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giovani_frati_chitarraMarzo 2012

Intervista a Braz de Aviz, prefetto della CIVCSVA

La Vita consacrata rinascerà se ci sarà vita vera

La globalizzazione pone nuove sfide ai consacrati che sono tenuti a rispondere con una maggiore fedeltà al Vangelo. Più comunione, più collaborazione, più disponibilità a condividere beni ed energie tra diversi istituti religiosi e società apostoliche per superare momenti di crisi e testimoniare concretamente al mondo i consigli evangelici. È quanto chiede l’arcivescovo Joâo Braz de Aviz, prefetto della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica, in questa intervista rilasciata all’Osservatore Romano in occasione della Giornata mondiale della vita consacrata, del 2 febbraio, festa della Presentazione del Signore.

In che modo questa Giornata, istituita da quindici anni, è di sprone alle religiose e ai religiosi?
È una cosa molto bella avere una giornata in cui la Chiesa pone l’attenzione su questa vocazione così speciale nel popolo di Dio. Nella vita consacrata, nell’esperienza degli eremiti e dei monaci, nei vari istituti e nelle società di vita apostolica troviamo una risposta molto particolare alla chiamata del  Signore. Questa vocazione ha sempre avuto una grande importanza nella Chiesa, soprattutto perché annunzia dei valori che sono già presenti, ma che sono anche futuri, come il celibato e la verginità. In questo senso, allora sono contentissimo di vedere che continua questa tradizione di celebrare la giornata nel giorno in cui si ricorda la Madonna che presenta Gesù al tempio. Questo è molto bello, perché la Madonna è un po’ la sintesi di tutte le vocazioni.

Di fronte alla riduzione del numero di consacrati e consacrate, ci si orienta a rispondere con una maggior qualità evangelica. È la risposta giusta alla crisi di vocazioni?
Penso sia una delle direzioni molto preziose. Certo la riduzione dei consacrati e delle consacrate è un fenomeno tipicamente dell’Europa, dove c’è un’accentuazione maggiore. Lo riscontriamo anche negli Stati Uniti, in Canada e in Australia e un poco in America Latina, dove si verifica in parte questo calo. Ultimamente, abbiamo ricevuto un rapporto dei vescovi della Francia che ci ha fatto un po’ soffrire. In dieci anni le suore in Francia sono calate da 36.000 a 6.000. Sicuramente questo è un fenomeno da osservare più da vicino. Abbiamo anche sentito dai vescovi dell’Australia che quasi non si percepisce più la presenza e l’importanza dei religiosi. Abbiamo dialogato con loro su questo, perché ci sembrava che occorresse, al contrario, maggiore attenzione. Ci sono nazioni, invece, dove c’è una crescita enorme. Penso all’India, alla Corea e ad altri paesi d’Oriente, nei quali il numero dei consacrati è in aumento. Anche in Africa ci sono tantissime vocazioni, che devono essere ben vagliate per comprenderne le motivazioni profonde. Notiamo poi che nei luoghi dove c’è una maggiore qualità di vita evangelica, proprio lì comincia una nuova sensibilità. I giovani credono in questo rapporto più profondo con il Signore. Mi sembra – è una constatazione personale – che una delle questioni basilari è che i rapporti interpersonali sono malati. Non sappiamo rapportarci, né come autorità e obbedienza, né come fraternità. Tutto ciò provoca un male molto grande, perché questa solitudine, che nel mondo è individualismo, nella comunità può diventare angoscia e non risolve il problema interiore. Non a caso, molti consacrati e consacrate escono dagli istituti non perché non sentano la vocazione, ma perché non si sentono più felici nella comunità. È un fenomeno che desta attenzione, perché in un certo senso è un po’ nuovo, essendo legato alla globalizzazione e alla ricerca della felicità umana. E perché viene fuori? Perché la maggior qualità evangelica va di pari passo all’attenzione a questo nuovo momento della storia umana.

È ancora importante la formazione per diventare religiosi e religiose credibili nel mondo globalizzato?
Questo è uno dei punti  più importanti. Le congregazioni e gli ordini che si interessano di avere formatori ben formati e investono energie in questo ambito, stanno portando avanti un lavoro che dà molti frutti. Bisogna fare attenzione, però, che non diventi una formazione solo disciplinare e intellettuale, pur necessaria, ma che sia condotta sul modello dei discepoli e delle discepole di Gesù. Questo è il punto critico, perché essere discepolo è un cammino di conversione e deve riguardare e durare tutta la vita. Manca anche nei formatori la capacità di essere corpo: non perché non si sentono identificati, ma perché nel concreto della vita si è spesso focalizzati sulla propria persona e sulle proprie idee. Si dovrebbe invece partire da qualche cosa che è comune, dal Vangelo. Si deve adeguare la formazione al Vangelo. Non si tratta principalmente di favorire virtù che mi spingano a essere capace di dominare la mia volontà, quanto di consegnarsi al Signore e lasciarsi guidare da lui, perché crediamo nel suo amore.

Cosa distingue l’impegno di tanti consacrati dai volontari di organizzazioni a scopi umanitari che si dedicano ai più poveri tra i poveri, soprattutto in zone di guerra e di pericolo?
Oggi noi dobbiamo avere una coscienza dei valori degli uomini e delle donne che lavorano in varie parti del mondo, in modo che, se essi coincidono con i nostri, possiamo lavorare insieme. Non si tratta di sminuire l’impegno dei volontari ispirati da scopi umanitari, che svolgono un grandissimo lavoro. La differenza è che noi vi aggiungiamo una dimensione decisiva, che è quella della fede. Noi non lavoriamo solo a scopi umanitari. C’è anche questo, ma il punto che definisce veramente il nostro intervento è la fede. Chi servo io? Servo Cristo nell’altro. Stabilisco un rapporto con Dio negli altri. Questa è una cosa diversa: dà il sigillo a quello che l’uomo e la donna di fede possono donare agli altri.

