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dossier_01Marzo 2012

Intervista al priore generale dei camaldolesi, dom Alessandro Barban

Mille anni come un giorno solo

Il 7 febbraio sono iniziati i festeggiamenti del millennio.
L’abate generale ricorda il carisma di fondazione, il senso del monachesimo oggi, i maestri, le sfide della Chiesa. «Il Vaticano II ha iniziato un processo di riforma della Chiesa il cui progetto è rimasto inconcluso». I camaldolesi festeggiano il millennio dell’Eremo di Camaldoli.

 

 

Quali valori spirituali consentono una così lunga traversata storica? La storia spaventa o aiuta?
«Nella Lettera che ho inviato ai miei confratelli di Camaldoli e della nostra Congregazione camaldolese in occasione del millennio del s. Eremo richiamo l’attenzione sui valori spirituali che s. Romualdo ci ha lasciato e che sono stati trasmessi in tutte le nostre comunità nel corso dei secoli: il primato di Dio e del suo amore per tutti gli uomini; la rilevanza della vita monastica nella sua forma eremitica con la sua piccola regola e il suo rapporto intrinseco con il cenobio e con l’evangelium paganorum, diremo oggi con la presenza cristiana nella storia; il privilegium amoris, cioè il nostro essere in relazione con l’altro/a nella fraternità e nella amicizia; la centralità della preghiera prima di ogni fare e di ogni servizio. Questi valori che Romualdo ha declinato con originalità personale sono stati poi vissuti con altrettanta originalità e libertà dai camaldolesi nel corso di questi dieci secoli. Da questo punto di vista, la storia non spaventa affatto ma invece aiuta a vedere e a comprendere quanto possa essere significativo il dono della vita monastica nella storia della chiesa e degli uomini. Ma, sempre nella mia lettera, ricordavo il testo di 2Pt 3,8 che per “il Signore mille anni sono come un giorno solo”. Diventano un giorno solo, quando Dio è cacciato fuori dalla storia per la violenza, l’ingiustizia e l’iniquità che vi sono praticate dagli uomini. Allora noi monaci, che volevamo fuggire il mondo o salire la scala dell’incontro con Dio, rimaniamo nella storia senza perdere la speranza escatologica per annunziarvi la presenza nascosta di Dio e quanto Dio ami l’umanità tutta senza alcuna distinzione o separazione. Allora il tempo si riapre…».

Stabilitas e riforma
– Come combinare la fissità di alcuni elementi con i cambiamenti necessari?
«La vita monastica – anche quella camaldolese – rischia di interpretare la stabilitas nel senso della fissità o dell’immobilismo di architetture o di pratiche abitudinarie di esistenza quotidiana. Tende a una introversione giustificata dalla ricerca di solitudine e di silenzio. Ma è lo Spirito Santo ricevuto nel battesimo, esperimentato come novità di Dio tramite la lectio divina, riconosciuto nel dono del concilio Vaticano II che ha cambiato il volto della Chiesa di questi ultimi 50 anni – evidente nella liturgia celebrata con gli ospiti e nella condivisione con loro di tanti aspetti della nostra ricerca spirituale –; è lo Spirito che ci sposta e ci disloca, ci porta alla estroversione e a rimodulare il nostro carisma attraverso i necessari cambiamenti. Ma per noi è anche il discorso di incarnazione nell’oggi e nell’incontro con l’altro/a che ci ha abituati a quella giusta flessibilità di saper coniugare insieme secondo le necessità la dimensione cenobitica della nostra vita con quella eremitica o con il servizio dell’ospitalità, ministero che ritengo fondamentale nel contesto attuale».

