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Il-Vino-di-Cana_imagefullMarzo 2012

Bisogna dare alla VR nuova forma ed espressione di vita evangelica in dimensione appellante.
Decisiva perciò è la vita religiosa stessa e non la sua teologia

Occorrono persone dal vino nuovo

In riferimento alla VR, dire anima profetica non è portare l’attenzione a una parte di essa ma al “tutto”, per il fatto che la malattia dell’anima, prima o poi, si riverbera nel “corpo”. Di questo siamo oggi vittime impotenti. Attori di un modello di vita discepolare che, in quanto a forma espressiva, non aggancia più la sensibilità dell’uomo moderno e in particolare l’interesse e la passione dei giovani in cerca di come impegnare la vita. La consapevolezza dell’attuale situazione potrebbe, però, rivelarsi una difficile ma reale opportunità per riformulare il senso della vita discepolare dei Religiosi/e nel quadro di una cultura post-cristiana. Sì, proprio in questo tempo, in cui la Vita Religiosa fatica a dare un’immagine positiva di sé e della propria missione, sono presenti i segni preziosi e anticipatori di un futuro diverso.

In che cosa consiste la profezia?
Profezia non è innanzitutto annuncio di ciò che sarà, ma “notizia” evocatrice atta a suscitare la nostalgia di “altro”, del totalmente Altro; notizia che indica ciò che del Regno è qui presente e ciò che non è arrivato alla sua pienezza. La profezia nella VR non ha il volto della paura ma quello della speranza, anticipatrice nell’oggi di vita eterna, cioè di quella vita che si vorrebbe non finisse mai. Allora non è soltanto una parola da annunciare, quanto un agire che proclami ciò che si è visto e sentito. La profezia inoltre è tale nella sua finalizzazione se la sua “notizia” è trasmissibile, e ciò è possibile se il “comunicante” trasmette sulla stessa lunghezza d’onda del ricevente. Senza sintonizzazione la notizia non passa: è come se una radio, in fedeltà ai gloriosi inizi, continuasse a trasmettere in “onde corte” o “medie”. Da ciò deriva che, in particolare i giovani, anche se ci sono vicini, sono nel contempo distanti. Ma si fa avanti una domanda: a indurre incomunicabilità è solo la questione di modalità di comunicazione e di inadeguatezza dei linguaggi tra le generazioni oppure sono gli elementi strutturali della Vita Religiosa distanti dalle sensibilità dei giovani d’oggi? E i profeti? Si è soliti dire che i profeti sono coloro che mantengono desta l’attesa degli avvenimenti finali. Ma questo non basta. È gente che, interrogata non solo dall’eterno ma anche dal presente, sa dare risposte valide all’attuale domanda di significato e sa produrre nuovi modelli di comportamento e nuove forme comunitarie a partire dalla vita e per la vita. Gente generatrice di nuove consapevolezze che spingono a rischiare i passi su strade non ancora percorse, nella certezza che il carisma non si è esaurito nelle forme storiche che ha finora assunto.

