considerazione legittima. La teologia era per me esclusivamente una scienza deduttiva costruita con l’aiuto della filosofia perenne.
Il corso teologico-pastorale mi fece aprire gli occhi e scoprire la realtà della disumana povertà delle grandi masse. Davanti ad essa apparve la necessità di interrogare la rivelazione per vedere se aveva una parola che illuminasse i credenti e li orientasse a un impegno pratico. Senza avvertirlo in maniera cosciente, cominciavo a mettere in questione una teologia classica costruita sulle nuvole e lontana dai problemi dell’umanità. Dopo questo corso, la maggior parte degli Appunti dei miei professori andarono a ingrossare gli scaffali della biblioteca.

L’influsso della nuova teologia europea
Cominciai ad abbandonare la teologia neo-scolastica e ad avvicinarmi ai testi della nuova teologia europea. Il primo fu M. Schmaus, con il suo manuale di “Teologia Dogmatica” che timidamente cominciava a presentare una nuova metodologia teologica in cui si intrecciavano la Scrittura, i Padri della Chiesa, le esigenze del rinnovamento liturgico e il movimento biblico con i problemi del mondo europeo. Nel suo manuale c’era anche un’apertura all’ecumenismo.Altri autori europei presentavano una teologia in dialogo con la realtà che condusse a riflettere sulla teologia politica (J. B. Metz), la teologia della speranza (J. Moltmann), alla ricerca di un punto di incontro tra esegesi e dogmatica (R. Schnackenburg) e a un orientamento verso il futuro che porta all’impegno storico per aprire uno spazio al dono del Regno con forme nuove di giustizia (W. Pannenberg). Oltre a questi altri teologi ed esegeti aprivano nuovi orizzonti specialmente nella rivista teologica internazionale Concilium. La lettura e l’assimilazione di questi nuovi approcci teologici segnarono la mia evoluzione teologica, anche se ci misero del tempo per farsi spazio nel mio lavoro di docente. Cominciai a concentrarmi sul campo della teologia spirituale. Senza tuttavia sciogliermi dagli schemi assimilati nei miei studi teologici romani, nel 1967 pubblicai un manuale di spiritualità, incentrato sul mistero della Chiesa, La vita spirituale alla luce del concilio. Rileggendolo dopo alcuni anni scoprii in esso l’inquietudine per un nuovo genere di riflessione tuttavia ancora limitata dal bagaglio neo-scolastico della mia formazione accademica. Non era ancora sorta la teologia della liberazione né la Chiesa dell’America latina aveva lanciato il grido profetico di Medellin per interpellare le strutture ingiuste della società.

La specializzazione biblica e i principi della teologia della liberazione
Gli anni 1968-1971 furono fondamentali per il mio lavoro teologico. Per tre anni, prima a Gerusalemme e poi a Roma, ebbi la possibilità di una specializzazione nel campo biblico. Nel 1971 ottenni la licenza in Sacra Scrittura presso il pontificio Istituto Biblico della città eterna. I tre anni di lontananza dall’insegnamento in vista di una specializzazione biblica mi offrirono la opportunità di ripensare il mio itinerario teologico e di scoprire le grandi lacune di una teologia costruita al margine di una seria esegesi. Furono anni di grande ricchezza nell’approccio alla parola di Dio non solo in forma scientifica, ma anche esistenziale e pratica dal momento che potei conservare sia pure limitatamente un impegno pastorale. Le basi bibliche acquisite mi prepararono a quello che più tardi sarebbe stato il campo del mio servizio di insegnamento: l’esegesi e soprattutto la spiritualità biblica.
Avevo lasciato l’America latina alcuni giorni prima della celebrazione della seconda Assemblea generale dell’episcopato latinoamericano, celebrata a Medellin nel 1968. Tornando, nel 1971, trovai un cambiamento profondo nella Chiesa del continente. C’era una nuova coscienza della Chiesa come sacramento del regno, vale a dire, come segno e strumento del progetto di Dio nella storia. La preoccupazione per la liberazione integrale caratterizzava la pastorale e, nel campo teologico, dopo alcuni articoli e conferenze sul tema, G. Gutiérrez pubblicava la sua Teologia della liberazione (1971). In questo libro presentava la teologia come una riflessione critica sulla prassi alla luce della fede e sottolineava la necessità del contributo delle scienze sociali come strumento per conoscere meglio la realtà. A partire da questa prospettiva, indicava quale doveva essere il ruolo del cristiano nella prassi storica della liberazione e nella riflessione sulla salvezza come liberazione. Sottolineava l’unità della storia della salvezza alla luce del Vaticano II, che conduceva necessariamente a una escatologia che inizia nella storia e implica relazioni profonde tra fede e giustizia. La cristologia, l’ecclesiologia e la spiritualità, diceva, non possono prescindere da questa nuova coscienza ecclesiale. Questo primo sforzo di sistematizzazione della teologia della liberazione scatenò una serie di approfondimenti sulla metodologia di questo modo di fare teologia, sulla cristologia liberatrice, l’ecclesiologia, la pastorale e la spiritualità della liberazione. In seguito fu presentata la storia della Chiesa in America latina letta in chiave di liberazione. Letture, partecipazioni a incontri e congressi, dialoghi e discussioni mi aiutarono a maturare un modo di pensare più incarnato nel campo della spiritualità e ad accostare la parola di Dio a partire dalla vita e per la vita. Crebbe in me la convinzione, espressa da J. L. Segundo, che una teologia degna di essere presa in considerazione da una persona seria deve nascere non da un interesse scientifico e accademico, ma da un impegno umano pre-teologico a cambiare e migliorare il mondo.