La vita all’insegna della povertà volontaria dei consacrati è recepita con sufficiente chiarezza come contributo a superare nella società uno stile di vita consumistico?
Molte volte questa povertà volontaria si manifesta nella persona. Si nota che individualmente i religiosi non possiedono niente, però l’istituzione non dà sempre la stessa testimonianza. Non è che siamo contro i beni o diciamo che la Chiesa non possa avere tutto ciò di cui ha bisogno. Ma la domanda è un’altra: perché non circolano? Mettiamo il caso di una congregazione che abbia in banca una somma consistente, in vista di una maggiore sicurezza per la vecchiaia dei suoi membri. È questa la finalità? Quei soldi non potrebbero servire a un altro istituto? A un pezzo di chiesa sofferente che ha bisogno? Perché non sappiamo dire che mettiamo i nostri averi a disposizione di tanti altri? Notiamo che non sempre c’è questa sensibilità o questa disponibilità a far circolare i beni. E ciò, invece, aiuterebbe tanto e potremmo soccorrere situazioni molto difficili, divenendo anche più liberi da tutto quello che abbiamo. Alle volte ho l’impressione che manchi un senso profondo della Provvidenza di Dio. Siamo entrati un po’ in un’ottica consumistica. Assisto anche alle volte a divisioni a causa dei beni e questo indica che lo spirito non è corretto. C’è una figura nuova che sta prendendo corpo in Australia, in Canada e negli Stati Uniti d’America, dove molti religiosi si stanno organizzando in “corporazioni”. Si tratta di un’entità nuova, che accomuna membri di vari ordini o opere dello stesso ordine per una maggiore sicurezza ed efficacia economica. Come Congregazione stiamo seguendo questa realtà, ma ancora non sappiamo bene come si evolverà, perché è una cosa nuova.

L’invecchiamento – soprattutto in occidente – di suore e religiosi pone problemi di prospettiva. In che modo si stanno affrontando?
È un fenomeno che riguarda soprattutto l’Europa e i paesi più ricchi. Alcune congregazioni vedono gli anziani come una difficoltà, come un peso, e li separano in un’altra struttura dove essi attendono la morte. Ricevono le migliori cure possibili con personale medico specializzato, ma non c’è più la famiglia, realizzata attraverso la vicinanza del consacrato o della consacrata giovani. L’anziano non è visto più come una fonte di saggezza e muore di solitudine, perché vede davanti a sé la morte e Dio ma non vede la comunità. Questo è un fenomeno molto brutto. Come è bello vedere persone anziane che vivono nella comunità. Si vede l’anziano ben inserito che vive bene fino alla fine; quando invece è separato riceve tutto ma non ha più senso. Ho visto che tra religiosi si parla dell’ars moriendi, dell’arte di morire, ma non ci si riferisce all’uomo vecchio del Vangelo, bensì alla morte di un carisma. Ci si prepara per quando un carisma non ci sarà più. Ma bisogna avere fiducia nell’azione di Dio. Le racconto un episodio. Sono andato a visitare i padri mariani dell’Immacolata Concezione, fondati in Polonia nel XVII secolo. Per circostanze storiche si sono sviluppati moltissimo, ma in tutti i paesi dove erano presenti c’è stata una persecuzione o la distruzione delle loro case. Alla fine ne era rimasto uno solo. Due anni prima che morisse, tre persone hanno conosciuto la testimonianza di quest’uomo. E hanno chiesto di entrare nell’ordine. Hanno emesso i voti. Uno di loro era avvocato, poi è diventato vescovo. Adesso la congregazione è rifiorita. Questa è la visione di Dio. Non è un calcolo che noi facciamo. Mi dispiace moltissimo sentir dire, anche da alcuni vescovi, che certi carismi sono passati. Non è così, la parola di Dio non passa. Passa se non è testimoniata. Bisogna riprendere questa fiducia nell’azione di Dio. Vedo che alcune congregazioni sono in crisi. Come fare? Se ci sarà una vita vera rinasceranno, ma occorre avere fiducia.

Dal 4 al 14 febbraio a Kampala si svolgerà la II Assemblea della conferenza dei superiori maggiori di Africa e Madagascar. Quale contributo possono dare i consacrati alle sfide sociali e religiose del continente?
Sono felice di partire per l’Uganda per partecipare all’incontro. All’assemblea parteciperanno circa duemila superiori provenienti da tutta l’Africa. Vado con il desiderio enorme di ascoltare questa realtà. Penso sia importante tornare ai propri carismi, alla fedeltà ai doni ricevuti. Se non c’è questo, anche le opere diventano difficili. Noi sappiamo il ruolo che hanno avuto e hanno oggi i consacrati in Africa. Vediamo quanto hanno fatto e fanno ancora ogni giorno per la Chiesa. I consacrati che vivono la loro vita per Dio, trovano Dio nel rapporto di amore con le persone negli ospedali, nelle scuole, negli orfanotrofi. Essi sono un gioiello della Chiesa. Sto leggendo il documento dell’ultimo Sinodo dei vescovi per l’Africa e noto veramente come la Chiesa ami quel continente e come i pastori abbiano saputo darne una visione molto concreta, riconoscendo il ruolo che hanno i consacrati in quel contesto sociale. Parto volentieri, perché il papa dice che dobbiamo sempre di più amare e capire l’Africa, e averla nel cuore.

(Nicola Gori, su Testimoni 4 del 2012)