Di chi è propria la profezia?
Saper interpretare la volontà di Dio non è privilegio di qualcuno a cui toccano i diritti d’autore, ma di tutti coloro la cui vita esemplifica il vangelo ai contemporanei, all’interno di situazioni sociali profondamente cambiate, manifestando così che i beni di Dio sono già presenti in questo mondo. Però è anche vero che nella Chiesa, poco dopo le sue origini, sono sorti gruppi di persone che con alcune scelte di vita facevano risalire in nuce alla forma di vita di Cristo stesso e che con il passare dei secoli sono andati a costituire un bagaglio di sapienza e di esperienza evangelica tale che «la Chiesa non potrebbe fare a meno di questi testimoni eccezionali della trascendenza dell’amore di Cristo». Come si collocano questi – i Religiosi/e – all’interno della Chiesa? Giovanni Paolo II in un discorso metteva in luce il binomio della Chiesa che consiste nel rapporto tra profilo petrino e profilo mariano. Si rifaceva a von Balthasar secondo il quale l’aspetto istituzionale/ministeriale della Chiesa ne rappresenta il principio (profilo) petrino, mentre quello profetico/carismatico può essere definito come il principio mariano, vale a dire il profilo di Maria, la quale nella comunità dei credenti non ha un compito istituzionale, ma, solo rivestita di Spirito Santo, sintetizza in sé tutti i doni di grazia che la Chiesa riceve da Dio per essere santa. Il carisma di Maria, spiega von Balthasar, è come il carisma onnicomprensivo nel quale ogni carisma si riscopre. È il carisma di chi – come Maria al banchetto di Cana – si fa attento alla vita che languisce e si pone come persona del vino nuovo. È il carisma di chi, sul crinale tra il passato e il nuovo, è chiamato a trascinare il futuro nel presente osando chiedere già da subito – come Maria – un “anticipo”.
In riferimento alla Vita religiosa si tratta di darle nuova forma, corporeità, espressione di vita evangelica in dimensione appellante, che tale sarà se, in particolare i giovani, potranno trovarvi i luoghi dell’utopia, del sogno, della speranza e dell’impegno. A tal fine, ciò che più è decisivo è la Vita religiosa stessa e non la teologia della VR specie quella che consegna all’illusione delle grandi parole e all’insignificanza per l’esistere pratico.

Quale differenza tra VR e vita cristiana dei fedeli?
A partire dal XII sec. un elemento di differenziazione è stato, da parte di alcuni, l’impegnarsi con voto nel vivere alcuni aspetti di vita evangelica. Già da subito è andata configurandosi un’immagine di esperienza etico-virtuosa prevalentemente individuale, dai tratti austeri, contrapposta al mondo. Successivamente, nel corso della sua storia c’è stato via via un crescendo di comportamenti omologati, massificati per accumulo, e sacralizzati, a tal punto che “fedeltà evangelica” nella VR significava essere riproduttori, nel modo più preciso possibile, immutabile di un modello di conoscenza e di vita ereditati dal passato. Da qui l’alto tasso di “irreformabilità” creatosi nell’inconscio nei Religiosi/e, che continua ancora oggi a segnarne le scelte. Ma la Vita religiosa non è nata per essere differente ma per riorientare la vita cristiana alle sue origini, vivendo l’utopia del Regno come funzione critica all’interno del nostro contesto storico, culturale, sociale e politico. È la funzione indicata da Lumen Gentium (44): «La professione dei consigli evangelici appare come un segno, il quale può e deve attivare efficacemente tutti i membri della Chiesa a compiere con slancio i doveri della vocazione cristiana». Se questa è la sua funzione, la nostra preoccupazione allora è quella di essere un segno visibile e una sollecitazione rivolta a tutti a vivere secondo il Vangelo. Urs von Balthasar distingue tra una santità abituale e una santità rappresentativa; la seconda è quella propria di alcune persone chiamate da Dio a una vita spirituale «illustrazione ed esemplificazione del Vangelo ai nostri giorni». La vita carismatica si inserisce allora dentro il discepolato, a cui tutti sono chiamati, distinguendosene non soltanto per la sottolineatura di questo o quel particolare, ma per una propria concentrazione sull’intero Vangelo.