Nell’équipe dei teologi della CLAR
Nel 1975, la Conferenza degli istituti religiosi del Messico (CIRM) mi presentò come possibile membro dell’équipe dei teologi della CLAR. Fui accolto e cominciai a partecipare alle riunioni semestrali in cui si cercava di ripensare e di rielaborare la teologia della vita religiosa in chiave latinoamericana: la sua dimensione profetica, il significato dei voti, la sua spiritualità. Il fatto di poter condividere prospettive e punti di vista con persone di grande qualità religiosa, spirituale e teologica rafforzò sempre più la mia convinzione della necessità di una sistematizzazione della spiritualità a partire dalla pastorale e dalla teologia dell’America latina. Furono anni molto fecondi che mi permisero, attraverso articoli, opuscoli e appunti per gli alunni, di delineare una spiritualità della liberazione che esponesse sistematicamente ciò che era già un’esperienza spirituale dei cristiani impegnati nei processi di evangelizzazione liberatrice e dei religiosi e religiose inseriti negli ambienti popolari. Cercai di aiutare a conoscere e comprendere l’esperienza dei cristiani dell’America latina come frutto della presenza e dell’azione dello Spirito che spinge il popolo di Dio a discernere nella storia i segni dei tempi e a scoprire in tutte le circostanze il piano di Dio e le sue interpellanze. Nei primi anni del decennio 1980 percorsi praticamente tutti i paesi dell’America latina per guidare seminari sulla spiritualità. Il termine “liberazione” cominciava a essere satanizzato e, per questa ragione, decidemmo di chiamare la riflessione sulla vita spirituale: “spiritualità dell’incarnazione” o “spiritualità latinoamericana”. In seguito la chiamammo anche “spiritualità dell’inserimento”, dal momento che già esisteva nelle comunità religiose inserite negli ambienti di emarginazione e nelle comunità ecclesiali di base, in cui vivevano questi elementi fondamentali della spiritualità cristiana con particolari sfumature.

Crescente convinzione della necessità di un policentrismo teologico
Dal 1979 al 1985 esercitai il ruolo di consigliere generale del Carmelo Teresiano. Questo mi permise di conoscere in maniera più esperienziale le diverse realtà da cui maturò la convinzione che bisognava passare da un monocentrismo a un policentrismo religioso, culturale e teologico. Il cambiamento del volto della Chiesa, soprattutto nel terzo mondo, e l’iniziale certezza della necessità di inculturare il vangelo imposero l’idea dell’unità nella pluriformità in molti aspetti della vita e della riflessione ecclesiale.
Il contatto con diversi ambienti socio-culturali ed ecclesiali mi condusse a relativizzare anche il pensiero teologico latinoamericano e ad accettare facilmente la possibilità di altre teologie, compresa la liberazione asiatica, europea e africana. All’interno di una base comune, le circostanze di ogni continente o religione esigevano delle sfumature particolari nel pensiero teologico e nella prassi pastorale.

