pane-spezzatoMarzo 2012

Il corpo crocifisso e risorto è per i discepoli memoria dell’amore per loro vissuto fino alla fine.
Proprio questo corpo ferito può parlare alla nostra comunità, sempre in qualche modo ferita.
Il corpo è l’unico luogo dell’amore, l’unico luogo di verità nell’esistenza cristiana.

Eucaristia, corpo consegnato...parabola della vita fraterna

 

 

Presentando l’ultimo convegno CISM per i formatori (Testimoni 2/2012) abbiamo accennato all’intervento di Luciano Manicardi, monaco di Bose, su Eucaristia: mistero e fascino del corpo consegnato che, per l’abbondanza di riflessioni e suggerimenti a partire dalla prospettiva del “corpo”, continuiamo a proporre ai nostri lettori.

Corpo che salva
La sera di Pasqua, il Signore si fa presente ai discepoli con il suo corpo ferito e con il suo soffio che dà vita. Il corpo è memoria dell’amore vissuto fino alla fine per loro, e lo Spirito è memoria delle parole di Cristo che danno pace e ispirano il perdono. È significativo notare che «lo Spirito vivificante procede dal corpo del risorto, corpo ferito, corpo segnato dall’amore vissuto e rifiutato, corpo che porta impressi i segni delle ferite dell’amore, delle ferite subite amando». Proprio questo corpo ferito può parlare alla comunità ferita dei discepoli. «Questa comunità che, come sempre ogni comunità, forse, è una povera comunità che vive una comunione ferita, che ha conosciuto strappi e lacerazioni, impara dal Crocifisso Risorto che le ferite possono divenire le feritoie attraverso cui passa il dono vivificante, il dono della vita, il dono dell’amore. Il corpo ferito e risorto di Gesù è per i discepoli memoria della storia d’amore vissuta insieme, è attualizzazione di tale storia non interrotta dalla morte, è donazione di futuro per continuare una storia di amore (Gesù dona loro lo Spirito), come lo è il pane sulla tavola eucaristica. Gesù non sta parlando di riti.  «L’evangelo parla di mani, di fianco, di respiro, di alito. Parla di corpo perché il corpo è l’unico luogo dell’amore, dunque l’unico luogo di verità in quella particolare esperienza umana che è l’esistenza cristiana. Lo Spirito non solo non contraddice il corpo e non vi si oppone, ma procede dal corpo, procede dal corpo del Risorto».Non esiste altro “luogo” concreto per l’amore al di fuori del corpo, «perché la vita che lo Spirito dona è la vita sotto la signoria dell’amore. E luogo dell’amore è la vita, luogo dell’amore è la parola, cioè, luogo dell’amore è il corpo. Quale corpo? Il corpo che si dona, che si consegna, che si spoglia per donarsi come fa Gesù quando si spogliò delle sue vesti per porsi a servizio del corpo dei suoi discepoli lavando i loro piedi e significando così l’amore con cui li amava e con cui li avrebbe amati fino alla morte di croce. E anche oltre tale morte». È intrinseco e concreto il legame tra vita ed Eucaristia. «La vita che denuda e toglie, così come l’Eucaristia che è memoria della povertà di Cristo, del Christus nudus, del Risorto con i segni della passione, consente l’incontro con i discepoli, con noi. Gesù incontra i discepoli là dove essi sono, non nella solennità di un rito, ma nella nudità della loro vita, nella loro paura, nella loro chiusura, e dona loro respiro e alito, capacità di trovare nuovo soffio, di dilatare il respiro paralizzato dalla paura. E per far questo il Risorto non può che presentarsi nella sua debolezza. Il Cristo di cui facciamo memoria è il Cristo spoglio, anche nella gloria di Risorto. Il Risorto non teme la propria debolezza, non teme la propria vulnerabilità, anzi mostra come trofeo i segni vittoriosi dell’amore, mostra come unica sua gloria l’amore, l’amore di cui sono sigillo indelebile le ferite ricevute». Risurrezione e pentecoste insieme, la storia del Risorto dà inizio alla storia dei credenti «con un incontro di amore che, come ogni incontro di amore, avviene nel corpo, nella comunicazione da corpo a corpo, dal corpo del Risorto al corpo spaventato e impaurito dei discepoli. Ma corpo dei discepoli che dalla paura passa alla gioia, ritrova la gioia, la gioia comunitaria al vedere il Signore, il Signore mite e amante anche nella gloria della risurrezione».

