ORIENTARSI - Mondo Voc gennaio 2011 Torna al sommario
Fedeltà di Dio e paura dell’uomo.
Ma Dio mantiene le promesse?
Paura di un fallimento? Timore di impegnarsi per la vita? L’amore di Dio che chiama, “garantisce” una risposta di fedeltà da parte della persona.
di Amedeo Cencini
È considerato uno degli ostacoli più seri per la nascita di una vocazione cristiana: il timore del “per sempre”, della scelta definitiva che abbraccia tutta la vita e non potrà essere più smentita. Tale timore a livello psicologico può avere molte radici (l’esperienza passata di un qualche fallimento, una certa sfiducia verso se stessi, l’obiettiva difficoltà di una scelta impegnativa ecc), ma in realtà viene da ancora più lontano, o da una diffidenza non solo verso il basso, bensì… verso l’alto, Dio. “Sarà, questo Dio, fedele? Le mantiene le promesse? È un Dio affidabile?...” Questo è il vero problema, perché una certa sacrosanta paura dinanzi all’ipotesi di una vita casta, povera e obbediente in un mondo come quello di oggi è del tutto naturale, anzi, è bene che ci sia tale dubbio su di sé; mentre è meno comprensibile e più inquietante che il dubbio coinvolga Dio: questo equivoco occorre sfatare. Vediamo, allora, il problema come si presenta nella Scrittura.
Caleb il “fedele”
Quando Israele sta per entrare nella terra promessa, Caleb si presenta a Giosuè per ricordargli una promessa che Mosè gli aveva fatto quando, inviato come esploratore a perlustrare la terra, si oppose a chi screditava quella terra provocando il panico tra gli ebrei e tenne viva la fiducia del popolo verso il Signore, rimanendo così a lui fedele. Mosè allora gli disse: “La terra che il tuo piede ha calcato sarà in eredità a te e ai tuoi figli, per sempre, perché hai seguito fedelmente il Signore, mio Dio” (Gs 14,9). Caleb dopo 45 anni chiede al successore di Mosè l’attuazione della promessa. In fondo se l’è meritata con la sua condotta di vita. Giosuè, infatti, che ricorda molto bene quella promessa, concede la terra di Ebron a Caleb (ottantacinquenne) e alla sua discendenza. Ma cosa c’è dietro a questa richiesta di Caleb, esploratore fedele? C’è una certa immagine di Dio come di colui che fa delle promesse, ma come un premio per la mia buona condotta, promesse che io gli devo ricordare (lui forse potrebbe dimenticarle), e di cui in qualche modo ho il diritto di chiedere il compimento a motivo, ancora, della mia buona condotta. Come se la fedeltà di Dio fosse una risposta alla mia fedeltà. Diciamo che è il primo e più elementare livello interpretativo nella dinamica tra l’uomo e Dio, la cui immagine appare ancora troppo vincolata a modelli umani. Chiaro che a questo livello anche l’ipotesi vocazionale rischia di essere molto debole o di non realizzarsi mai, perché sarebbe un “prodotto” o un merito solo umano. Troppo oneroso o tale da incutere paura per le sue esigenze e per quel “per sempre”, espressione che non esiste più nel vocabolario del giovane di oggi.
“Dio è fedele”
Ma la rivelazione del Dio della Bibbia è su questo punto sempre più chiara: la vera fedeltà, quella da cui ogni altra fedeltà discende, è la fedeltà di Dio, anzi, la fedeltà è il nome di Dio, la sua verità. E la fedeltà umana trova il suo senso e diviene realtà solo grazie a quella divina. È Dio, infatti, che è fedele all’uomo, sempre. E lo dimostra attraverso il figlio Gesù e la fedeltà con cui va incontro alla sua morte e risurrezione portando a termine la sua missione. In essa il Figlio stesso – a sua volta – non solo mostra in che modo anche l’uomo è chiamato a rispondere alla fedeltà di Dio, ma soprattutto lo rende capace di essere fedele, lo salva dall’infedeltà o dalla presunzione di poter da solo essere fedele, e assieme lo libera dalla paura di fare una scelta che sia per sempre, per tutta la vita. Presunzione e paura che renderebbero improbabile o addirittura impossibile una scelta vocazionale. Se Dio è fedele, invece, l’uomo può fare anche le scelte più difficili e impopolari, rischiose e persino irrise…
Pietro e il centuplo
Ma dura è la cervice umana, ed ecco infatti Pietro … presentare il conto al Maestro (un po’ come Caleb): “Noi che ti abbiamo seguito che ricompensa avremo?”. Gesù sta al gioco, e gli promette non solo una vita eterna, dopo la morte, ma già fin d’ora addirittura il centuplo di ciò cui ha rinunciato (cf Mc 10,28-30). Non so quanto Pietro ci abbia creduto; certo Gesù non voleva illudere nessuno, ma semmai dire a Pietro e a tutti noi che Dio è fedele, che non si lascia vincere in generosità, che la sua chiamata è senza pentimento, che mantiene la parola data, che vuole la felicità di chi lo segue, la cui rinuncia è ben poca cosa rispetto al dono-sorpresa preparato per lui dal Signore.