Scoppiò in quegli anni la grande polemica sulla teologia della liberazione. Le controversie, le critiche e le opposizioni nei suoi riguardi cooperarono a correggere, discernere, approfondire e riaffermare il processo della sua rielaborazione. Si criticava il rapporto che la teologia della liberazione aveva con opzioni filosofiche e socio-politiche, il metodo di fare teologia impiegato da questa corrente, la sua insistenza sulla dimensione socio-politica dell’amore cristiano, l’attribuire il primo posto alla situazione e non al Vangelo. I teologi favorevoli alla liberazione cominciarono a essere perseguiti.
Fummo esclusi dalla preparazione e celebrazione della III Assemblea generale dell’episcopato latinoamericano, che si celebrò a Puebla nel gennaio del 1979. In tutti i modi, chiamati da alcuni vescovi, fummo presenti a Puebla e collaborammo con loro alla redazione di molti testi che lasciarono un’impronta nel Documento finale dell’assemblea.
Nel 1976 la Commissione teologica internazionale studiò il tema della Promozione umana e la salvezza cristiana. Nella dichiarazione finale essa riconobbe la teologia della liberazione e come profezia della Chiesa latinoamericana, facendo nello stesso tempo alcune osservazioni come la necessità di distinguere tra salvezza cristiana e promozione umana. Ciò nonostante, mantenne una posizione alquanto flessibile e chiese che si continuasse la ricerca in questo campo. In seguito le due istruzioni della Congregazione per la dottrina della fede, Libertatis nuntius (1984) e Libertatis conscientia (1986), malgrado le tensioni, le polemiche e gli attacchi che produssero, cooperarono a far comprendere meglio, ad approfondire certi aspetti e a correggere dei punti ambigui. In fondo c’era il problema di non accettare la diversità teologica, un metodo diverso di fare teologia e di continuare a pretendere di imporre una unità nell’uniformità nella riflessione sui dati della rivelazione.
Tutto questo mi aiutò a chiarire concetti, a rafforzare convinzioni e, allo stesso tempo, a tener conto dei punti deboli nello studio e nella presentazione della spiritualità latinoamericana. Ora, i cambiamenti che hanno avuto luogo negli ultimi anni hanno richiesto una revisione a fondo di alcune messe a fuoco della teologia della liberazione. Rimanendo valide certe intuizioni che rispondevano a un momento della storia del continente, era richiesta nell’attuale congiuntura una nuova analisi di fronte a una realtà nuova che costituisce sempre il punto di partenza nella teologia della liberazione. Allo stesso modo bisognava accettare la necessità di rivedere alcuni concetti teologici che illuminavano l’impegno di liberazione e riorientare la prassi di liberazione alla luce delle sfide presentate dalla globalizzazione e dal neoliberismo. Bisognava aprirsi a campi nuovi di analisi della realtà quali la dimensione religiosa, culturale e antropologica. La donna, l’ecologia, le culture dovevano anch’esse entrare non solo come tematiche nella teologia e spiritualità della liberazione, ma come soggetti attivi in grado di aprire nuovi orizzonti e di offrire nuove proposte.

Grandi linee di una spiritualità latinoamericana
Frutto di questo lungo processo di cambiamento di mentalità, della conversione teologica di contatto con la realtà multiforme, più ampia ancora negli ultimi dodici anni in cui sono stato superiore generale del Carmelo Teresiano, è stata la convinzione dell’esistenza di una spiritualità latinoamericana. In essa si vivono gli elementi di tutta l’autentica vita cristiana con uno stile e una forma diversa, in cui si accentuano alcuni aspetti e sono vissuti con sfumature proprie richiesti dal contesto socioculturale ed ecclesiale. Non si tratta certamente di messe a fuoco esclusive, dal momento che attualmente, in seguito alla comunicazione e all’interdipendenza, ci sono situazioni comuni in tutto il mondo.
Attraverso corsi e pubblicazioni ha potuto delineare ciò che considero caratteristico benché non esclusivo, come ho detto, della corrente di spiritualità prevalente oggi in America latina. Nella misura in cui è cresciuta qui la solidarietà con il mondo dei poveri, gli schemi tradizionali della spiritualità, vissuti con sicurezza e tranquillità, sono crollati. Tutto questo comportò una disarticolazione dolorosa dell’esperienza spirituale. Si avverte l’esigenza di un cammino spirituale che sappia rispondere alle domande di Dio che irrompe attraverso le circostanze nella vita dei credenti. Più che una rottura con la tradizione spirituale si tratta di una continuità e di una evoluzione».