Per alcuni la sua elezione a priore generale di Camaldoli significa la fine dell’era Calati. In che senso?
«Sinceramente vorrei dire che l’era di dom Benedetto Calati, che ha segnato significativamente gli anni del postconcilio di Camaldoli, è terminata con la sua morte avvenuta nel novembre del 2000. Con lui ritengo sia finito anche il ‘900 camaldolese. È un secolo questo che per noi è stato travagliato fino al Vaticano II: dentro la comunità c’erano tensioni tra i fratelli che non volevano cambiare niente e avevano un’idea rigida e chiusa della vita eremitica impauriti di tutto ciò che avveniva nella storia e nella cultura (si pensi che ancora negli anni ’50 si seguivano le costituzioni del 1600), e coloro invece che comprendevano che erano necessarie nuove disposizioni e orientamenti per assicurare un futuro alla comunità. Non dimentichiamo poi la presenza stimolante di mons. G. B. Montini, che ha accompagnato il nostro cammino sia prima della Guerra mondiale negli anni ’30, sia dopo il 1945 facendo di Camaldoli un punto di riferimento del cattolicesimo democratico (FUCI, Codice di Camaldoli ecc.). Il concilio poi conferì motivazioni teologiche e spirituali per inverare le spinte di cambiamento e di apertura, che Benedetto Calati caratterizzò con il suo genio monastico. Egli teneva insieme diversi filoni e per questo il suo discorso risultava ricco e a volte innovativo: quello dei padri, soprattutto l’insegnamento di Gregorio Magno, quello del Vaticano II, e quello di un confronto con la modernità. Non credo che la mia nomina a priore generale significhi la fine dell’era Calati. Quella, ripeto, si è conclusa da sola con la sua morte dieci anni fa. E la maggioranza di noi non si è trovata orfana. La grandezza di un maestro consiste proprio in questo: che non lascia dei discepoli spaesati e confusi senza una guida, ma delle persone preparate e libere a intraprendere il proprio cammino. Credo, invece, che la mia elezione si ponga all’insegna di aprire una nuova fase all’inizio di questo nuovo secolo. Ma è ancora presto per comprendere di cosa si tratti. Mi sento come un direttore d’orchestra: dobbiamo trovare l’accordatura e permettere che ognuno possa essere e suonare se stesso come una parte di un tutto sinfonico. Mentre la partitura e la musica ci vengono date da Dio stesso».

Calati e la recezione conciliare
Guardando ai 50 anni dal Vaticano II, quali sono stati i punti di maggiore impegno per i camaldolesi?
«Mi piace che ritorniamo a parlare al plurale. Le personalità ricche come quelle di dom Benedetto non fanno tutto da sole. Benedetto aveva dietro una comunità che lo sosteneva e lo incoraggiava. Pertanto, i punti di maggior impegno dei camaldolesi negli ultimi 50 anni, quelli del post-concilio, sono stati vissuti e proposti dalla maggioranza della comunità. Ne potremo ricordare qualcuno: far ripartire la ricerca spirituale dalla Sacra Scrittura e dalla lectio divina, celebrare il rito liturgico come comunità monastica aperta ai laici uomini e donne che passavano per Camaldoli o vi venivano per le settimane organizzate, apertura ecumenica, la trasmissione degli insegnamenti e delle prospettive del Vaticano II, rinnovamento della chiesa e della vita monastica ecc.».

Libertà religiosa, riforma liturgica, ecumenismo, dialogo interreligioso, dialogo con i non credenti, testimonianza della fede, comunione nella Chiesa ecc.: in quale ordine li metterebbe? Quali sono i pericoli maggiori per la Chiesa di oggi?
«Partirei dall’ecumenismo tra le Chiese cristiane, il dialogo interreligioso, l’incontro con gli uomini e le donne di oggi in ricerca, fedeltà alla riforma liturgica, ripensamento teologico del concetto di natura e di alcuni precetti morali, comunione nella Chiesa e ripensamento della presenza dei movimenti ecclesiali, il rilancio della vita parrocchiale e l’evangelizzazione, ecc. I temi in fondo si richiamano e si intersecano inevitabilmente. Per la seconda domanda, dobbiamo dire senza ipocrisie che il Vaticano II ha iniziato un processo di riforma della Chiesa il cui progetto è rimasto inconcluso. Per alcuni si era già fatto molto, personalmente credo non si poteva fare di più a quei tempi, e alla fine molti si erano illusi che ci sarebbe stata una seconda fase. C’era chi sognava una primavera della Chiesa, chi riteneva che fosse il post-concilio la seconda fase del concilio stesso, chi annunciava da lì a pochi decenni un altro concilio: il Vaticano III. Chi conosce un po’ la storia della Chiesa sa che dopo un concilio della portata del Vaticano II si dà un lungo periodo di ricezione che di solito presenta poche spinte innovative, mentre emergono le volontà di consolidamento o di restaurazione. Per cui noi oggi – al di là dell’ermeneutica della continuità o della discontinuità – siamo di fronte a un bivio molto serio. Da una parte comprendere a fondo cosa è in atto nella storia degli uomini e dei popoli – e non basta più guardare a ciò che avviene nella nostra Europa – dall’altra, continua a emergere la questione di come continuare il processo di rinnovamento della Chiesa. È un tema questo che diventerà sempre più impellente. Mi pare che gli occhi della Chiesa soffrano di cataratta, e siamo impediti di vedere... Questa cecità è il pericolo maggiore per la Chiesa di oggi».