Dalla presunzione alla fiducia
Pietro è ancora molto lontano dalla logica di Gesù, così tanto da presumere di promettergli fedeltà imperitura: “Anche se dovessi morire con te, io non ti rinnegherò” (Mt 26,34). Bella autoproclamazione di fedeltà, bella quanto fragile, perché totalmente costruita sui propri “muscoli” e i propri sogni di perfezione. Di lì a poco, infatti, Pietro il presuntuoso rinnegherà per tre volte il Maestro, negando persino di conoscerlo... Ovvero il tradimento, un tradimento per eccesso di presunzione o un’infedeltà, nell’ora della prova, per l’eccessiva sicurezza della propria fedeltà. Com’è diversa la scena quando Gesù, dopo la risurrezione, chiede a Pietro se lo ama più degli altri. Pietro, allora, mostra di avere capito la lezione. Non gli dice di sì, non gli risponde sicuro di sé. Ormai egli ha un’unica certezza: che il Maestro lo ama, perché lo ha perdonato, fino a ristabilirlo nella sua dignità all’interno del gruppo, quel Gesù fedele fino alla croce, mentre Pietro provvedeva a salvarsi la pellaccia. Di fronte a una persona così ciò che conta non è nemmeno ciò che Pietro sa o crede di sapere di sé, ma quel che Gesù sa di lui. Questo gli basta: “se tu, Signore, mi chiami a pascere il tuo gregge, non ha alcun senso che io verifichi le mie capacità; tu mi vuoi bene, dunque sai tutto di me… Il tuo amore è la mia fedeltà”.
Fedeltà di Dio e paura dell’uomo.
Ma Dio mantiene le promesse?
Paura di un fallimento? Timore di impegnarsi per la vita? L’amore di Dio che chiama, “garantisce” una risposta di fedeltà da parte della persona.
di Amedeo Cencini
È considerato uno degli ostacoli più seri per la nascita di una vocazione cristiana: il timore del “per sempre”, della scelta definitiva che abbraccia tutta la vita e non potrà essere più smentita. Tale timore a livello psicologico può avere molte radici (l’esperienza passata di un qualche fallimento, una certa sfiducia verso se stessi, l’obiettiva difficoltà di una scelta impegnativa ecc), ma in realtà viene da ancora più lontano, o da una diffidenza non solo verso il basso, bensì… verso l’alto, Dio. “Sarà, questo Dio, fedele? Le mantiene le promesse? È un Dio affidabile?...” Questo è il vero problema, perché una certa sacrosanta paura dinanzi all’ipotesi di una vita casta, povera e obbediente in un mondo come quello di oggi è del tutto naturale, anzi, è bene che ci sia tale dubbio su di sé; mentre è meno comprensibile e più inquietante che il dubbio coinvolga Dio: questo equivoco occorre sfatare. Vediamo, allora, il problema come si presenta nella Scrittura.