Il suo commiato da questa vita
Pochi giorni prima di morire, padre Maccise ha lasciato in televideo questa sua ultima testimonianza, che è come il suo testamento spirituale:
«Cari fratelli e sorelle; in questo momento di grave malattia ho potuto sperimentare, come mai prima, che siamo veramente una famiglia: l’interessamento di tutti voi, le vostre preghiere, i sacrifici, i ricordi, i messaggi... tutto mi ha fatto sentire che veramente il Signore mi ha chiamato a un Ordine di fraternità, di amore, di comunione e di pace. Tutti noi siamo guidati da Dio nel cammino della vita e in essa sperimentiamo la sua presenza e la sua vicinanza. Egli ci conduce per mano per sentieri sconosciuti, come diceva la nostra sorella Edith Stein: “dove il Signore ci guida non lo sappiamo, sappiamo solo che egli ci guida”. “Perciò, aggiungeva, mettiamo la nostra mano nella mano del Signore e lasciamoci condurre da lui”.

Quando, poco più di un anno fa, mi hanno scoperto il tumore, la prima cosa che ho fatto è stata di ringraziare Dio per i 73 anni di salute che mi aveva concesso e quindi mi sono messo nelle sue mani. Un nostro religioso mi chiese se vivevo in una notte oscura questa prova che il Signore mi aveva mandato. Gli risposi... della notte oscura, niente. Piuttosto che avevo una specie di assenza di sentimenti e l’impressione di un vuoto, ma nella pace. Inoltre è cresciuta in me la convinzione che la cosa migliore, come diceva Edith Stein, è di lasciarci guidare dal Signore. “Le vie di Dio non sono le nostre vie, né i suoi pensieri sono i nostri pensieri», ma sono sempre «pensieri di misericordia e di fedeltà”.

Dai nostri santi ho imparato molte cose, e soprattutto dalla parola di Dio. La parola di Dio, che è Gesù Cristo, che mi ha guidato durante i 50 anni di sacerdozio. Non so tuttavia se potrò celebrarli in questo mondo, o già in cielo. Il 29 aprile si compiono i 50 anni della mia ordinazione sacerdotale. Ci sono dei testi biblici che esprimono la mia esperienza spirituale.: “Le vie di Dio non sono le nostre vie, né i suoi pensieri sono i nostri pensieri”. “Tutte le vie di Dio sono misericordia e fedeltà”. “Tutto coopera al bene di coloro che amano Dio”, anche i peccati. “Se uno si sente stanco, venga a me e io gli darò sollievo”. Cristo non ci toglie la croce, ma ci aiuta a portarla. “Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione! Egli ci consola in ogni nostra tribolazione, perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in ogni genere di afflizione con la consolazione con cui noi stessi siamo consolati da Dio”.“Getta nel Signore il tuo affanno ed egli ti darà sostegno”. “In Dio viviamo, ci muoviamo ed esistiamo”.

Dai nostri santi ho imparato tante cose: dalla nostra Santa Madre (Teresa d’Ávila) ho imparato: «Niente ti turbi, niente ti spaventi»; dalla stessa Madre ho imparato ciò che dice nel libro della sua vita, al capitolo 19: «Dio non si stanca di dare, noi non stanchiamoci di ricevere». Dal nostro Padre san Giovanni della Croce ho imparato il cammino della fede e che “lo sguardo di Dio verso di noi è amore» e «dove non c’è amore, metti amore e nascerà amore”. Da Teresa di Lisieux ho imparato: “Più sarai tra i poveri e più il Signore ti amerà”. Da Edith Stein ho imparato ciò che significa la ricerca della verità e ciò che non era nei miei piani era nei piani di Dio. Al termine della mia vita, ciò che ho sperimentato è stata soprattutto la gratuità di Dio: gratuità di Dio che mi ha dato la vita; gratuità di Dio che mi ha fatto nascere in una famiglia molto buona, una famiglia integrata, una famiglia unita; gratuità di Dio che mi ha chiamato al Carmelo; gratuità di Dio che mi ha guidato nel cammino della mia preparazione all’ordinazione sacerdotale e alla vita religiosa, gratuità di Dio adesso nella mia malattia, in cui fin i più piccoli dettagli sono pensati da lui ed egli va ad essi incontro. Fratelli e sorelle: poi arriva certamente il momento in cui ci troveremo tutti lassù nel Carmelo del cielo, nel frattempo continuiamo a camminare e a mettere al servizio di Dio e della Chiesa questo carisma così stupendo che ci hanno dato santa Teresa di Gesù e san Giovanni della
Croce».

(da Testimoni 7 del 2012)