Che cosa spinge oggi un giovane a farsi monaco? Cosa lo respinge?
«I giovani guardano con molto interesse alla Chiesa e agli ordini religiosi. Spero poi che non rimangano delusi… Essi cercano una fede vera, un impegno serio. Soprattutto domandano di compiere un reale cammino spirituale. Il problema più urgente non è quello di avere delle vocazioni. Certo non abbiamo più i numeri di solo dieci o vent’anni fa. Ma la questione vera consiste in altro, a mio avviso: fermare l’emorragia di quelli che dopo dieci o quindici anni lasciano i nostri istituti. E spesso lo fanno per un senso di vuoto che è sopraggiunto, il venir meno di motivazioni fondanti. Oggi un giovane è spinto dalla ricerca di ordine spirituale a guardare alla vita monastica. Non cerca ascesi o penitenza, ma l’esperienza concreta di un’illuminazione personale che si traduca in preghiera, in maturazione personale, in conoscenza e in servizio. Lo respinge, invece, l’ottusità e la grettezza, lo sbattere contro pensieri o posizioni rigide, e il percepire la mancanza di sentimenti umani di vicinanza, di ascolto, di fraternità. Per loro c’è una reciprocità necessaria tra umanità, che si dispiega nel quotidiano, e rivelazione di Dio come si dà nella proclamazione del Vangelo».

Il ruolo delle monache e delle donne
Cosa dice il monachesimo femminile a quello maschile? Cosa dicono le chiese locali ai monasteri?
«Dobbiamo renderci conto che in questi ultimi vent’anni le donne hanno segnato nella società e nella Chiesa una differenza di presenza rispetto al passato. Le donne apportano con il loro genere una diversa sensibilità, e richiamano l’importanza di valori come la cura, lo sguardo, l’attesa, la speranza, la flessibilità, la compassione. Hanno immesso un diverso linguaggio e un cambiamento nel modo di pensare tanti aspetti della vita e delle relazioni umane. Anche il monachesimo femminile sta mutando. Ci sono monasteri che stanno chiudendo perché non sono riusciti a intercettare le giovani di oggi, ma altri stanno vivendo un interessante ringiovanimento. Da qui sta già nascendo un nuovo rapporto tra monachesimo femminile e maschile, non più di soggezione o di sudditanza, ma di condivisione. Le monache vogliono scambiare con noi la loro esperienza monastica, comunicarci la significatività femminile della loro ricerca di Dio, della loro lectio divina, preghiera ecc. Invece, mi pare che vi sia un ritardo nell’incontro tra chiesa locale e monasteri. A volte siamo intesi come case di preghiera o luoghi dove si può fare qualche ritiro. Tra Camaldoli e chiesa aretina i rapporti sono stati a fasi alterne: a volte di maggior collaborazione e attenzione/aiuto reciproco, altre volte di indifferenza o anche di incomprensione. È una storia di mille anni ormai: dovranno essere gli storici a ricostruirla e a interpretarla».

Quali sono stati i suoi maestri? Che cosa ha imparato dagli ospiti?
«Mio padre senz’altro, come maestro di vita. All’Università di Bologna, dove mi sono laureato in storia: O. Capitani, P. Prodi e E. Collotti. Dom Benedetto Calati per quanto riguarda la vita monastica. P. Gh. Lafont, p. E. Salman al pontificio Ateneo sant’Anselmo, poi p. Dupuis alla pontificia Università Gregoriana. Per quanto riguarda la Sacra Scrittura ho imparato molto da p. Dupont, p. I. De la Pottery, G. Barbaglio. Li ho incontrati tante volte sia qui a Camaldoli, sia a san Gregorio a Roma. Devo ricordare anche A. Rizzi e C. Molari. Per la filosofia direi senz’altro U. Perone, M. Cacciari, C. De Monticelli. Per il dialogo interreligioso e interculturale ho conosciuto p. B. Griffiths, che essendo diventato monaco camaldolese negli ultimi anni della sua vita era più facile incontrare quando è venuto qui a Camaldoli e anche a New Camaldoli in California dove sono stato per un anno. Ho letto quasi tutti i suoi libri, come tanti di R. Panikkar. Devo molto a tutti questi maestri e sono loro molto riconoscente. agli ospiti ho imparato la laicità. Essa è sempre un incontro dinamico, e direi che è ancora una scuola aperta che non termina mai».