Caleb il “fedele”
Quando Israele sta per entrare nella terra promessa, Caleb si presenta a Giosuè per ricordargli una promessa che Mosè gli aveva fatto quando, inviato come esploratore a perlustrare la terra, si oppose a chi screditava quella terra provocando il panico tra gli ebrei e tenne viva la fiducia del popolo verso il Signore, rimanendo così a lui fedele. Mosè allora gli disse: “La terra che il tuo piede ha calcato sarà in eredità a te e ai tuoi figli, per sempre, perché hai seguito fedelmente il Signore, mio Dio” (Gs 14,9). Caleb dopo 45 anni chiede al successore di Mosè l’attuazione della promessa. In fondo se l’è meritata con la sua condotta di vita. Giosuè, infatti, che ricorda molto bene quella promessa, concede la terra di Ebron a Caleb (ottantacinquenne) e alla sua discendenza. Ma cosa c’è dietro a questa richiesta di Caleb, esploratore fedele? C’è una certa immagine di Dio come di colui che fa delle promesse, ma come un premio per la mia buona condotta, promesse che io gli devo ricordare (lui forse potrebbe dimenticarle), e di cui in qualche modo ho il diritto di chiedere il compimento a motivo, ancora, della mia buona condotta. Come se la fedeltà di Dio fosse una risposta alla mia fedeltà. Diciamo che è il primo e più elementare livello interpretativo nella dinamica tra l’uomo e Dio, la cui immagine appare ancora troppo vincolata a modelli umani. Chiaro che a questo livello anche l’ipotesi vocazionale rischia di essere molto debole o di non realizzarsi mai, perché sarebbe un “prodotto” o un merito solo umano. Troppo oneroso o tale da incutere paura per le sue esigenze e per quel “per sempre”, espressione che non esiste più nel vocabolario del giovane di oggi.
“Dio è fedele”
Ma la rivelazione del Dio della Bibbia è su questo punto sempre più chiara: la vera fedeltà, quella da cui ogni altra fedeltà discende, è la fedeltà di Dio, anzi, la fedeltà è il nome di Dio, la sua verità. E la fedeltà umana trova il suo senso e diviene realtà solo grazie a quella divina. È Dio, infatti, che è fedele all’uomo, sempre. E lo dimostra attraverso il figlio Gesù e la fedeltà con cui va incontro alla sua morte e risurrezione portando a termine la sua missione. In essa il Figlio stesso – a sua volta – non solo mostra in che modo anche l’uomo è chiamato a rispondere alla fedeltà di Dio, ma soprattutto lo rende capace di essere fedele, lo salva dall’infedeltà o dalla presunzione di poter da solo essere fedele, e assieme lo libera dalla paura di fare una scelta che sia per sempre, per tutta la vita. Presunzione e paura che renderebbero improbabile o addirittura impossibile una scelta vocazionale. Se Dio è fedele, invece, l’uomo può fare anche le scelte più difficili e impopolari, rischiose e persino irrise…
Pietro e il centuplo
Ma dura è la cervice umana, ed ecco infatti Pietro … presentare il conto al Maestro (un po’ come Caleb): “Noi che ti abbiamo seguito che ricompensa avremo?”. Gesù sta al gioco, e gli promette non solo una vita eterna, dopo la morte, ma già fin d’ora addirittura il centuplo di ciò cui ha rinunciato (cf Mc 10,28-30). Non so quanto Pietro ci abbia creduto; certo Gesù non voleva illudere nessuno, ma semmai dire a Pietro e a tutti noi che Dio è fedele, che non si lascia vincere in generosità, che la sua chiamata è senza pentimento, che mantiene la parola data, che vuole la felicità di chi lo segue, la cui rinuncia è ben poca cosa rispetto al dono-sorpresa preparato per lui dal Signore.
Dalla presunzione alla fiducia
Pietro è ancora molto lontano dalla logica di Gesù, così tanto da presumere di promettergli fedeltà imperitura: “Anche se dovessi morire con te, io non ti rinnegherò” (Mt 26,34). Bella autoproclamazione di fedeltà, bella quanto fragile, perché totalmente costruita sui propri “muscoli” e i propri sogni di perfezione. Di lì a poco, infatti, Pietro il presuntuoso rinnegherà per tre volte il Maestro, negando persino di conoscerlo... Ovvero il tradimento, un tradimento per eccesso di presunzione o un’infedeltà, nell’ora della prova, per l’eccessiva sicurezza della propria fedeltà. Com’è diversa la scena quando Gesù, dopo la risurrezione, chiede a Pietro se lo ama più degli altri. Pietro, allora, mostra di avere capito la lezione. Non gli dice di sì, non gli risponde sicuro di sé. Ormai egli ha un’unica certezza: che il Maestro lo ama, perché lo ha perdonato, fino a ristabilirlo nella sua dignità all’interno del gruppo, quel Gesù fedele fino alla croce, mentre Pietro provvedeva a salvarsi la pellaccia. Di fronte a una persona così ciò che conta non è nemmeno ciò che Pietro sa o crede di sapere di sé, ma quel che Gesù sa di lui. Questo gli basta: “se tu, Signore, mi chiami a pascere il tuo gregge, non ha alcun senso che io verifichi le mie capacità; tu mi vuoi bene, dunque sai tutto di me… Il tuo amore è la mia fedeltà”.
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