Quando i “voti” sollecitano a vivere il Vangelo?
Negli ultimi secoli soprattutto dalla fine del XVIII secolo, lo sguardo sui “voti” si è ristretto a prospettive morali e ascetiche individuali ed esclusive dei Religiosi, colti dalla maggior parte della gente come disinvestitura delle proprie possibilità umane piuttosto che come espressione, attraverso l’ intensità rappresentativa, di un valore per tutti i cristiani. In risposta a questa caduta di significato J.M.R.Tillard scriveva: «la mia castità di frate predicatore o mi libera per un amore per gli uomini o è una fuga pavida della mia sessualità. La mia obbedienza di frate predicatore o mi libera dai limiti e dalle illusioni del mio desiderio per aprirmi all’autentico volere di Dio sugli uomini oppure è un atto di rinuncia. La mia povertà di frate predicatore o mi libera dall’idolatria di mammona per aprirmi alla comunione oppure essa non è altro che la paura di sporcarmi con il denaro». Questa è la finalizzazione del voto per il noto teologo in quanto religioso, ma se, come disse Giovanni Paolo II, «la vita religiosa non dev’essere vista come una condizione a parte, propria di una categoria di cristiani, ma come punto di riferimento per tutti i battezzati», allora nel voto non deve emergere solo ciò che i Religiosi possono vivere, ma deve chiaramente rimandare in modo diretto a quello che è il senso di ogni vita cristiana. Allora il bene evangelico della povertà – meglio espressa nei termini di sobrietà, condivisione, solidarietà – indica il principio della carità applicata a un preciso ridimensionamento dei fini e dei mezzi in rapporto al vero fine dei beni, che è l’uomo, tutto l’uomo, e tutti gli uomini, a cominciare degli ultimi. Non consiste in una scelta pauperistica ma nel ricondurre i beni in quell’ottica nella quale Dio li ha creati in funzione di forme di realizzazione e soddisfazione qualitativamente più elevate. Il bene evangelico dell’obbedienza porta al cuore dell’obbedienza di Gesù per il quale non c’è la sottomissione a un altro uomo, quanto invece l’essere sovranamente liberi dinanzi alla volontà di Dio, dentro la comunione con un gruppo di fratelli (comunità cristiana), animati dal medesimo intento di abbattere i limiti del proprio desiderio. Infine il bene evangelico della castità che, oltre a rendere la sessualità trasparente alla carità pasquale dell’amare senza «possedere», orienta il cuore, senza pretese egoistiche, a un amore polifonico: “amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati”.

Quando il “servizio” delle nostre opere è profetico?
La novità del Vangelo è stata quella di avvicinare l’amore di Dio all’amore del prossimo per cui dove c’è una persona che tende la mano, chiedendo la “monetina” dell’amore, lì ci saranno i religiosi e le religiose pronti ad allargare le tovaglie della fraternità, sempre più ampie e pulite. Ma perché il servizio sia trasparentemente profetico non può essere raccolto soltanto attorno alla “prestazione”, occorre che insieme al bicchier d’acqua, si sappia aiutare a risalire alla sorgente da cui l’acqua è stata attinta. Non è profezia ridurre la VR a essere percepita prevalentemente in base alla sua utilità sociale, specie quando, come sta avvenendo, il mantenimento di standard sempre più esigenti e solo apparentemente qualitativi, hanno portato al centro la prestazione offerta, lasciando in secondo piano altre irrinunciabili dimensioni. Da tempo è sentita l’urgenza di passare dall’ “opera” all’“operare”, che significa, in riferimento alla parabola del buon samaritano, non quella di trovarsi nei panni dell’albergatore che offre un ricovero dietro pagamento, ma nei panni dello stesso samaritano che scende dalla sua cavalcatura e ne fascia le ferite. Questa parabola ci dice anche che non è profetico rendere forte la liturgia del tempio e meno la liturgia della vita, quella che si esprime nell’arte di amare, in particolare i tanti “Lazzaro” esclusi dalla festa, ai quali non basta fare beneficenza o “servirli”, ma è necessario stare in mezzo a loro, dalla loro parte, per renderli protagonisti del proprio riscatto, o più ampiamente, amare è stare tra la gente per far fermentare i germi di verità deposti nelle più profonde stratificazioni di ognuno, con attenzione alle dimensioni fondamentali della persona e ai suoi diritti e doveri: oggi è questo ciò che esprime meglio l’amore agli ultimi.

(Rino Cozza csj, su Testimoni 3 del 2012)