Monachesimo e vita religiosa attiva come si «guardano », come si aiutano?
«Diversi anni fa rimasi personalmente un po’ interdetto nel leggere la tripartizione della vita religiosa come veniva indicata nel testo Vita consecrata di papa Giovanni Paolo II all’indomani del sinodo sulla stessa vita consacrata. Al primo posto venivano ricordati gli istituti contemplativi (certosini, monasteri di clausura ecc.), poi quelli di vita apostolica, e infine le famiglie monastiche, che avendo il motto Ora et Labora, erano contemplativi e attivi allo stesso tempo. Ero rimasto stupito da questa  tripartizione, non solo per l’impianto teologico che si offriva, che mi sembrava abbastanza datato rispetto a istanze più recenti di teologia della vita consacrata, ma soprattutto perché si presentava in modo del tutto insufficiente la realtà della vita monastica. Mi dispiaceva constatare questo, quando lo stesso Giovanni Paolo II nel testo Orientale lumen aveva offerto un’altra lettura teologica  e spirituale del monachesimo, sia nella sua tradizione orientale sia in quella latina: una lettura molto ricca e ben approfondita facendone comprendere tutta la sua linfa vitale. Non vorrei che ci fosse una specie di strabismo: se si parla alle Chiese orientali allora si fa l’elogio del monachesimo, ma quando il discorso si focalizza all’interno della nostra Chiesa si assiste a una relativizzazione della vita monastica. A mio parere, il discorso sul monachesimo non è ben focalizzato nella Vita consacrata e questo ha poi ricadute su tutto il resto del documento. Il fatto che Benedetto XVI abbia richiamato in più di un suo intervento il fondamento del monachesimo per la vita ecclesiale non solo ci onora, ma potrebbe risultare ispiratore del nuovo impegno di evangelizzazione che la Chiesa vuole assumere come suo primario compito nel nostro tempo. Inoltre, ritengo che la divisione tra vita contemplativa e vita attiva sia da superare. La vita religiosa deve essere ricollocata dentro l’alveo della vita cristiana tout court, partendo a riflettere dal battesimo e dai carismi dello Spirito Santo, e comprendendo che la vita contemplativa non è un dono speciale per una nicchia di cristiani, ma il termine della maturità spirituale della nostra fede».

Nel mondo
La presenza di monasteri in Africa, India e Brasile ha cambiato Camaldoli?
«Direi che ha arricchito la sua realtà e questo si vede in modo evidente quando siamo riuniti in capitolo generale, perché abbiamo la gioia di ritrovarci da più parti del mondo. Io credo che il dono della Pentecoste si rinnova e continua nella Chiesa attraverso le epoche. Come tra il 1300 e il 1500 si è assistito in Italia a una espansione della nostra congregazione, qualcosa di analogo sta avvenendo negli ultimi decenni, ma nei diversi continenti. Il piccolo seme camaldolese è caduto in terre diverse. Devo però precisare due aspetti. Il primo: non siamo andati in questi continenti per cercare nuove vocazioni per aiutare le nostre case storiche qui in Italia. Coloro che hanno ricevuto la formazione qui a Camaldoli sono ritornati nei loro paesi di origine e nelle nostre comunità là presenti. Il secondo: è stato un processo che si è dato in diversi momenti e al quale forse non eravamo del tutto preparati. Le difficoltà incontrate hanno fatto sorgere anche delle posizioni diverse al nostro interno. Alla fine degli anni ’50 si è andati negli USA, sollecitati dagli inviti che ci venivano da Thomas Merton, e così è sorto l’eremo di New Camaldoli a Big Sur, in California. Poi a metà degli anni ’80 si è deciso di ritornare in Brasile dove si era conclusa all’inizio del ’900 la nostra prima presenza. Alla fine degli anni ’80 p. B. Griffiths decide di farsi camaldolese e ci dona il suo ashram in India. Poi la fondazione in Tanzania di pochi anni fa. Adesso stiamo guardando alla Cina. Non so se il Signore ci concederà altri mille anni, ma sono sicuro che sta preparando qualcosa di nuovo sia per noi camaldolesi, per la chiesa nel suo insieme, sia per il mondo. Vegliamo e stiamo pronti…».

(Lorenzo Prezzi, su Testimoni 4 del 2012)