STORIE DI VITA - Mondo Voc maggio 2011                                                 Torna al sommario

 


MARIE THERESE MITSINDO

"La buona samaritana" ruandese

 

di Vito Magno

 

Diciasette anni fa era una donna in fuga  dal genocidio ruandese, oggi è responsabile di una Cooperativa Sociale per Rifugiate a Sezze, in provincia di Latina. Marie Therese Mitisindo, sfuggita ai massacri insieme ai suoi 4 figli, in dieci anni ha accolto nel suo Centro, e aiutato a trovare un lavoro, un migliaio di profughe. Accogliere per lei significa innanzitutto ridare dignità a chi arriva in Italia dopo terribili violenze. Come credente attinge la forza dalla Bibbia e dalla devozione alla Madonna, continuando una tradizione di famiglia.


Mitisindo_1Perché è fuggita dal Ruanda?

C’era la guerra, c’era il genocidio, e ognuno scappava per salvarsi. Facevo parte di una famiglia agiata, mio padre era docente universitario, mio marito era medico, io mi ero laureata in assistenza sociale in Belgio. Sfuggii miracolosamente al massacro con i miei 4 figli. Mio marito ci raggiunse in seguito, ma dopo pochi mesi morì a causa di un tumore.


È stata, dunque, una decisione sofferta, presa in fretta!

Chi ci ha protetto ci ha detto che avevamo solo cinque minuti per scappare. Ci ha fatto accompagnare da un militare fino alla frontiera del Congo, da lì siamo andati in Kenia e poi in Tanzania, per arrivare, infine, in Italia.


Qui si è trovata bene?

I primi tempi sono stata molto male, non ho trovato accoglienza. Poi sono andata presso un Centro Caritas a Torvaianica, e ho trovato lavoro come badante di un’anziana nel comune di Sezze. Nel frattempo mi è stata riconosciuta la laurea dallo Stato e mi sono impiegata come assistente sociale in un’associazione che si occupa dei rifugiati. In seguito ad un bando del 2001, ho presentato il progetto, poi approvato e finanziato dal Ministero degli Interni, del Centro Karibù (tradotto significa benvenuto) per l’assistenza delle profughe africane.


Mitisindo_6Che tipo di servizi  offre alle rifugiate la sua cooperativa sociale?

Accogliamo le donne sole con bambini. Ci adoperiamo per il loro accompagnamento legale, sociale, psicologico ed anche per trovare casa e lavoro.


 Chi l’aiuta?

Avvocati, psicologi, assistenti sociali, educatori.


Quante sono attualmente le assistite?

A Sezze sono 25 e a Roccagorga ve ne sono 15.


In 10 anni quante rifugiate è riuscita a sistemare?

Più di 1000.


Che storie hanno alle loro spalle?

Storie di violenza, di prigione, di torture, di perdita di familiari e di figli.


Può raccontare una storia che più l’ha colpita?

Sono tante, perché nel Centro di Sezze arrivano i casi più vulnerabili. Per esempio una donna a cui hanno ucciso il marito e lo hanno lasciato per terra davanti ai suoi bambini Quando i militari sono andati via alcune persone li hanno presi e li hanno consegnati ai loro familiari. Ma questi, per non testimoniare quello che era accaduto, li hanno spediti in un altro Paese africano e hanno dato loro del denaro per farli giungere in Italia.


Restano in Italia le rifugiate che passano dal suo Centro?

Tante sì. Abbiamo avuto cinque rimpatri. Qualcuna di loro è andata a ricongiungersi con i familiari che abitano in altri paesi europei: Belgio, Francia, ecc. Però noi cerchiamo di non tenere molle donne nel territorio di Sezze, che ha solo 25 mila abitanti. Per questo motivo cerchiamo di creare una rete anche con gli altri Centri del Ministero degli Interni. Li mandiamo sia al Nord Italia, dove c’è più lavoro, che al Sud. In pratica su tutto il territorio nazionale.


Dalla sua cooperativa passano solo donne africane?

Ho chiesto al Ministero di ospitare soprattutto africane: etiopi, somale, congolesi, nigeriane. Però alcune volte mi mandano anche donne di altre nazionalità, soprattutto curde, afgane, pakistane.


È cristiana?

Sono cattolica.


Cosa aggiunge la fede al suo impegno sociale?

Un abbraccio, la sincerità, la disponibilità.


Nostalgia del Ruanda, dei beni di famiglia che ha lasciato quando è dovuta scappare?

Non  ho nostalgia. Ho sofferto tanto che non ho avuto tempo di elaborare tutto ciò che mi è capitato. Ho paura di guardare indietro. Ho paura di soffrire. Sono arrivata qui con i miei figli e dovevo pensare a lavorare, a fare di tutto per crescerli, per dare loro la possibilità di studiare. Fermarmi dopo 17 anni per piangere di nuovo, no! Ancora non ho questo coraggio.

 

 

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