Etica eucaristica
La vita del credente è caratterizzata dal rendimento di grazie: Vivete nell’azione di grazie (Col 3,15). Questo testo non si riferisce alla preghiera di azione di grazie, ma a un aspetto essenziale e decisivo dell’etica cristiana. «Un aspetto però troppo spesso dimenticato e che può essere recuperato soltanto raccordando opportunamente l’agire cristiano al mistero pasquale, dunque al momento celebrativo dell’esistenza cristiana, ed eminentemente all’Eucaristia, “fonte e apice di tutta la vita cristiana” (LG 11)». E dal momento che «il dono celebrato nell’eucaristia è un dono assolutamente incommensurabile e non contraccambiabile (è tutta l’opera di Dio, passata presente e futura, di creazione e salvezza, di santificazione e redenzione attuata in Cristo per mezzo dello Spirito), l’unica risposta possibile è la gratitudine. L’Eucaristia è così il più alto magistero di vita del cristiano: essa lo conduce al riconoscimento della giusta relazione che lo lega a Dio e che lo situa tra gli altri uomini; essa svela all’uomo che ciò che egli è, dunque il suo stesso corpo, e non solo ciò che egli ha (cf. 1Cor 4,7: “Che cosa hai che non hai ricevuto?”), è sotto il segno del dono preveniente di Dio. Tale gratuità, che fonda l’uomo e lo fa essere, non è mai neutrale, anzi è sempre esigente, e richiede come sola possibile risposta adeguata la riconoscenza, la gratitudine». Dunque, «eucháristos, cioè “capace di rendimento di grazie”, è il nome stesso del cristiano. La fede è esattamente il discernimento del dono di Dio in Gesù Cristo, il riconoscimento di ciò che Dio ha compiuto “per me”, da cui nasce la gratitudine che si manifesta nell’azione di grazie». Al punto che la vita del credente diviene essa stessa eucaristia. «Non si dimentichi mai – ricorda Manicardi citando Vanhoye – che nell’economia cristiana l’essenza del culto non risiede nella ritualità, ma nella relazione con Cristo e che pertanto è l’intera vita dell’uomo, la sua corporeità, il luogo di culto: culto che deve essere reale, personale, esistenziale ».

Eucaristia e affettività
«Può essere inusuale collegare Eucaristia e affettività o perfino Eucaristia e sessualità, e tuttavia l’amore che è al cuore della celebrazione eucaristica, e che è l’agape vissuto da Cristo, è amore certamente purificato, gratuito, disinteressato, liberato dagli impulsi istintuali, ma che avviene nel corpo umano, che è un corpo  sessuato, e che investe la dimensione affettiva della persona umana». Le parole dell’ultima cena: hoc est corpus meum quod pro vobis tradetur, “questo è il mio corpo consegnato per voi” – sottolinea Manicardi – «pongono l’atto dell’amore di Cristo sotto il segno della consegna del corpo, che esprime al meglio il dono della vita». Sono due i momenti basilari nell’Eucaristia: il pasto e la parola, l’atto di mangiare e l’atto di parlare, e dicono riferimento al mondo concreto dell’esperienza percettiva, il cui significato è accessibile a tutti. Lungo la storia, tuttavia, «la tradizione cattolica ha spiritualizzato il pane eucaristico riducendolo a esilissima ostia e ha de-corporeizzato l’atto di mangiare inculcando il fatto che l’ostia non doveva essere masticata, toccata dai denti del comunicante (e ancora oggi vi è chi grida allo scandalo se si riceve l’ostia sulle mani), e che ha tralasciato la comunione al calice, al be-re quel vino, simbolo del sangue di Cristo, che Gesù, secondo le redazioni di Mt e Mc dell’istituzione eucaristica, aveva chiesto che “tutti” bevessero (Mt 26,27; Mc 14,23)». Eppure il verbo greco per “mangiare” di Gv 6,57 (“Chi mangia me, anch’egli vivrà per mezzo di me”) è trógo, letteralmente masticare. «Contiene cioè un riferimento all’attività di masticazione essenziale all’atto di mangiare e che implica la trasformazione del cibo tramite la distruzione delle forme solide per renderle digeribili e assimilabili ». Un realismo aspro che va recuperato. «Chi fa vita religiosa – nota Manicardi – non fatica a riconoscere che il quotidiano preparare da mangiare e servire a tavola è il primo e fondamentale atto di servizio dell’altro servendo il suo corpo, dicendogli: Ti amo, voglio che tu viva». Così come l’atto di Mangiare «è epifania della comunità, luogo di intensità non minore alla partecipazione eucaristica. L’uomo mangia insieme con altri uomini e il mangiare è connesso a una tavola, luogo primordiale di creazione di amicizia, fraternità, alleanza e società. A tavola non si condivide solo il cibo, ma si scambiano anche parole e discorsi nutrendo così le relazioni, ovvero ciò che dà senso alla vita sostentata dal cibo. (…) Legato com’è all’oralità e al desiderio, l’atto di mangiare investe la sfera affettiva ed emozionale dell’uomo. A tavola si scambiano sorrisi e sguardi e si impara che il senso si innesta sui sensi. Il modo di mangiare è rivelativo della nostra affettività », poiché il nostro dire è sempre anche un dirsi, e «si situa su quel registro della consegna che è il trait d’union di una catena comunicativa che nasce dal Padre, prosegue nel Figlio e, attraverso il dono dello Spirito, raggiunge i credenti ispirando il loro comunicare per renderlo luogo di comunione con Dio».

(Enzo Brena, su Testimoni 3 del 2012)