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mattiap27 Giugno 2012

Il sorriso di don Gianni. Un ''missionario clown'' tra i malati di un ospedale

Preti in camice bianco

Sono preti in camice bianco. Prestano assistenza laddove esserci conta veramente, divenendo la risposta concreta a chi s’interroga su dove sia Dio mentre l’uomo soffre. Basta osservarli per avere chiara l’idea di carità, quella vera, quella vissuta tra i corridoi di un ospedale dove, ogni giorno, i sorrisi che accompagnano una nuova vita si confondono con le lacrime per un’esistenza spezzata. A parlarci dell’attività del cappellano ospedaliero è don Gianni Mattia, dal 1998 cappellano al “Vito Fazzi” di Lecce; un prete che, dopo l’incontro con una ragazza ricoverata nel reparto di rianimazione, decise di fare del suo sacerdozio un mandato del sorriso, specializzandosi come missionario clown. Grazie ai dipendenti del “V. Fazzi” che vollero far convogliare una quota della propria busta paga in un Fondo di solidarietà permanente, nel 2001 si diede vita alla onlus “Cuore e mani aperte verso chi soffre”. Negli anni l’associazione ha realizzato diversi progetti tra cui la casa d’accoglienza per i familiari dei degenti – che offre il suo servizio grazie al costante impegno della comunità delle Figlie della carità – e la “Bimbulanza”, la prima ambulanza pediatrica del Sud adibita al trasporto dei piccoli pazienti da e per l’ospedale.

Un po’ preti, un po’ psicologi. Spesso testimoni degli ultimi momenti di vita dei degenti. Come si riesce a essere d’aiuto senza sentirsi schiacciati da tanta sofferenza?
“Mantenere una certa distanza emotiva è la prima indicazione. È molto difficile, ma è necessario non farsi soffocare dal dolore che ci circonda per poter trovare in noi, nuovamente, un sorriso da offrire; personalmente scarico la tensione correndo, immergendomi nella natura a meditare. Chi svolge attività di assistenza in ospedale viene spesso descritto come una persona di grande sensibilità, ma la verità è che per vivere accanto a chi soffre è necessario essere sensibili e forti al tempo stesso. Accade anche a noi, infatti, di non avere parole soprattutto quando in quel letto di ospedale, attaccato al respiratore, c’è un bambino con gli occhi che guardano nel vuoto, occhi che alle volte riescono persino a comunicare”.

Può parlarci di un caso che, in questi anni di servizio accanto a tanti capezzali, l’ha segnata in modo particolare?
“Sono tante le storie e le persone che hanno segnato la mia vita. Mi è rimasta impressa la storia di un bambino che, a seguito di un incidente, rimase orfano e paraplegico… quello fu un momento particolarmente difficile per me. Ma in ospedale c’è anche chi ha sconfitto un tumore, chi è uscito dalla rianimazione o chi, giovanissimo, pur con gli arti amputati, dimostra un disarmante attaccamento alla vita. Quello che può dire un malato, dalla cattedra del dolore, non posso dirlo io che sto bene e le parole di un sofferente insegnano più di quanto potrebbe fare qualsiasi mentore, qualsiasi manuale”.

Ha qualche rammarico come cappellano ospedaliero?
“L’amarezza più grande è per una lotta che non sono riuscito a vincere, quella contro l’aborto. Ho combattuto tanto per fare un cimitero per bambini non nati ma, al momento, non ho avuto riscontri. Sarebbe bello che quelli che molti chiamano ‘prodotti’ venissero sepolti restituendo la dignità che spetta loro, la dignità di bambini, di vite umane! Ogni martedì, la giornata dedicata alle interruzioni volontarie di gravidanza, nel nostro ospedale vengono praticati dagli 8 ai 14 aborti, cui si aggiungono gli aborti terapeutici. Vorrei che tutte le parrocchie della nostra diocesi e i Centri per la vita sensibilizzassero al discorso dell’aborto, troppo spesso taciuto”.

Qual è la domanda più difficile che i pazienti le pongono?
“‘Perché?’. Ma al perché io non ho risposta; la sofferenza rimane un mistero. Ci si può solo rivolgere a Dio per chiedere il senso di questa sofferenza – che non so se si potrà comprendere su questa terra – e la forza per sopportarla. Non bisogna dimenticare che Dio è amore e, in quanto Onnipotente, ha la capacità di stupire. Di fronte a questa presa di coscienza l’unica cosa che può salvarci è la preghiera che forse non è in grado di eliminare la sofferenza, però ci aiuta a sopportarla”.

Qualcuno sostiene che negli ospedali dovrebbero esserci anche religiosi appartenenti ad altre Confessioni. Cosa ne pensa?
“Fino ad oggi non ci sono state richieste in merito, anche perché qui al Sud circa l’85% è cattolico, ma se un paziente o un familiare chiedesse di avere un contatto con un ministro di un altro culto, io asseconderei la richiesta”.

Se è dovere dello Stato assicurare la buona salute dei cittadini, c’è davvero bisogno del volontariato?
“Il volontario non si sostituisce al personale medico. La sua è, piuttosto, una figura di accompagnamento e supporto, per cui il paziente non è un numero o una patologia, ma una persona che ha bisogno anche di ascolto. L’umanizzazione del mondo della salute è dettata anche da questo. In ospedale abbiamo circa 80 volontari che ogni giorno fanno clown-terapia nei reparti di pediatria, ortopedia e psichiatria, cui si aggiungono occasionalmente anche altri gruppi di volontari che offrono, tra i vari servizi, anche quello di counseling”.

(a cura di Serena Carbone “L’Ora del Salento” - Lecce su www.agensir.it)